Nel febbraio 1945, Alfonso Borrelli procuratore della Repubblica Sociale Italiana, avviò una serie di indagini in merio all’operato del Reparto dei Servizi Speciali di Firenze, rinominato in seguito Ufficio di Polizia Investigativa, per tutti Banda Carità.
Il reparto era stato fondato e guidato da Mario Carità nel settembre 1943.
In beve tempo le prove e i racconti di alcune vittime sopravvissute ai metodi della banda, portarono a galla la verità su quanto avveniva durante gli interrogatori svolti da Carità in persona e dai suoi scagnozzi.
Ogni testimonianza venne accompagnata da una perizia medica eseguita dal dr. De Megni; alcune di queste finirono direttamente nelle mani di Mussolini.
Il quadro che emergeva era sconvolgente.
Gli interrogatori avvenivano usando le peggiori torture e con qualsiasi mezzo a disposizione: mani, scarponi, bastoni, nerbo di bue, nastro cinese, fiammiferi, sigari accesi, corrente elettrica, violenze e umiliazioni sessuali.
Mario Carità era solito definire questa “procedura” come “interrogatorio scientifico”, rivolgendolo soprattutto nei confronti delle donne accusate di far pare della Resistenza.
Molti dei torturati scelsero di non parlare, altri, non sopportando il dolore fisico, scelsero la strada opposta.
La Partigiana Wally Pianegonda, nome di battaglia “Kira”, sopravvissuta all’“interrogatorio scientifico”, aveva raccontato: «Bisognerebbe provare gli interrogatori…. Dalle botte ero ormai impazzita. Al mattino quando sentivo la carceriera con le grosse chiavi che tintinnavano, contavo i passi con il cuore che mi saltava in gola, man mano che aumentavano. Contando i passi, sapevo se toccava a me o a un altro. Io diventavo matta, anche due volte al giorno mi portavano via…. Uno degli ultimi interrogatori ci portarono tutte insieme nella stanza dove assistemmo all’interrogatorio della mamma: sempre le stesse domande.
Cominciarono a picchiarla con violenza. Prima sui piedi le diedero 35 cinghiate: aveva pezzi di carne che si staccavano e più tardi rischiò la cancrena. Erano colpi forti perché il torturatore si era inginocchiato per picchiare più forte. Poi la denudarono e la misero sopra un tavolo e la picchiarono con la cinghia dappertutto, sulla schiena, sulle gambe. Le misero una calza di lana in bocca perché non parlasse: lei continuava a dirci di stare zitte, di non parlare. […] Dopo ci fecero uscire, sentimmo sparare un colpo: “Adesso abbiamo ucciso la vostra mamma, siete contente?”. Ci vennero a dire che nostra madre era morta. Invece per fortuna lo avevano fatto per spaventarci. Fu portata in una cella ancora più fredda, senza pagliericcio per terra e a pane e acqua. E pensare che la neve veniva dentro dalla finestra senza vetri. Appena riuscì ad avere un po’ di forze si fasciò i piedi piagati con la sottoveste».
Ma cosa accadde dopo l’inchiesta?
Carità, chiamato in causa, scrisse nel dicembre 1943 una lettera di spiegazione a Mussolini, nella quale ricordò che solo con la violenza era diventato Duce.
E così tutto continuò come prima, fino al 25 aprile 1945.
La formazione si sciolse ufficialmente il 27 aprile.
Alla Liberazione buona parte dei componenti della Banda Carità fuggirono “coraggiosamente”, seguendo le truppe tedesche in ritirata.
Alcuni di loro vennero catturati nel mese di maggio.
Mario Carità non tentò di fuggire oltre frontiera.
Si rifugiò in un paesino verso l’Alpe di Siusi, a Castelrotto, a circa 30 km da Bolzano.
Nella notte tra il 18 e il 19 maggio, nel tentativo di sottrarsi alla cattura di chi lo stava cercando per arrestarlo, fu ucciso in un conflitto a fuoco da due militari americani.
Le versioni della sua morte sono diverse e contrastanti.
Dopo la Liberazione, alcuni membri della banda vennero processati dalla Corte d’Assise straordinaria di Padova: il processo si concluse il 3 ottobre 1945.
Uno dei membri venne condannato a morte e fucilato.
Gli altri beneficiarono dell’amnistia del 1946.
Il processo di II grado si tenne presso la Corte d’Assise di Lucca da maggio a luglio 1951.
Anche in questo caso si fece ampio ricorso all’amnistia: furono scarcerati in 30, tutti accusati e condannati per gravi reati e violenze degradanti.
La figlia di Carità, Franca, fu condannata a 16 anni e non fu amnistiata…magra consolazione…
Molte furono le donne e gli uomini che rimasero invalidi fisicamente o deturpati moralmente per le sevizie patite. Portarono e portano sul loro corpo i segni lasciati dalla Banda Carità.
La giustizia non fece il suo corso, in questo caso come in molti altri, quell’amnistia, secondo me, non rese onore a chi aveva sacrificato tutto per la nostra libertà, compresa quella di chi con tanta magnanimità aveva scarcerato assassini e stupratori.
