La “marcia della morte” delle donne

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Ho ancora la terrificante visione delle fiamme che s’innalzavano dai forni e illuminavano il cielo sinistramente per notti e notti di seguito....

《Un anno fa, con migliaia di donne internate, viaggiavo in treno dalla Polonia alla Germania: si avvicinavano i russi. Eravamo partite in una squallida sera di gennaio dal campo di Auschwitz, dove io mi trovavo in un blocco di esperimenti, e dove erano state precedentemente inviate le deportate del ben più terribile campo di Birkenau, in cui pure ero stata fino a tre mesi prima.

La partenza era venuta d’improvviso, in mezzo ad una confusione e a un disordine indescrivibili. Nessun viatico si era dato per il viaggio, solo alcune fra noi erano riuscite a procurarsi qualche pagnotta, sfidando i bastoni e i fucili dei soldati posti a guardia dei magazzini del pane.

Per due giorni avevamo camminato in mezzo alla neve, per pianure, boschi, collinette, investite da raffiche di vento che ci toglievano il respiro.

Di fianco a noi soldati armati, coi cani poliziotti. Ogni quattro o cinque ore di cammino, cinque minuti, non di più, di riposo sulla neve, che era il nostro giaciglio e il nostro cibo.

Di notte una stalla ci accoglieva, sempre insufficiente, di modo che si stava una appiccicata all’altra, sentendo così meno il freddo, ma nella impossibilità di riposare pei i pianti, i gemiti, le urla di chi veniva meno, o aveva i piedi doloranti o si sentiva soffocare.

Quando arrivammo alla stazione di Leslau (avevamo fatto in quei due giorni, a piedi, 61 chilometri) avevamo già lasciato dietro di noi un certo numero di compagne che si aggiungevano ai morti congelati, sfiniti, o fucilati di cui avevamo visto seminato il cammino, nel quale ci avevano preceduto decine di migliaia di prigionieri di altri campi.

Avevo visto donne buttarsi a terra per non più rialzarsi, altre, persi o rotti gli zoccoli, fasciarsi i piedi con pezze e trascinarsi ancora con una straordinaria forza di volontà.

Quelle che non avevano potuto continuare la “marcia della morte” (come l’aveva definita una signora che era con me e che già dopo la prima tappa non aveva più proseguito) venivano finite dai soldati della retroguardia.

Avevo creduto di avere un sollievo alla stanchezza salendo in treno; rimpiansi invece la marcia a piedi. E’ vero che ci dettero, per la prima volta, dopo quei due giorni, un pane: ma ci fecero salire su pianali scoperti che avevano fino allora servito per il trasporto del carbone, di cui rimaneva uno spesso strato sul fondo.

Eravamo salite in treno la sera, su un binario morto e restammo in stazione tutta la notte. C’era posto sufficiente per star sdraiate e ce ne rallegrammo: troppo presto.

Alle prime ore del giorno si aprì la porta e i soldati, senza affatto preoccuparsi di quante fossimo già nel vagone, fecero salire un’altra cinquantina di donne. Erano detenute non per motivi razziali o politici, ma ospiti delle carceri per delitti comuni, per furto o assassinio, prepotenti e violente, non solo per loro natura (erano quasi tutte polacche) ma perché si sapevano protette dalle SS contro di noi.

Giunte per ultime, esse ci spinsero, a pugni e a calci, nel centro del vagone, e presero posto lungo le pareti.

Non potemmo opporci, e ci fu allora letteralmente un doppio strato di persone, in cui quelle che stavano sotto si sentivano soffocare e graffiavano e mordevano quelle sovrastanti perché si allontanassero in modo da lasciare almeno respiro; quelle di sopra venivano sballottate dall’una all’altra in un disperato infernale groviglio di corpi.

Così per quattro giorni, senza che ci venisse più dato da mangiare e scendendo una sola volta, all’arrivo.

A Ravensbruk eravamo irriconoscibili: graffiate, sporche, lacere, a stento riconoscemmo le compagne che erano state in altri vagoni, dove s’erano ripetute le stesse scene che nel nostro e, allineati lungo la strada ferrata, erano centinaia di cadaveri, quelli gettati dai convogli che ci avevano preceduto e anche dal nostro.

L’ancor lunga fila di internate s’incamminò per il nuovo campo.

Era mezzogiorno quando vi arrivammo e ci fecero star fuori sulla neve fino a sera, senza permetterci di avvicinarci neppure all’acqua.

A notte, finalmente, fummo buttate in un magazzino, dove si poteva star a stento rannicchiate.

Vi rimanemmo due giorni, dopo aver avuto, solo dopo 24 ore, un po’ di zuppa: acqua e rape.

Ci trasferirono poi in un blocco, già così pieno, che noi dovemmo trovar posto sotto ai cosiddetti letti (assi di legno senza coperte) o nello strettissimo spazio fra l’uno e l’altro.

Qui rimanemmo per undici giorni, avendo ogni tanto possibilità di lavarci. Per prendere una volta al giorno la zuppa, ci facevano star fuori in fila, a temperatura sempre sotto zero, fino a tre, quattro ore. E poi, ancora in treno, in un altro campo, a Naustadt-Gleve.

Qui le cose si fecero senz’altro peggiori.

In spazio sempre più ristretto, dormimmo prima in un magazzino con un po’ di paglia su cui di giorno si camminava; non c’era possibilità di lavarsi; per otto giorni ci diedero, per tutto nutrimento, una fetta di pane di un centinaio di grammi.

Finalmente un mattino ci annunciarono che ci avrebbero dato la zuppa; la promessa fu mantenuta: un bicchiere normale di acqua e rape per due persone.

Non ci facevano più lavorare, ma per mancanza di lavoro. Intanto l’affollamento era divenuto tale che io ed altre mie compagne per non soffocare durante la notte decidemmo di coricarci nei corridoi di passaggio, dove in compenso correvano rivi di acqua ed era cosa normale sentirsi pestare da chi passava.

Questa fu la mia vita degli ultimi mesi di prigionia.

Nel campo di Birkenau dove fui appena giunta in Polonia, ho veduto in funzione i forni crematori: ho assistito all’arrivo di nuovi convogli carichi di vecchi, donne, bambini, cacciati a calci, a piattonate di fucile, in quelle orrende camere dei gas in cui obbligavano a prestar servizio nostri deportati, che vivevano nel terrore di veder giungere parenti e amici.

Ho ancora la terrificante visione delle fiamme che s’innalzavano dai forni e illuminavano il cielo sinistramente per notti e notti di seguito.

Ho davanti a me l’aspetto delle mie compagne, in cui rifletteva identico il mio, quando si spargeva per i blocchi la notizia che incominciavano le selezioni, prima nelle infermerie poi anche nei blocchi di lavoro, selezioni che avevano per scopo di mandare ai gas le persone che all’ufficiale medico (e questo era il suo solo compito) parevano troppo deboli per poter servire ancora ai duri lavori: trasporto di carichi di mattoni, abbattimento di alberi, scavo di fossati, lavori adatti a uomini in forze. Alla fine di ogni selezione, erano care compagne che non avremmo rivisto mai più.

E tutte pensavamo che un giorno avremmo fatto la stessa fine. Com’era possibile sperare diversamente con la levata ogni mattina alle tre e mezza, l’appello dalle quattro alle sei, sotto qualsiasi temperatura, ferme sull’attenti sotto la neve o la pioggia perché altrimenti erano bastonate che ci colpivano alla cieca, il lavoro pesante per recarsi al quale bisognava a volte fare chilometri di strada; lo scarso cibo, il nuovo appello alla sera che ci teneva in piedi, morte di fatica, sempre nella posizione di “attenti” ancora per due ore al minimo, il così detto riposo sulla pietra o sul tavolo?

L’espiazione per tanti orrendi delitti non potrà essere mai abbastanza severa, qualunque essa sia, anche se comprendesse lo sterminio completo di tutti i nazisti.》

BIBLIOGRAFIA

Articolo pubblicato nel febbraio del 1946 su un giornale a firma di Enrica Jona

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