Parigi, Boulevard Voltaire, XI arrondissement. 4 Dicembre 2015.
Ero in viaggio nella capitale francese a meno di tre settimane dal massacro del Bataclan.
Era inevitabile passarci, anzitutto per rendere omaggio alle vittime, e poi per vedere con i miei occhi una di quelle cose che ormai siamo abituati a vedere soltanto attraverso la mediazione della televisione o dei social, che ci riempiono di immagini ma quasi mai riescono a farci davvero capire di cosa si tratti.
La mattina è fredda e limpidissima. Parigi bella e accogliente come sempre. È un venerdì, un normale giorno lavorativo. Eppure avvicinandosi al luogo dell’attentato sembra quasi che il caos si attutisca, e i rumori si facciano più ovattati. Forse è proprio così, forse le tante persone, davvero tante, avvicinandosi al teatro e a quella strada abbassano il tono di voce, e sembra quasi che anche le automobili facciano meno rumore.
Se passi in quel posto, a così poco tempo dai fatti, e la tua passione è quella di fotografare quel che i tuoi occhi vedono, non puoi fare a meno di scattare qualche immagine. È uno di quei casi in cui lo fai soprattutto per te stesso, per fissare un momento e non rischiare di dimenticarlo col passare inesorabile del tempo e delle mille questioni che sopraggiungeranno nella tua vita. E nel farlo, se possibile, provi comunque a comunicare qualcosa che non sia soltanto documentare un luogo, perché quando rivedrai quelle foto, magari soltanto tu, magari fra chissà quanti anni, è importante che tornino a dirti qualcosa, e che continuino a parlare.
Giunti davanti al teatro, chiuso e piantonato da polizia ed esercito, due cose mi colpiscono in particolare. Una l’ho già detta. Il silenzio, il rumore del quartiere che giunge alle orecchie quasi ovattato da una nebbia invisibile ma palpabile.
L’altra è l’ordine. I parigini sono ordinati, gli stranieri come noi sono ordinati. Le centinaia di corone di fiori sparse sul marciapiede e per tutti i giardini di fronte al Bataclan sono ordinati. Non perché siano stati messi in fila. Ognuno ha posato o attaccato la sua corona, il suo fiore, il suo messaggio dove gli è capitato, ma il risultato è una ordinata e interminabile sequenza di dolori, tutti piccoli a farne insieme uno enorme. Tutti singoli e personali a farne insieme uno gigantesco e collettivo.
Scatterò diverse foto, ma la scelta principale sarà una: la simmetria. L’ordine che percepisco me lo danno le prospettive dei boulevard parigini e le linee regolari dei loro palazzi. La profondità me la dà la quantità di omaggi deposti sul marciapiede, a partire dai miei piedi fino all’infinito.
È necessario che il Bataclan entri nel quadro. Rende il luogo unico e inconfondibile. È quel luogo, e non uno qualsiasi dove si rende omaggio a vittime di chissà cosa. Entra nell’inquadratura a sinistra, la apre (e la chiude rimandandoci indietro al centro della foto) con i suoi colori bizzarri che lo distinguono dagli altri tipici palazzi della Ville Lumière.
Il punto di vista va scelto. E scelgo quello basso, quasi rasoterra.
È il punto di vista dei morti.
Questa scena e questa storia si vedono dal basso, quasi sdraiati. Queste strade, solitamente colorate ed animate ad ogni ora del giorno e della notte, oggi e ancora chissà per quanto sono diventate un cimitero.
Ed è quello che stai fotografando.
Ma la simmetria va anche spezzata, e questo compito lo affido al personaggio a destra.
Era lì, seduto di spalle con la felpa e una grossa cuffia sulle orecchie. Ho pensato per un po’ se includerlo o no nella scena, poi mi è stato chiaro che non poteva non esserci.
È il punto di equilibrio. È la vita che si è fermata ma che riprenderà a correre. È il raccoglimento silenzioso che non vede e non sente nessuno, che non vuole vedere né sentire nessuno. La cuffia che lo isola dal mondo fa rientrare nell’immagine la sensazione di silenzio e di rumori ovattati che non ho mai smesso di provare finché sono stato lì.
Una persona reale, con una sua storia e un suo dolore di cui non sappiamo e non sapremo mai motivi e dettagli, che diventa simbolo visivo e acustico della scena.
