Guido e Domenico sono praticamente coetanei, il primo ha ventitré anni mentre il secondo venticinque. Non si sono mai visti, non da vicino almeno, le loro vite sono troppo diverse per incrociarsi senza che qualche situazione eccezionale li trascini nello stesso luogo. Il 1977 è cominciato da pochi giorni, Guido e Domenico non lo sanno ancora ma si ritroveranno ben presto, senza volerlo, l’uno vicino all’altro. Guido studia al secondo anno della facoltà di Lettere all’università La Sapienza di Roma, come molti suoi amici coetanei è impegnato in politica, milita nei collettivi autonomi scolastici. Abita in periferia, una palazzina a due piani in via della Gherardesca, ogni giorno prende tre autobus per andare a scuola. Domenico invece è un agente dell’ufficio politico della Questura di Roma, si è arruolato in polizia a 19 anni e non ha avuto molto tempo per godersi la sua giovane età. Torna spesso a San Gennariello, piccola frazione del vesuviano dove abita la mamma, vedova. Domenico infatti ha perso il padre bracciante da parecchi anni e un fratello carabiniere da non molto, per un brutto male. Gli altri fratelli hanno scelto tutti di arruolarsi nell’Arma e così anche lui è entrato in polizia, dopo aver fatto senza molta fortuna l’ambulante nei mercati rionali del napoletano. Ora vuole sposarsi, la licenza matrimoniale è sulla scrivania del dottor Umberto Improta. Guido invece studia, non deve mandare soldi a casa e quindi impiega il tempo libero lavorando ad una mostra sulla stampa di sinistra che si terrà nel quartiere popolare di San Lorenzo, vicino all’università.
Sono gli ultimi giorni di gennaio. Manca poco a quel 17 febbraio 1977, giornata che rimarrà nella storia degli anni ‘70 come la “cacciata di Lama”. Si terrà il comizio del segretario della CGIL nell’Università occupata, sarà contestato violentemente dai giovani autonomi, dileggiato dagli indiani metropolitani, costretto ad abbandonare di corsa il palco e allontanarsi in fretta e furia, protetto a fatica dal servizio d’ordine del PCI. Sarà uno degli eventi più rappresentativi di quello che verrà ricordato come “Il movimento del ‘77”. Una cosa è certa, Guido e Domenico ci sarebbero stati entrambi, come sempre dalle parti opposte della barricata. Invece no. Quel giorno Guido Bellachioma e Domenico Arboletti sono stesi in due salette chirurgiche attigue del policlinico di Roma. Hanno entrambi un proiettile in testa. Sembrano entrambi in fin di vita.

L’Italia del 1977 è un Paese quasi in bancarotta, lo scandalo Lockheed ha scoperchiato da mesi la corruzione dei palazzi del potere, la fiducia nelle istituzioni è ai minimi storici, la criminalità comune e organizzata sembrano inarrestabili. Il Partito Comunista, dopo aver preso una valanga di voti alle elezioni del giugno 1976 – le prime in cui hanno votato anche i diciottenni – insidia il potere democristiano ma di fatto sostiene il governo monocolore di Andreotti, astenendosi e dando il via al governo della “non sfiducia”. La soluzione ai guai italiani per il PCI si chiama austerità. Lo dice Napolitano:
“Il piano a cui il nostro partito sta lavorando prevede l’introduzione di forme più umane, sociali e solidali di vita attraverso il superamento della spinta deformante alla dilatazione dei consumi individuali non essenziali”.
Si discute se è il caso di tenere aperte le macellerie a turnazione, per far mangiare meno carne alla gente, si parla di introdurre il “piatto unico” nelle mense scolastiche. Filosofi di sinistra, come Norberto Bobbio, rigettano questa idea: “un grande partito proletario, operaio, cioè il partito comunista, dovrebbe fare appelli a valori di carattere più positivo”. Se il PCI dice ai giovani di non consumare, la DC li invita ad emigrare. Il Presidente del Consiglio Andreotti, nella conferenza nazionale della disoccupazione giovanile a Roma, nei primi di febbraio, dichiara: “secondo i calcoli sull’andamento della natalità in Germania, lì fra tre o quattro anni ci sarà bisogno di manodopera e di tecnici qualificati”. Come se non bastasse c’è la vecchia ruggine tra i giovani di sinistra e quelli di destra. Questi ultimi vedono la vorticosa ascesa elettorale del PCI come una rovina. Giorgio Almirante dichiara “basta destra in doppiopetto, ricordiamoci delle nostre origini rivoluzionarie”. I giovani del FUAN, il movimento giovanile del MSI, sono pronti a tutto per fermare l’inarrestabile onda rossa. Dalla sede del FUAN di via Siena transitano anche Francesca Mambro, Giusva Fioravanti e Alessandro Alibrandi, che di lì a qualche mese fonderanno i NAR, i Nuclei Armati Rivoluzionari.

La mattina del primo febbraio, università della Sapienza, sotto i grandi archi di piazzale delle scienze si avvicina un gruppo di ragazzi armati di bastoni, spranghe, catene, il volto coperto da fazzoletti, passamontagna e caschi da motociclista. Sono i ragazzi del FUAN di via Siena. I camerati sono a caccia di compagni. Il commando si divide in due gruppi: il primo assalta inizialmente la facoltà di Scienze statistiche per spostarsi poi verso quella di Scienze politiche e Giurisprudenza, mentre il secondo gruppetto si dirige dal lato della facoltà di Lettere. I giovani irrompono nelle aule scandendo gli slogan di “morte ai rossi”, è un blitz più che altro dimostrativo, non essendo in numero sufficiente per fare nient’altro che qualche scazzottata. Il gruppo di destra però viene affrontato a muso duro dagli studenti di sinistra, divisi da un piccolo cordone di polizia. Dopo una fitta sassaiola i militanti del FUAN, per coprirsi la fuga, esplodono alcuni colpi di pistola. Uno di questi raggiunge alla testa Guido Bellachioma mentre un altro ragazzo viene ferito alla caviglia. Guido viene subito ricoverato in condizioni gravissime, il proiettile è entrato nel cranio e si è frantumato in tre parti. Nel frattempo, alle 13 circa, la facoltà di Lettere è ormai in subbuglio, un’affollatissima assemblea generale decide di rafforzare l’occupazione dell’università e di indire per la mattina seguente una mobilitazione di protesta contro il raid fascista. In quei momenti, nella sede del FUAN di via Siena irrompe la polizia sequestrando bastoni, catene, elmetti, un caricatore calibro 7.65 completamente vuoto, la cui pistola viene rinvenuta pochi metri fuori dalla sede, sotto un’auto in sosta.

Il 2 febbraio la mobilitazione degli studenti contro il raid fascista coinvolge anche le federazioni giovanili di Cgil, Cisl e Uil, del PCI, del PSI, del PDUP e di Avanguardia Operaia. In piazzale della Minerva, all’esterno della Sapienza, affluiscono di prima mattina oltre diecimila giovani. L’aria è tesa. Al comizio si susseguono alcuni interventi, tra i quali quello di Walter Veltroni, giovane esponente della FGCI. Una frangia di circa tremila aderenti alle aree extraparlamentari dell’autonomia si stacca dal comizio diretta alla sede del Fronte della Gioventù, in via Sommacampagna. Ci sono autonomi di ogni tipo: c’è il collettivo di via dei Volsci, le femministe, gli indiani metropolitani, studenti e disoccupati. La parola d’ordine è vendicare il compagno Bellachioma. La sede missina è sotto assedio, nelle vie laterali si accendono tafferugli tra i manifestanti e piccoli gruppi di destra che cercano di rispondere all’assalto. Cominciano le cariche della celere. In piazza Indipendenza, verso la coda del corteo si posiziona un’auto civetta della polizia, si tratta di una Fiat 127 bianca con targa di copertura. L’auto con tre agenti a bordo viene subito bersagliata da sanpietrini e colpi di spranga. Il parabrezza si incrina. Dall’auto esce un giovane in borghese, è l’agente Domenico Arboletti, è armato, spara in aria. Qualcuno tra i manifestanti della piazza spara a sua volta. Domenico viene colpito subito alla testa e stramazza a terra. Mentre uno dei colleghi lo soccorre il terzo poliziotto in borghese, in preda alla rabbia e al panico, esce fuori dall’auto imbracciando il mitra d’ordinanza. Spara verso un gruppo da cui secondo lui sono partiti gli spari, la prima raffica falcia alle gambe un ragazzo, Paolo Tommassini di 24 anni. L’agente spara ancora. Un altro ragazzo, Leonardo Fortuna di anni 21, mentre con una mano impugna una pistola con l’altra cerca di rialzare il compagno ferito. Ma quello non ce la fa, perde troppo sangue. Allora lo lascia, scappa inseguito dall’agente che continua a sparare con il mitra. Il giovane autonomo viene a sua volta colpito al braccio destro e alle natiche. Paolo intanto è a terra, perde sangue copiosamente dalla coscia destra. Come si racconterà in un articolo del Corriere della Sera, lo vede il commissario Tobia, lo soccorre stringendogli la cintura dei pantaloni attorno alla gamba, nel tentativo di contenere l’emorragia. Il funzionario nota che il giovane ha una fondina alla cintola, con dentro un caricatore calibro 7.65 vuoto. La pistola sarà ritrovata poco lontano, sul selciato. Alcuni metri più in là un uomo esce dal suo furgone con il volto insanguinato, è un semplice automobilista che si è trovato improvvisamente chiuso nel traffico, una pallottola vagante ha infranto il parabrezza del mezzo e le schegge di vetro lo hanno investito in tutta la faccia. A poca distanza un vigile urbano viene sfiorato da un altro proiettile vagante, cade malamente in terra e si frattura l’omero. Una pallottola è entrata anche in un appartamento all’angolo tra la piazza e via San Martino della Battaglia, ha sfiorato la testa di una bimba di sette anni e si è conficcata in un armadio. Cinquanta secondi. Tanto è durato il far west.

Guido Bellachioma è in coma farmacologico al Policlinico, ha subito una delicata operazione al cervello. Lui non può saperlo, ma sono passate soltanto poche ore da quando è stato ferito e nei letti vicini si sono aggiunti altri tre ragazzi. Hanno rispettivamente venticinque, ventiquattro e ventuno anni. Il più grave è in rianimazione, l’agente Domenico Arboletti, anche lui colpito gravemente in testa. Nessuno di loro morirà quel giorno ma tutti quattro porteranno a vita (Leonardo Fortuna e Paolo Tommassini anche attraverso lunghi anni di carcere) i segni di quella mattina di febbraio. I segni di quella rabbia ideologica che è stato per molti giovani il 1977 in Italia.