Il massacro di Meje, una strage di civili dimenticata

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Dopo la caduta di Milošević emerge che i  cadaveri dei civili albanesi trucidati quel giorno sono stati caricati con una ruspa su camion e trasportati a un centro di addestramento dell'Unità speciale antiterrorismo serbo, vicino a Belgrado....

27 aprile 1999.
E’ mattina presto quando le forze governative jugoslave e la polizia serba  decidono di attaccare senza preavviso Meje,  un piccolo villaggio cattolico del Kosovo, situato a pochi chilometri a nord ovest da Gjakova.
I soldati entrano nel villaggio e spingono i residenti a riunirsi vicino alla scuola. Tra la folla vengono prelevati gli uomini di età compresa fra i 16 e i 60 anni, che sono circa 150. Vengono divisi in gruppi di 20 e uccisi a colpi d’arma da fuoco e di arma automatica alla testa.
Una rappresaglia violenta avvenuta in seguito alla morte di quattro soldati uccisi il 21 aprile in un attentato.
Nello stesso momento le forze governative e la Polizia procedono all’espulsione degli Albanesi del Kosovo nella zona compresa fra Gjakova e Junik.


I residenti dei villaggi di  Pacaj, Nivokaz, Dobroš, Šeremet, Jahoc, Ponoshec, Racaj, Ramoc e Madana, vengono cacciati dalle loro case ed espulsi dal paese. I villaggi vengono circondati e il fiume di persone che si riversa sulle strade viene guidato attraverso Gjakova.  le case vengono date alle fiamme, dei villaggi fino a poco prima abitati resta soltanto un cumulo di macerie fumanti.
L’ordine di  andarsene è arrivato quella mattina alle 5:00.
La polizia aveva bussato alle  porte dicendo: “Uscite di casa perché la bruceremo”.
Un fiume di persone viene costretta a dirigersi verso Meje, mentre i poliziotti serbi allestiscono un posto di blocco dove aspettano i profughi in arrivo. Molti degli agenti di polizia indossano maschere nere “fantasma”, per non mostrare il loro volto.
Gli sfollati vengono perquisiti alla ricerca di denaro e oggetti di valore e se rifiutano di consegnarli vengono picchiati e minacciati di morte.
Gli uomini vengono separati dalle donne e con sistematica freddezza i soldati procedono alle esecuzioni. I boschi e i prati sono pieni di cadaveri, le strade sono ricoperte di sangue.
Le donne vengono prima stuprate e poi uccise….neppure i bambini vengono risparmiati.
Quelli che  riescono a fuggire possono ancora sentire gli spari riecheggiare in lontananza, mentre si allontanano col errore negli occhi.


La notizia del massacro si sparge già il  giorno successivo.
I ricercatori di Human Rights Watch visitano Meje il 15 giugno, dopo l’entrata in Kosovo delle Forze della NATO.
Quello che trovano è uno scenario apocalittico: cadaveri smembrati in avanzato stato di decomposizione, alcuni senza organi, effetti personali delle vittime sparse ovunque, documenti bruciati, edifici distrutti, animali che vagano abbandonati in cerca di quel padrone che mai più tornerà.
Le vittime, quelle che ancora rimangono, hanno le mani legate dietro la schiena, segni di martellate alla testa, profonde ferite di arma da taglio oppure fori di proiettile. 
Fra i corpi molte siringhe, che i soldati e la Polizia hanno utilizzato per iniettarsi droghe prima di procedere con la mattanza.
Dopo la caduta di Milošević emerge che i  cadaveri dei civili albanesi trucidati quel giorno sono stati caricati con una ruspa su camion e trasportati a un centro di addestramento dell’Unità speciale antiterrorismo serbo, vicino a Belgrado, per essere sepolti in fosse comuni, con lo scopo nascondere le prove di quello che era accaduto.
Solo l’1 agosto 2003 vengono prelevate dalle fosse comuni i corpi di 43 vittime che vengono identificate e restituite ai parenti, per essere sepolte a Meje.
Il 26 agosto 2005 sono 21 i cadaveri recuperati, mentre nel marzo 2008 verranno identificate altre 345 vittime. Ancora oggi si cercano 32 dispersi.
Il massacro di Meje non ha avuto giustizia.
I colpevoli non hanno pagato e hanno continuato semplicemente la loro vita, mischiandosi ancora una volta alla gente comune che nonostante le maschere li aveva riconosciuti.
Sembra tutto così lontano, sembra che ci siamo dimenticati tutti di quei giorni di guerra, eppure le ferite inferte ai superstiti sono ancora sanguinanti nonostante il tempo sia passato.

BIBLIOGRAFIA

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