Dalì a Stupinigi: la mostra che potete anche perdere

Tempo di lettura: 6 minuti

E’ in corso in questo periodo a Stupinigi, presso la palazzina di caccia, una mostra dedicata al genio visionario di Salvador Dalì. Una mostra che però lascia, per molti motivi, con l’amaro in bocca gli amanti del pittore surrealista, riuscendo ad essere – allo stesso tempo – sia incompleta che “logorroica”, con evidenti errori museografici. Come al solito, lo dice anche la saggezza popolare, “il troppo stroppia”. E vedere decine di litografie di Dalì – e nemmeno un quadro olio su tela! – e qualche statua – che sinceramente non toglie né aggiunge nulla all’opera del pittore spagnolo – non soddisfa in alcun modo la curiosità di chi si è fatto centinaia di chilometri convinto di trovare una mostra simile a quelle allestite a Milano pochi anni fa. Ma Stupinigi, è evidente, non è Milano per qualità delle esposizioni.

I problemi di questa mostra sono diversi ed interessano vari contesti. Iniziamo da quelli prettamente museografici: le opere in molti casi hanno un fastidioso riflesso, trattandosi di litografie protette da un vetro. Ma, cosa molto più grave, mancano i cartellini esplicativi che descrivono ogni singola opera, indicante titolo, autore (informazione questa naturalmente pleonastica trattandosi di una monografica), anno e tecnica. Questo problema è evidente sin dalle prime sale: nel testo esplicativo introduttivo, infatti, si fa riferimento ad opere che si sarebbero viste solo dopo varie sale. Ad esempio andate alla ricerca del “telefono aragosta” di cui si parla appena entrati. Lo troverete solo dopo una decina di opere. Peggio va nell’illustrazione delle fiabe di La Fontaine. Di che fiabe si tratta? Per chi non è un profondo conoscitore del favolista settecentesco rimane un mistero.
Forse il dubbio potrebbe essere svelato dal catalogo delle opere. Ma non l’ho trovato al book shop.
Altra nota: non si può progettare una mostra così lunga senza nemmeno preventivare uno spazio per sedersi. Perché va bene il Covid, va bene il distanziamento sociale, ma dopo due stanze le regole della museografia impongono di mettere uno spazio dove potersi eventualmente riposare (o mettersi a disegnare come fanno spesso gli studenti dell’Accademia).

Il logo dei Chupa Chups

La cosa senza dubbio più interessante era invece l’opera del Dalì pubblicitario. Quanti di voi, infatti, sanno che il logo dei Chupa Chups è stato ideato dall’estroso surrealista nel 1969? Io, sinceramente, no.
Una curiosità che sicuramente varrebbe la visita, se non fosse che è stata esposta in maniera pessima, per nulla visibile. Ai disegni della Chupa Chups, infatti, è dedicata una saletta che potremmo definire “di servizio”, che molto probabilmente, non avessi avuto una figlia di 10 anni che appena intravede qualcosa da colorare ci si fionda, avrei bellamente saltato. Nella stanza, infatti, campeggiano materiali pubblicitari della Stabilo (sponsor della mostra), un tavolo dove far fare laboratori o attività ai bambini, due grosse riproduzioni di un rinoceronte e di un ritratto di Dalì fatti con chiodini Quercetti e, in un angolo, qualche disegno appeso con il logo dei lecca lecca. Senza nemmeno un cartello, ma un libro con la storia dell’azienda dolciaria dove, in inglese, era riportata la storia del logotipo.
Se poi aggiungiamo il fatto che, nel bookshop, troviamo in vendita lecca lecca giganti, l’equivoco del ruolo dei Chupa Chups (opera esposta o sponsor della mostra?) è servito.

La statua dell’elefante dalle gambe sottili

Le opere sono tante. Troppe forse. Anche perché sono abbastanza ripetitive, proponendo i principali thopos daliniani (uomini col cassetto, orologi molli, elefanti dalle gambe sottili e relativi mix). Opere tra l’altro molto recenti, del periodo tardo della lunga carriera dell’artista, in cui lo stesso di ripeteva abbastanza sfruttando l’onda del successo ottenuto. Questo, in sintesi, quello che c’era nelle varie stanze e stanzette.

Ma se le opere sono tante, cosa mancava? Innanzitutto qualche media diverso. Si tratta di una mostra tutta sulle incisioni, senza nemmeno una delle opere principali ad olio. Qualche statua, che però nulla toglie o aggiunge alla genialità surrealista del pittore, fatta più che altro per motivi commerciali. Inoltre si sentiva la mancanza degli oggetti di design. Un divano, ancora oggi prodotto e facilmente reperibile, avrebbe certamente reso l’esposizione migliore. Ed avrebbe risolto anche il problema delle sedie!

Altra nota dolente il costo: in qualità di giornalista ho avuto la possibilità di sfruttare il biglietto ridotto per la modica cifra di… oltre 13€. Stiamo parlando (per chi ragiona ancora pre-euro) di 25mila lire. L’acquario di Genova, per fare qualche esempio, costa intorno ai 18€; il Museo Egizio di Torino costa 12€, e presenta più opere, più antiche ed è studiato con una museografia moderna senza essere mai noioso né ripetitivo.

Una mostra bocciata, dove il marketing pubblicitario ha contribuito a creare aspettative disattese per ogni tipologia di pubblico.
Il neofita, colui che voleva avvicinarsi a Dalì per la prima volta (come ad esempio mia figlia decenne) si trova spiazzato: nessuna opera famosa, che lasci il segno, allestimento troppo paratattico, mancanza di didascalie…
L’esperto, invece, che conosce Dalì e la sua opera, si trova ugualmente insoddisfatto, perché trova ripetizioni di thopos troppo noti, opere dell’ultimo periodo fatte prevalentemente per monetizzare il successo dell’artista e la sua lunga carriera.

Voto? 4,5. Ma solamente per la parte dedicata ai Chupa Chups.

BIBLIOGRAFIA

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