La rinascita di Victoria, figlia di Desaparecidos

Tempo di lettura: 6 minuti

Le partorienti sapevano che i neonati non venivano consegnati ai parenti, ma non immaginavano certo che i loro piccoli entravano a far parte di un meccanismo articolato e studiato in ogni particolare: venivano offerti alle famiglie di militari ....

La ESMA era uno dei centri clandestini di detenzione più importanti della dittatura.
Si calcola, in modo molto approssimativo e senza la possibilità di avere un riscontro certo, che per quelle celle siano transitate circa 5000 persone. In pochi ne sono usciti vivi…malconci, con cicatrici fisiche e morali incancellabile…ma vivi…
La ESMA era perfettamente organizzata, una inarrestabile macchina di repressione organizzata dai militari, come del resto lo erano tutti i centri di detenzione.
Era suddivisa in diverse aree dedicate nello specifico al sequestro e alla tortura, al furto dei beni e delle proprietà dei sequestrati e al controspionaggio.
Dalle stanze della tortura passarono figure importanti come Norma Arrostito, una delle prime donne a capo dei Montoneros, le suore francesi Alice Domon e Léonie Duquet, la Madre di Plaza de Mayo Azucena Villaflor, e il giornalista e dirigente dei Montoneros, Rodolfo Walsh, che ne uscì cadavere.
Ma il vero fiore all’occhiello per Rubén Chamorro, direttore della ESMA, era la Sardá.
La «Sardá della ESMA», che prendeva il nome dalla clinica di ostetricia più importante di Buenos Aires,  era una stanzuccia di non più di due metri per uno in cui arrivavano le sequestrate incinte dai diversi campi.
In quel luogo sporco, sudicio, senza luce del sole e con le pareti impegnate dell’odore della morte, erano costrette a far nascere i loro figli, prima di salutarli per sempre e poi  morire.
Lì  vicino, all’ultimo piano del Circolo ufficiali, gli altri detenuti vivevano, venivano torturati e lavoravano. Era un grande appartamento a forma di ferro di cavallo, senza finestre.
Il solo contatto con l’esterno erano dei  lucernari sul tetto. Dal soffitto pendevano alcune lampadine nude che spigionavano poca luce giallastra, in grado di rendere ancora più cupo l’ambiente e più sudici i corpi ammassati dei prigionieri.
L’ambiente era diviso in due parti uguali: in uno dormivano i sequestrati buttati uno sull’altro, senza mai potersi togliere  anche per anni, il sacco nero dalla testa. Questa zona dell’edificio veniva chiamata ironicamente «Cappuccio».
Dall’altro lato c’erano la «Cambusa», dove si custodiva il bottino di guerra recuperato nelle case dei prigionieri, e un centro di lavoro, l’ «Acquario», dove alcuni prigionieri passavano le giornate traducendo notizie, falsificando documenti o sbrigando pratiche amministrative.
Al di sopra di questo piano, in uno spazio più ristretto ma speculare a quello sottostante, funzionava il «Secondo cappuccio», dove sopravvivevano ed erano torturati i prigionieri catturati da altri gruppi che poi venivano consegnati alla ESMA. I nuovi arrivati facevano una prima sosta nei seminterrati, dove si effettuavano le torture preliminari, si stabiliva se era utile o meno mantenere i sequestrati in vita, in base a quello che si presumeva potessero sapere,  si decidevano le occupazioni a cui sarebbero stati assegnati e se fosse necessario continuare a torturarli, oppure se per il momento poteva bastare.
Un giorno, come tanti, da un centro di detenzione arrivò  una donna  di nome Cori.
Era incinta, quasi al termine della gravidanza.
Cori era stata arrestata con suo marito José María Donda.
José era sparito, inghiottito dalla macchina della morte del regime. Cori era ancora viva perché al momento dell’arresto era incinta: entrava di “diritto” a far parte di un piano.
Il giorno in cui arrivò alla ESMA venne accolta da una delle guardie che i detenuti chiamavano Alfa, la meno violenta delle tre assegnate alla Sardá.
Venne condotta subito al terzo piano, insieme al resto dei prigionieri.
Lì le venne servito il suo primo pasto: un mandarino, che rifiutò e regalò ad una giovane prigioniera che era lì con lei.
Cori era detenuta da 4 mesi. Nonostante la gravidanza, non le vennero risparmiate torture e umiliazioni.
In quel periodo non esisteva ancora la «stanza delle gravide», perciò Cori fu costretta a dividere lo spazio con altre persone sconosciute e incappucciate.
Un giorno di luglio o di agosto del 1977, nella stanzina della Sardá, Cori diede alla luce una bambina, con l’aiuto di Jorge Luis Magnacco, ginecologo dell’ospedale della marina.
Accanto a lei c’era una giovane donna di 19 anni,  spaventata e traumatizzata, di nome Lidia. Era la prima volta che vedeva nascere un bambino.
Tutte le partorienti erano costrette a scrivere una lettera alla famiglia per informare della nascita e chiedere ai propri parenti che si prendessero cura del neonato. Ovviamente quelle lettere non venivano mai spedite e le famiglie, oltre a non sapere più nulla dei propri figli, non venivano mai a conoscenza neppure della nascita dei nipoti.
Le partorienti sapevano che i neonati non venivano consegnati ai parenti, ma non immaginavano certo che i loro piccoli entravano a far parte di un meccanismo articolato e studiato in ogni particolare: venivano offerti alle famiglie di militari o di simpatizzanti del regime, che potevano perfino prenotarsi in una lista d’attesa all’ospedale della marina.
E così quel giorno Cori e Lidia, inconsapevoli  di quelli che sarebbe accaduto dopo, improvvisarono un piano: utilizzando l’ago e il filo blu da sutura che era stato portato per eventuali emorragie legate al parto, cucirono due spezzoni di filo nelle orecchie della piccola. Forse speravano che sarebbe finita all’orfanotrofio della Casa Cuna, come accadeva ai bambini abbandonati.
Forse un giorno, quando una delle due fosse stata liberata, avrebbe potuto servirsi di quel segno per descriverla e ritrovarla, e poterle così raccontare chi era realmente e cosa era accaduto.
Cori uscì poco dopo dalla ESMA, ma non per tornare libera, bensì per prendere un volo con destinazione Rio della Plata. Non rivede mai più la sua bimba e non seppe che in realtà la piccola, che aveva chiamato Victoria, venne affidata ad una famiglia vicina al regime.
I suoi genitori, Raúl e Graciela, le cambiarono il nome in Analía.
Divenuta adulta, Analía aveva scoperto la dura verità sulla sua nascita nel 2003,  quando l’uomo che fino a quel giorno aveva chiamato papà, aveva tentato il suicidio, in seguito ad una richiesta di estradizione per i militari argentini coinvolti nei crimini della dittatura.
Analía oggi si chiama Victoria Donda e ha scritto un libro per raccontare la sua storia e quella dei suoi veri genitori, Cori e José María Donda, due tra i 30.000 desaparecidos degli anni del regime.


BIBLIOGRAFIA

Il Mio Nome é Victoria – Victoria Donda – 2010,CORBACCIO

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