57 giorni separano la strage di via d’Amelio da quella di Capaci.
57 giorni in cui Paolo Borsellino sa di essere nel mirino di Cosa Nostra.
57 giorni in cui continua a lavorare, nonostante venga ostacolato dal capo della Procura palermitana Pietro Giammanco, che gli nasconde perfino il contenuto di un’informativa del ROS dei Carabinieri che segnala il pericolo di un imminente attentato nei suoi confronti, notizia che Borsellino apprende solo casualmente durante una conversazione con l’allora Ministro della Difesa Salvo Andò.
57 giorni in cui non si ferma mai, per onorare il suo lavoro, il giuramento che ha fatto.
Il 25 giugno tiene il suo ultimo discorso nell’atrio della biblioteca di Casa Professa, nel corso di un dibattito organizzato dalla rivista “Micromega” durante il quale dichiara: «Per Giovanni Falcone la lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che coinvolgesse tutti specialmente le giovani generazioni […], le più adatte a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone […] quando in un breve periodo d’entusiasmo, conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, egli mi disse: “La gente fa il tifo per noi”».
Pochi giorni lo separano da un destino ormai scritto, dal compiere il massimo sacrificio a cui non si sarebbe sottratto.
19 luglio 1992.
Dopo aver pranzato a Villagrazia di Carini con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, il giudice si reca insieme alla sua scorta in via D’Amelio, dove vivono sua madre e sua sorella Rita.
Borsellino e la sua scorta arrivano a destinazione.
Scende dall’auto, fa pochi passi, mentre i suoi 5 angeli, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, si guardano attorno. Antonino Vullo, il sesto angelo, parcheggia uno dei veicoli.
Ore 16.58.
Paolo Borsellino sta per suonare il campanello.
In quel momento una Fiat 126 imbottita di tritolo, parcheggiata proprio davanti al portone del palazzo, esplode.
Nello scoppio, devastante, muore il giudice con la sua scorta. Solo Vullo si salva, perché è un po’ più lontano.
Ricordo le immagini in televisione, ricordo il fumo nero e denso delle auto in fiamme.
Ricordo lo sgomento e le lacrime della gente per bene.
Ricordo l’androne del palazzo, squarciato, i pompieri, le forze dell’ordine, identità smarrite che hanno perso un altro pilastro nella lotta alla mafia.
Il 24 luglio si svolgono i funerali in forma privata: la moglie Agnese rifiuta i funerali di stato.
Accusa il governo di non aver saputo proteggere il marito e vuole una cerimonia senza la presenza di politici.
Vengono celebrati nella chiesa di Santa Maria Luisa di Marillac, dove il giudice è solito andare a messa, almeno quando può.
L’orazione funebre è pronunciata da Antonino Caponnetto, il vecchio giudice che ha diretto l’ufficio di Falcone e Borsellino: «Caro Paolo, la lotta che hai sostenuto dovrà diventare e diventerà la lotta di ciascuno di noi».
Qualche giorno prima si sono svolti i funerali dei 5 agenti di scorta nella Cattedrale di Palermo.
All’arrivo dei rappresentanti dello Stato la folla inferocita sfonda la barriera creata dagli agenti chiamati per mantenere l’ordine, mentre la gente grida: “Fuori la mafia dallo Stato”.
Paolo Borsellino è morto da eroe, senza paura.
Era un uomo coraggioso, giusto, appassionato, fedele a quello stato che lo ha lasciato solo, che lo ha guardato morire.
Paolo Borsellino era un uomo scomodo, come il suo amico e collega Giovanni Falcone, un uomo per cui la giustizia e la lotta a cosa nostra valevano più della vita.
