Otto B. Kraus era nato l’1 settembre 1921 a Praga da una famiglia di origine ebraica.
Nel maggio 1942 furono tutti deportati nel ghetto Terezin e successivamente ad Auschwitz. Dopo qualche tempo nel lager, venne spostato a Schwarzheide-Sachsenhausen, uno dei più grandi in Germania.
Durante la sua permanenza ad Auschwitz decise di contravvenire alle rigide regole del campo, impartendo lezioni di nascosto ai bambini rinchiusi nel Blocco 31.
Erano 500 ed avevano il compito, agli occhi del mondo, di servire come prova dell’inesistenza della soluzione finale, di dimostrare agli ispettori della Croce Rossa, che venivano in visita periodicamente, che si trattava di un “normale” campo di lavoro.
Otto insegnava ai bambini appena ne aveva la possibilità. Da loro prendeva la forza di vivere e di resistere all’orrore della quotidianità, che giorno per giorno fiaccava il suo spirito e il suo corpo. Li guardava sorridere, piangere, giocare, sognare. E sognava con loro, di essere altrove e di essere lontano, di tornare a quella vita che un giorno era semplicemente finita, di rivedere la sua famiglia.
Con loro c’era anche una ragazza di 14 anni, Edita Polachova, per tutti Dita.
Insieme avevano creato, tra mille difficoltà e pericoli, una piccola biblioteca, “la più piccola del mondo”, come era solita definirla Dita.
Lui ricordava ancora quando la ragazza aveva visto quel piccolo tesoro la prima volta. “Questa è la tua biblioteca. Non è un granché, lo so…” le disse.
E lei non seppe trattenere la gioia.
Quelle pagine, seppur sbiadite, consumate, logorate, erano la sua forza, la sua ancora di salvezza.
C’erano solo 8 libri.
Ma erano libri.
In quel luogo, fatto di fumo, cenere, morte e sofferenza, dove gli esseri umani erano un numero, senza nome, un pezzo abile o no al lavoro, dove il domani era una conquista, quei libri rappresentavano la speranza di farcela, un modo per fuggire dalle catene che la soluzione finale aveva stretto intorno a loro.
Forse, un giorno, sarebbero tornati a casa, forse un giorno tutto quello che stava intorno a loro sarebbe finito, in un modo o nell’altro.
Dita avevo preso quei libri con delicatezza, quasi tremando e da quel giorno li aveva custoditi.
8 libri…
Un vecchio atlante che mostrava l’Europa con Paesi e imperi che non esistevano più da tempo, col quale Dita e i bambini viaggiavano per il modo, su ali magiche fatte di libertà.
Un trattato di geometria, dal quale qualsiasi bambino in un altro momento sarebbe fuggito.
Il più prezioso era la “Breve storia del mondo” di H.G. Wells, che raccontava di uomini primitivi, di romani battaglieri, di egizi ingegnosi, di terre lontane e di popoli ormai scomparsi
Un libro di grammatica russa, che nessuno di loro sapeva leggere, perché quelle strane lettere erano difficili da decifrare.
Un romanzo in lingua francese, rovinato e consumato, con diverse pagine macchiate dal tempo e dalla vita.
Un trattato intitolato “Nuove strade della terapia”, di un certo Freud, che scriveva di cose difficili da comprendere.
Un romanzo in russo, senza la copertina, che chissà quale storia aveva da raccontare.
E per ultimo, ma non ultimo, un romanzo in ceco, ridotto in uno stato penoso, tenuto insieme a malapena da pochi fili e dall’entusiasmo di Dita. Si intitolava “Le vicende del bravo soldato Svejk”, di Jaroslav Hasek.
Eppure lei lo voleva, perché faceva parte della sua biblioteca, la più piccola del mondo.
Il tempo era passato, fino al trasferimento di Otto, e poi fino alla liberazione.
Dita era sopravvissuta e con lei i bambini del Blocco 31.
Era sopravvissuto anche Otto, ma era rimasto solo, la sua famiglia non ce l’aveva fatta.
Un giorno le loro strade si erano incontrate di nuovo.
Il destino…
La magia che Dita era convinta fosse contenuta nei libri…
La forza della vita che aveva vinto sulla morte…
Si erano innamorati e lei era diventata la signora Dita Kraus.
Sono rimasi insieme tutta la vita. Hanno scritto molti libri per raccontare la loro esperienza, la loro rinascita.
Il Maestro e la Libraia di Auschwitz ci hanno lasciato una grande eredità, fatta di ricordi e di amore.
