Onorina Brambilla Pesce nacque a Milano il 27 agosto 1923. Il suo impegno nella Resistenza le valse, dopo la fine del conflitto, la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Era una Gappista. Percorreva chilometri in bicicletta o a piedi per la città, a ogni ora e con ogni tempo, col sole o con la pioggia, “spesso passando con il cuore in gola in mezzo ai nazifascisti”, per svolgere la sua mansione di collegamento.
Durane la guerra venne catturata il 12 settembre 1944 a causa della soffiata di un delatore. Dopo l’arreso venne portata a Monza, presso la “Casa del Balilla”.
La picchiarono “con forza”, poi trasferirono alle carceri della città, dove rimase per 2 mesi in una cella isolata.
Ne uscì per essere deportata nel campo di concentramento di Bolzano.
Fece tesoro della sua drammatica esperienza, raccontando in un libro i giorni della prigionia.
Del suo arrivo a Bolzano scrisse: «Arrivammo al campo di concentramento di Bolzano il 12 novembre 1944. Fu in quella livida domenica mattina che per la prima volta vidi un campo di prigionia: le baracche, i prigionieri, le mura, i reticolati, le sentinelle sulle piazzole di guardia. La divisa del campo era una casacca con pantaloni di grossa tela da imballaggio bianco sporco, sulla schiena spiccava una grossa croce in colore rosso che doveva distinguerci come prigioniere. A noi ultime arrivate avevano però dato il permesso di tenerci anche i nostri vestiti. Probabilmente cominciavano a scarseggiare le possibilità di dare a tutti una divisa. Indossai la casacca e pantaloni di tela sopra i miei abiti, perché faceva freddo. Mi fu assegnato il numero di matricola 6087, col triangolo rosso dei politici e fui destinata al blocco F.
Calci, colpi di randello, frustate, accompagnati da urla terribili, ci venivano inflitti per i più futili motivi.
Guai a non osservare la brutale disciplina.
Le punizioni avvenivano non solo nei blocchi, a volte si veniva portati nella palazzina del Comando, o nelle celle di punizione, che erano stanzette di cemento, buie e gelate. Qui si finiva nelle mani di due giovani ucraini di origine tedesca, Michael Seifert e Otto Stein. Il primo aveva il viso sempre ben rasato, il secondo portava due grandi baffi da tartaro. Massacrarono almeno una ventina di prigionieri.
Il cibo era una disgustosa brodaglia, e chissà cosa c’era nel pane.
Passavamo intere giornate a parlare di cibo, la fame non ci abbandonava mai.
Per fortuna potevamo scrivere lettere e ricevere dei pacchi dalle famiglie (che spesso erano trattenuti dai sorveglianti).
Quando i pacchi arrivavano, non duravano un’ora: dividevamo ogni cosa, e questo non era solo un aiuto materiale, ma soprattutto morale. Io li ricevevo da mia madre, che li otteneva con l’aiuto di Visone dall’organizzazione clandestina.
In tutta la baracca c’era solo una stufa, ma questo non ha mai causato risse per l’accaparramento dei letti più caldi lì intorno. Tra noi donne c’era una certa serenità, cosa che non sempre, accadeva tra gli uomini …»
Onorina tornò viva dal lager.
Dopo la Liberazione sposò proprio Visone, Giovanni Pesce, l’uomo che aiutava sua madre a preparare i pacchi che riceveva durante la prigionia.
Divenne presidente dell’Associazione ex perseguitati politici italiani antifascisti di Milano e responsabile della Commissione femminile dell’ANPI.
Morì a Milano il 6 novembre 2011.
A lei va il nostro ricordo e la nostra gratitudine per il coraggio dimostrato durante la Resistenza.
