«Mamma, canteremo e festeggeremo. Non dovrebbe succedere nulla, è tutto tranquillo. Poi, lo sai, se le cose si mettono male non sono una stupida, me ne vado subito.» (Giorgiana Masi, 12 maggio 1977).
A Roma sono circa le 20.00 del 12 maggio 1977. È l’imbrunire di una soleggiata giornata capitolina, dopo uno di quei tanti pomeriggi di contestazione degenerata in caos e in battaglia urbana. Sotto le prime luci dei lampioni un gruppo di giovani manifestanti sta correndo in direzione di Trastevere. Dall’altra parte, verso la metà del ponte Garibaldi, le forze dell’ordine sono attestate in tenuta anti sommossa. Nella confusione una ragazza cade braccia in avanti, si accascia al centro di un incrocio. Il fidanzato che la precede di pochi passi pensa ad un malore, la soccorre insieme ad altri ragazzi, lei bisbiglia “mi sento paralizzata”. Un’auto si ferma, un’Appia guidata da un impiegato, la caricano e la portano subito all’ospedale Nuovo Regina Margherita. Dieci minuti ed il medico del pronto soccorso la fa stendere sul lettino, guarda gli altri e scuote la testa: la ragazza è già morta. Uccisa da un proiettile che è entrato nella schiena e, attraverso la spina dorsale, ha trapassato l’addome ed è fuoriuscito dalla parte anteriore poco sopra l’ombelico. La giovane è Giorgiana Masi, studentessa di 18 anni della quinta A del liceo sedicesimo, poi nominato Louis Pasteur, in via Barellai a Roma nord. Il mese dopo avrebbe acquisito la maturità scientifica, una ragazza seria e brava negli studi, con un talento per il disegno. Pesa quarantacinque chili e porta il busto per correggere la scoliosi, che la esonera dall’ora di ginnastica che si tiene all’aperto, dato che la scuola è sprovvista di palestra. Una ragazza di sinistra come tante in quegli anni, la domenica distribuisce il quotidiano Lotta Continua, a scuola anima un collettivo femminista e si batte per l’apertura di un consultorio. La sua morte sarà ricordata come data convenzionale per un periodo di lotte e trasformazioni, passato alla Storia come “il movimento del ‘77”. Il nome di Giorgiana come simbolo di una generazione.
Bisogna partire da quel nome dunque, da quel corpo minuto immobile sull’asfalto di una calda serata romana, per allargarsi a raggiera fino a raggiungere il cuore degli anni settanta.

L’Italia della seconda metà degli anni settanta è caratterizzata da una diffusa recessione economica determinata dalla crisi petrolifera del 1974, i sindacati bloccano le lotte predicando la necessità di sacrifici per la classe operaia. Sembra concretizzarsi il progetto del “compromesso storico” portato avanti da Enrico Berlinguer. Inoltre, alla contemporanea pesante disfatta del movimento operaio all’indomani delle grandi lotte di inizio decennio, si contrappone la forza ormai residuale dei gruppi extraparlamentari, mentre si estende e si rafforza come realtà attiva sulla scena politica italiana l’inquietante pratica della lotta armata. In questo contesto prende forma un movimento politico spontaneo extraparlamentare che si propone come sviluppo e trasformazione dei movimenti giovanili e operai esistenti nel Paese dopo il sessantotto. I “ragazzi del ‘77” sono giovani, più spesso giovanissimi, che non leggono Marx e nemmeno Lenin. Sono politicizzati, ma non vogliono sentire parlare di tessere, sezioni e gerarchie. Molti fanno parte di piccole tribù che si riconoscono a vista: freak, indiani metropolitani, femministe. A fare da culla politica a quest’area indefinita c’è Autonomia Operaia, una sigla che non corrisponde a un contenitore unico e accoglie al suo interno di tutto. Il 1977 è l’anno della rottura che ridefinisce le pratiche della militanza politica: nelle scuole, nelle fabbriche e nei circoli si pongono con grande forza questioni come la riappropriazione del tempo di vita, della soddisfazione dei bisogni umani, sganciati dalle esigenze produttive di un capitale che sta ristrutturandosi a danno dei lavoratori. Ma è anche un anno di estrema violenza. Nascono in quegli anni una serie di contestazioni che mettono in discussione la tipologia delle stesse organizzazioni che gli studenti si erano date fino ad allora, vengono nuovamente occupate le università, in particolare a Roma e Bologna. In realtà a Milano la contestazione inizia già due anni prima, con una settimana di rivolta e scontri seguita alla morte di Claudio Varalli, ucciso da un fascista il 16 aprile 1975 e di Giannino Zibecchi, investito da un gippone della polizia il giorno successivo. Qui si assiste alla nascita dei circoli del proletariato giovanile, gli antenati dei centri sociali, la pratica degli espropri nei negozi e nei ristoranti più cari, la teorizzazione del diritto al lusso per tutti, sino agli scontri dell’8 dicembre 1976 in occasione dell’inaugurazione della stagione della Scala. L’onda raggiunge anche gli operai di Torino, con l’ultimo grande ciclo di conflittualità operaia della Fiat. In questo clima si arriva alla folle scelta di organizzare il 17 febbraio 1977 il comizio del segretario della CGIL Lama nell’università La Sapienza di Roma, occupata. La lacerazione diventa incolmabile: gli scontri, il palco abbattuto, Lama messo in fuga con il servizio d’ordine del sindacato, mai così torvo in viso. E pochi giorni dopo l’esplosione della rossa Bologna, l’uccisione di Francesco Lorusso l’11 marzo, i blindati di Cossiga che ripristinano l’ordine dopo quattro giorni di rivolta. E ancora un susseguirsi di disordini, soprattutto a Roma che in quei giorni diventa una città molto pericolosa. Si assiste, tra l’altro, all’assalto alla sede della DC in piazza del Gesù il 12 marzo. Al raid dei fascisti del 29 marzo in un ristorante frequentato da militanti dell’estrema sinistra nel quartiere Borgo, a due passi dal Vaticano. Al successivo scontro a fuoco con la polizia in via della Conciliazione in cui restano feriti un agente ed un passante. Si arriva al 21 aprile, con gli scontri davanti all’università tra elementi di Autonomia operaia e forze dell’ordine, in cui perde la vita l’allievo sottufficiale di pubblica sicurezza 23enne Settimio Passamonti, e altri quattro agenti rimangono feriti. In quella circostanza a fianco della chiazza del sangue del poliziotto appare, sull’asfalto, la scritta “qui c’era un caramba, il compagno Lorusso è vendicato”. Al funerale del giovane agente i poliziotti sono esasperati, c’è anche il Ministro dell’Interno Cossiga, una donna lo aggredisce “così difendi chi ti difende?”. L’episodio viene rilanciato dai giornali, Cossiga comunica in Parlamento di aver deciso, con il sostegno del PCI, di vietare tutte le manifestazioni pubbliche a Roma e nel Lazio fino al 31 maggio.

In questo clima di contrapposizione strisciante, il 12 maggio il deputato radicale Pannella vuole comunque celebrare il terzo anniversario della vittoria dei “no” al referendum sul divorzio e raccogliere firme per altri otto referendum, tra cui uno sul diritto all’aborto e uno sulla legge Reale, che ha reintrodotto il fermo di polizia, non ponendo limiti alla carcerazione preventiva. Roma è ora una città blindata, migliaia di uomini in divisa presidiano il centro. La tensione è alle stelle. Secondo Pannella il divieto di manifestare sospende la Costituzione: “è un dovere disobbedire agli ordini ingiusti” dichiara in una seduta parlamentare. Cossiga intima inutilmente al deputato radicale di rinunciare alla manifestazione, visti i pericoli per la sicurezza pubblica. Alle 14.00 Piazza Navona è sotto l’assedio di blindati e autocarri, i turisti vengono fatti defluire in tutta fretta.
Quel giorno è un giovedì, a zonzo per Roma c’è anche una ragazza minuta, Giorgiana Masi. Ha trascorso la mattinata a scuola, dopo pranzo ha salutato la mamma Aurora e la sorella Vittoria, mentre il papà fa’ il parrucchiere e tornerà a casa solo la sera. Ha lasciato il suo appartamento, ubicato in un edificio popolare grigio e un po’ scrostato in via Trionfale, non lontano dall’ospedale San Filippo Neri, per recarsi in centro in compagnia del fidanzato Gianfranco Papini, di due anni più vecchio, studente in psicologia. Lo raggiunge sotto casa in via Achille Mauri, sotto la collina di Monte Mario, sono circa le 15.30. Prendono un autobus verso il centro, pensano di andare a firmare in piazza Navona per i referendum dei radicali, per poi godersi la giornata di sole. Ha con sé una borsetta con dentro due panini, una fettina di salame, una mela, nel portafoglio 3000 lire. La zona però alle 16.30 è già militarizzata e ogni accesso è vietato, i radicali provano ad inscenare un sit-in non autorizzato ma vengono respinti dal formidabile dispiegamento di polizia e carabinieri. Mimmo Pinto, di Lotta Continua, eletto deputato tra le file di Democrazia Proletaria viene spintonato, buttato a terra e dileggiato dai tutori dell’ordine. La diretta di radio radicale si collega con la voce concitata di Emma Bonino:
“… un signore che abita a Campo dei Fiori ci avverte adesso che alcuni autonomi o presunti tali stanno disselciando la piazza. Rimanete calmi! Manifestate in modo non violento! Niente provocazioni! … così facendo gli autonomi seguono il piano di Cossiga!”.

C’è puzza di lacrimogeni, frustrati dagli accadimenti i due ragazzi si allontanano, imbambolati cominciano a gironzolare nei dintorni, nella speranza che la situazione si sblocchi. Attraversano il Tevere, passano davanti al carcere Regina Coeli e percorrono il lungotevere Raffaello Sanzio, ignari che tra il ponte Garibaldi e piazza Gioacchino Belli è in corso una battaglia. In realtà diversi scontri sono in corso già dalle 15.00 circa in quella parte del centro cittadino e proseguono per tutto il pomeriggio, tra le 17.00 e le 19.30 nella zona di piazza San Pantaleo e di largo Argentina, nonché all’inizio di via Arenula dove è stata eretta una barricata poi rimossa dalla forza pubblica. Qui, sospinti dalle cariche, si sono radunati parecchi giovani, nel cui assembramento è confluito anche un corteo di circa 1500 militanti di Lotta Continua e numerosi autonomi, i più violenti, taluni armati. Un’altra barricata è stata rimossa in corso Vittorio Emanuele e sul ponte Garibaldi, dove i manifestanti hanno collocato di traverso alcuni automezzi a presidio di Trastevere. Durante questi ultimi gravi episodi vengono svuotati i serbatoi di diverse autovetture il cui carburante, versato sul piano stradale, è stato dato alle fiamme creando una barriera di fuoco. I contingenti di polizia si trovano bloccati all’imbocco di ponte Garibaldi. Due autoblindo celesti del primo raggruppamento Celere sono ferme di traverso in mezzo al ponte.
Le sirene tagliano il pomeriggio, gli antichi palazzi si intravedono appena e l’aria è ammorbata dal fumo. Giorgiana e Gianfranco arrivano alla fine di ponte Garibaldi mentre succede il finimondo, le due fazioni avanzano e retrocedono contendendosi il ponte come fosse un bastione. Papini racconta che ad un certo punto si sentono chiari alcuni colpi di arma da fuoco, un grande vociare confuso, squadre di polizia e carabinieri hanno appena smantellato una barricata. Le molotov provano a contrastare i lacrimogeni lanciati dai Fal, i caschi e gli scudi avanzano lentamente nel fumo verso il centro del ponte. È un attimo, tutti cominciano a correre verso piazza Belli. Sembrano api impazzite, alcuni sciamano verso destra e sinistra sui lati del lungotevere, Giorgiana e Gianfranco d’istinto corrono dritti in direzione di Trastevere. Più in là, al centro del ponte un giovane allievo sottufficiale dei carabinieri, Francesco Ruggeri, viene raggiunto di striscio da un colpo di arma da fuoco sparato non si sa da chi, mentre altri due ragazzi, Francesco Lacanale ed Elena Ascione sono anch’essi colpiti più o meno negli stessi momenti in cui Giorgiana viene ferita mortalmente. Quel giorno, oltre alla morte di Giorgiana, rimangono ferite da colpi di arma da fuoco otto persone. Vari testimoni dichiareranno che i colpi di pistola arrivavano dal ponte Garibaldi, dalla parte delle forze dell’ordine, eppure nessuna delle armi in dotazione ai reparti contingentati risulterà avere sparato quel giorno. Diversi i giornalisti e i fotoreporter presenti agli scontri durante tutto il pomeriggio, già dai primi fuochi accesi in piazza Cancelleria dalle parti di campo dei Fiori. Dalle fotografie pubblicate sui giornali si vedono, dal lato degli agenti in divisa, alcuni individui in borghese, armati. Nei vari scatti viene riconosciuto anche un poliziotto, Giovanni Santone, in maglietta bianca con una riga nera e tascapane da “autonomo”. Verrà fuori nei giorni successivi, non senza fatica, che a Roma il 12 maggio era presente un nucleo di venticinque poliziotti in borghese: tredici appartengono alla squadra antirapina, dodici al gruppo “squalo”, un contingente addestrato a contrastare i reati. Si parlerà di vigili urbani motorizzati e con le armi in pugno, visti più volte e in più punti da numerosi testimoni. Si parlerà di cecchini appostati attorno al ponte. Una cosa è certa, dalle principali comunicazioni della centrale operativa della Questura, acquisite agli atti della Procura, si capisce che qualcuno tra le 19.30 e le 20.35 sta’ sparando:
- Voce non identificata: “su ponte Garibaldi, dalla parte del lungotevere, stanno sparando!”;
- Vicequestore Squicquero: “si sono sentiti dei colpi di arma. Hanno fatto fuoco e un carabiniere è stato ferito …”;
- Questore: “mi raccomando non entrate nei vicoli! Fate solo azioni con giubbotti o macchine blindate”.

Il giovane fidanzato di Giorgiana, Gianfranco, la sera del 12 maggio viene interrogato per ore in Questura, il PM lo conduce in piazza Belli in piena notte per un sopralluogo. Giorgiana è morta da sei ore. Il ragazzo torna a casa sconvolto, si chiude in cucina e apre il gas per suicidarsi. Il fratello Roberto, rientrato per puro caso poco dopo, sente l’odore penetrante, abbatte la porta e lo trova accasciato su una sedia, privo di sensi. Lo salva in extremis trasportandolo al San Filippo Neri.
Cossiga e Pannella si scambieranno, rispettivamente, in Parlamento e nel corso di interviste, accuse di responsabilità morale nella morte della giovane Giorgiana. Si parlerà da una parte di strategia della tensione delle istituzioni, dall’altra di provocazione armata da parte di frange dell’autonomia.
Qual è il ruolo del caso nella vicenda di Giorgiana Masi? Una ragazza è stata uccisa di giorno su una pubblica via affollata da centinaia di persone, alcuni l’hanno vista cadere come inciampando, ma nessuno ha scorto la mano del sicario. Come è stato possibile? Chi ha sparato? Chi ha stroncato la sua giovane vita? Fu fuoco amico come sostiene Cossiga o furono agenti provocatori in borghese come sostengono i radicali e come cercherà di dimostrare l’avvocato di parte civile? Delle indagini si occupa il giudice D’Angelo, ci vorranno dieci mesi perché sia depositata la perizia medico – legale, che comunque non offrirà risposte chiare sulla dinamica completa dei fatti. Si ipotizza inizialmente una pistola calibro 22 long rifle usata da un massimo di 10 – 20 metri di distanza (la polizia sul ponte distava circa un centinaio di metri). La controperizia smentisce, parla di proiettile blindato in grado di passare un corpo umano da parte a parte, una Simth & Wesson che può colpire anche a 60 metri, oppure di una carabina che può uccidere anche a 150 metri.
Come sempre in Italia anche per questo caso cominceranno i misteri: il 17 maggio 1978 nei giardinetti di piazza Augusto Imperatore uno spazzino troverà un sacco di iuta con dentro un mitra, due pistole mitragliatrici, una baionetta, alcune munizioni e un revolver Smith & Wesson calibro 22, compatibile con quello che ha ucciso Giorgiana. Chi ha lasciato il sacchetto? E perché? Nulla emergerà, nel maggio 1981 il giudice D’Angelo disporrà l’archiviazione del processo “per essere rimasti ignoti gli autori dei fatti.” Il mistero non verrà mai svelato.
Nei giorni successivi al 12 maggio 1977 sulle prime pagine dei quotidiani spiccherà la fototessera di Giorgiana Masi. Con un faccino un po’ triste, un’espressione da adolescente corrucciata. Si scriverà: quasi un’immagine di chi sa di non avere futuro, non perché preveda la morte imminente, ma perché non “garantita” dalla società, come tutti quei giovani che sollevavano la testa in quegli anni di crollo delle certezze. Quattro giorni dopo la sua morte, Giorgiana è adagiata in una bara foderata di raso bianco. Al funerale pioggia fitta, pugni chiusi, bandiere rosse. Un corteo amaro, almeno quattromila giovani da tutta Roma, molti stringono un garofano. Qualcuno sul luogo del delitto lascia un biglietto con scritto “Forse Giorgiana sei più fortunata di noi, perché non devi più vedere questo mondo schifoso”. Rimarrà lì per giorni, fintanto che la pioggia non lo distruggerà.
“Ci si abitua, purtroppo. Molto rapidamente si perde la memoria di come è successo quel che è successo e tutto diventa un’immagine, un suono di fondo. Sarebbe già molto riuscire a conservare – come ibernato – lo stupore.” (Concita De Gregorio – giornalista)

Gli anni spezzati: Giorgiana Masi. Vivere e morire a Roma