Il Covid-19 non ha guardato in faccia a nessuno.
Ricchi, poveri, belli, brutti, simpatici, antipatici, intelligenti e non, se la morte bussava alla porta non importava chi avrebbe aperto.
Il mondo intero si era fermato una volta e ci si chiedeva se lo avrebbe fatto ancora…
Ma ve li ricordate quei giorni?
Il buco dell’ozono si stava richiudendo.
I livelli di smog erano diminuiti, lasciandoci la possibilità di respirare finalmente aria non più pregna di polveri sottili.
Il silenzio si era diffuso sulla terra, lasciando spazio a rumori che avevamo dimenticato, come il cinguettio degli uccellini, l’abbaiare dei cani o il rintocco delle campane.
L’alba e il tramonto erano meno infuocati perché il cielo era più sgombro.
Un Falco Pellegrino aveva nidificato sul Pirellone.
Gli animali selvatici avevano ripreso il loro spazio nel mondo.
In poco tempo tutta la nostra vita era cambiata.
Avevamo imparato a conoscere il lock down, a fare la scorta facendo la spesa, a non sudare con la mascherina, a non baciare gli amici quando li incontravamo, a stargli lontano almeno 1 metro per parlare, a non bere il nostro indispensabile caffè al bar parlando di quelle sciocchezze a cui pensavamo con nostalgia.
Anche il Natale era stato diverso, impensabile per alcuni di noi.
Eppure la vita aveva continuato a scorrere, aveva ripreso lentamente, con timidezza.
Al di là delle mura di casa nostra però non tutti erano sereni, non tutti aspettavano la ripresa delle attività.
Alcuni avevano pagato il prezzo più alto, perdendo la vita, oppure una persona cara. Altri avevano perso la loro attività, la loro sicurezza.
Morire al tempo del Covid-19 voleva dire farlo in solitudine, in una stanza di terapia intensiva, attaccati a un respiratore, senza la mano di una persona cara da stringere, senza il conforto del calore del compagno o della compagna di tutta una vita.
Per chi restava era difficilissimo, perché arrivava una telefonata e in un istante il cielo si squarciava di dolore.
In quei giorni passavano i carrarmati, sfilava l’esercito silenzioso e le centinaia di salme ammassate in locali comuni, in bare tutte uguali, andavano verso i forni crematori, nel silenzio delle città e dei paesi spopolati dalla paura.
Si guardava il Papa in televisione, da solo, inginocchiato in Piazza San Pietro.
Si contavano i morti e si osservavano paesi “evoluti”, come l’America, che nello stato di New York scavava una fossa, ad Hart Island, nel Bronx, utilizzando decine di lavoratori assunti proprio per preparare una grande tomba che potesse contenere le migliaia di vittime del virus.
Erano i giorni delle decisioni difficili, dell’andrà tutto bene, degli arcobaleni alle finestre, dell’inno d’Italia cantato sul balcone, delle torte fatte in casa, dei guanti usa e getta, delle chilometriche code al supermercato, degli scaffali svuotati dalla paura di rimanere senza cibo.
Speravamo nel domani, nella ripresa, magari lenta, speravamo che la vita di tutti i giorni potesse tornare presto, immaginavamo il nostro banale caffè con le amiche, le passeggiate in montagna, le chiacchierate con baci e abbracci per salutarci, le cene, magari in baita.
Ci pensavamo e restavamo a casa, per dare un piccolo contributo fatto di rispetto verso noi stessi e gli altri, ma soprattutto verso chi ogni giorno era ed è impegnato in una battaglia senza bombe e fucili contro questo nemico invisibile e tangibile chiamato Covid-19.
Sono passai due anni e ora cosa siamo diventati?
Cosa sogniamo?
Cosa vorremmo per il domani?
Siamo migliori oppure nulla ci ha cambiati?
Proviamo a pensarci… Proviamo a fermarci per guardare indietro e cercare di capire se neppure questa immane tragedia ci ha migliorati.
