Emanuela Sansone, la prima donna uccisa dalla mafia

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Poteva essere un delitto passionale, scatenato dall'ira di un pretendente alla mano di Emanuela, rifiutato dalla madre perché privo di una "posizione lavorativa stabile". Oppure poteva essere uno scambio di persona....

Emanuela Sansone era una bella e giovane donna nata a Palermo nel 1879.
Suo padre, Salvatore, e sua madre, Giuseppina Di Sano, erano proprietari di un negozio di generi alimentari a Palermo, in via Sampolo 20, nella zona Giardino Inglese.
Aveva due fratelli, Salvatore e Giuseppe.
A frequentare la loro bottega erano in molti nella zona. Fra i tanti vi erano anche personaggi non ben visti nel quartiere, come il Comandante della vicina Caserma dei Carabinieri.
Un giorno, il proprietario di una conceria vicina, aveva mandato i propri figli ad acquistare merci dai Sansone. I giovani volevano pagare con soldi falsi. La signora Giuseppina, accortosi del loro intento, li cacciò dal negozio, mentre Salvatore andò a casa dei due giovani per sistemare la questione, che si risolse con un pagamento parziale della merce e molte proteste da parte del padrone della conceria.
Dopo quell’episodio la gente del paese cambiò atteggiamento verso la famiglia Sansone.
Le donne del quartiere smisero di fare la spesa nel loro negozio.
Per strada la gente cambiava marciapiede.
Questa situazione andò avanti per un po’ di tempo, fino alla mattina del 27 dicembre 1896, quando due uomini sconosciuti entrarono nella bottega, formalmente per fare acquisti, in realtà, come raccontò in seguito Giuseppina al questore Sangiorgi, andarono a controllare l’altezza di un foro praticato nel muro di un limoneto proprio di fronte al negozio. Volevano accertarsi, che la linea di tiro fosse favorevole.
La sera stessa, attorno alle 20:00, da quel foro partirono alcuni proiettili che ferirono Giuseppina alla spalla e a un fianco e uccisero Emanuela.
In base alle prime ricostruzioni, vennero fatte diverse ipotesi sulle cause dell’omicidio.
Poteva essere un delitto passionale, scatenato dall’ira di un pretendente alla mano di Emanuela, rifiutato dalla madre perché privo di una “posizione lavorativa stabile”.
Oppure poteva essere uno scambio di persona; in realtà il bersaglio era il padre che stava giocando a carte con un amico proprio nella loro bottega.
Il Questore la vedeva in modo diverso. Secondo lui la sentenza di morte era stata in realtà emessa contro Giuseppa Di Sano, sospettata di aver denunciato alcuni mafiosi della zona per la fabbricazione di banconote false.
In realtà la donna non aveva denunciato nessuno.


La morte della giovane Emanuela spinse la madre a costituirsi come testimone nel processo che il questore Sangiorgi riuscì ad avviare nel maggio nel 1901 contro 51 imputati di crimini mafiosi.
Nonostante le minacce di morte, Giuseppina continuò nella sua opera, delusa ed amareggiata soprattutto per l’isolamento in cui l’intero paese aveva costretto la sua famiglia dopo la morte della figlia, come se quella perdita fosse stata una colpa e non un dolore.
In una dichiarazione disse: …Mi sono veduta da allora mal vista e sfuggita da tutti ed alla piaga insanabile che mi produsse nel cuore la disgraziata morte della diciottenne mia figliola, si aggiunse ora il danno economico prodottomi dalle persecuzioni della mafia, che non mi perdona una colpa che io mai commisi».


Gli esiti del processo non furono quelli che il questore e Giuseppina si aspettavano. Ritrattazioni, omertà, ripensamenti, portarono a pene inferiore rispetto a quanto previsto dal codice vigente. 19 imputati furono scagionati dalle testimonianze di parlamentari, nobili e professionisti della zona.
In questo caso, come molti altri a venire, venne fatta solo giustizia parziale.
Emanuela Sansone è una delle tante vittime uccise due volte, una dalla mafia e una dall’omertà.

BIBLIOGRAFIA

  • Umberto Santino, La mafia dimenticata, Milano, Melampo editore, 2017

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