“L’esercizio della violenza costituiva qualcosa di fondamentale nella mia storia, mi faceva sentire persona piena, capace di determinare i suoi spazi. Ero nell’età in cui ogni giorno vuoto ti sembra orribilmente perduto” (Bruno La Ronga, Prima Linea).
Torino, quartiere Borgo San Paolo. Tra corso Lione e via Lurisia c’è la via Francesco Millio, una strada anonima come tante in città, attorniata da condomini popolari in stile anni ‘50. Sul muro di uno di questi, all’altezza del civico 64, c’è una targa in pietra con la scritta: “Emanuele Iurilli, studente. 9 maggio 1960 – 9 marzo 1979. Vittima del terrorismo”. Chi era questo giovane? Quali tragici avvenimenti portarono alla sua morte?
Torino 9 marzo 1979 ore 13.15. In un grigio venerdì di fine inverno la campanella suona la fine delle lezioni nell’istituto tecnico “Carlo Grassi” di via Paolo Veronese, quartiere Borgo Vittoria, periferia nord della città. Emanuele Iurilli, studente diciottenne della classe 5^F, dopo essersi attardato per alcuni minuti a parlare con il preside si incammina verso la fermata dell’autobus. Il ragazzo abita a circa tre quarti d’ora di strada, in via Millio nel quartiere di Borgo San Paolo, case operaie e vecchie fabbriche. Unico figlio di una famiglia modesta, papà Alfredo è un operaio della FIAT emigrato dal sud, nativo di Spinazzola in provincia di Bari. Mamma Elvira è piemontese delle Langhe, insegna alle elementari del Santorre di Santarosa. Mentre l’autobus percorre le vie cittadine Emanuele ha con sé la cartella di plastica nera con dentro quaderni e libri di testo, tra i quali un saggio: “il partigiano Johnny”. Il romanzo di Fenoglio sulla guerra di liberazione gli è stato consigliato dalla mamma che da bambina ha vissuto la resistenza nel cuneese, gli servirà come “tesina” all’esame di maturità, ancora pochi mesi e diventerà Perito Aeronautico. Ancora pochi minuti e sarà a casa per il pranzo in quello che sembra un giorno come tanti; il ragazzo non può sapere che il conto alla rovescia con il suo destino è già cominciato, qualche giorno prima, in un bar a soli cento metri dall’ubicazione della sua scuola.

Antefatto
Siamo nel pieno degli anni di piombo, la Torino amministrata dal sindaco Diego Novelli vive un clima di tensione estrema: per certi versi un vero e proprio campo di battaglia, assediata da attentati, sparatorie, scioperi, scontri e manifestazioni diffuse. Nella guerriglia “rossa” oltre alla colonna torinese delle Brigate Rosse opera anche il gruppo più numeroso e pericoloso di un’altra formazione armata di ispirazione comunista: Prima Linea, attiva da un paio d’anni e composta in prevalenza da fuorusciti di Lotta Continua. Prima Linea critica l’organizzazione militare e il dogmatismo ideologico delle BR, rifiuta la trasformazione della lotta armata in una élite di combattenti preferendo identificarsi nell’avanguardia delle masse proletarie e del “movimento del 77”. Per questo alla clandestinità cerca, per quanto possibile, di contrapporre un suo “ruolo pubblico”, finalizzato ad una insidiosa opera di infiltrazione nel movimento sindacale, tra i delegati di fabbrica e nei quartieri. Da alcuni mesi le formazioni armate di Prima Linea stanno alzando il livello dello scontro in tutta Italia, con numerose azioni in città come Milano, Firenze, Napoli. A Torino il 19 gennaio 1979 un gruppo di fuoco di PL, diretto dal ventiseienne Bruno La Ronga, uccide l’agente di custodia Giuseppe Lorusso, 30enne, padre di due bambini di 2 anni e 8 mesi. Un agguato alle 7.10 del mattino, mentre uscito dalla sua abitazione sta’ salendo in auto per raggiungere il lavoro. Le forze dell’ordine stringono la morsa: potenziano le pattuglie, incrementano i controlli improvvisi sui tram, nei locali, fermano auto private e mezzi pubblici, suddividono la città i settori predisponendo numerosi servizi in borghese. Il 15 febbraio i comitati di quartiere del PCI torinese promuovono la distribuzione di oltre centomila questionari per sensibilizzare la popolazione sul fenomeno terroristico e sulla necessità che ogni cittadino fornisca informazioni utili alla polizia. I militanti di Prima Linea, allo scopo di sabotare questo processo di ricomposizione sociale e di coesione anti-eversiva, decidono immediatamente di attaccare le strutture dirigenziali del partito cittadino. L’obiettivo è il membro PCI del consiglio circoscrizionale del quartiere “Madonna di Campagna” Michele Zaffino.

Scontro a fuoco al bar dell’Angelo
È il 28 febbraio, il gruppo di fuoco composto da tre uomini ed una donna deve attaccare la sede del PCI e ferire il consigliere Zaffino. Poco prima dell’operazione bisogna mettere a punto i dettagli, si sceglie un incontro al “bar – ristorante dell’Angelo” di piazza Stampalia. Nel locale entrano due di loro, quelli che dovranno eseguire materialmente l’attentato, si tratta di Matteo Caggegi, nome di battaglia “Charlie”, operaio della Fiat 20enne e Barbara Azzaroni, nome di battaglia “Carla”, maestra d’asilo di 29 anni. Sono entrambi armati e indossano giubbetti antiproiettile sotto i cappotti. Tutto succede velocemente, mentre Fabrizio Giai ed un quarto componente del commando sono ancora fuori a bordo di una Fiat 128 verde, davanti al bar giungono a forte velocità tre volanti di polizia, allertate da una segnalazione telefonica. Alcuni agenti irrompono nel locale senza che i due terroristi sull’auto possano intervenire. Il conflitto a fuoco all’interno è breve ma violento. Quando cessano i colpi di arma da fuoco l’agente Antonio Nocito, di anni 28, è piegato in un angolo ferito in maniera non grave, mentre Caggegi e Azzaroni giacciono, semisvestiti e senza scarpe, riversi in un lago di sangue. Colpiti a morte nonostante i giubbetti antiproiettile. Giai e l’altro compagno si dileguano senza farsi notare e, già il giorno successivo, da un covo torinese diramano un comunicato in cui rivendicano l’azione, piangono la morte dei compagni e preannunciano una dura rappresaglia. La tensione è alle stelle, ai funerali di Barbara Azzaroni a Bologna partecipano in massa studenti universitari di estrema sinistra, vicini alle posizioni dei gruppi di lotta armata. Adesso la priorità per Prima Linea è colpire la polizia per vendicare i militanti caduti.

Agguato alla bottiglieria di via Millio
Neanche 10 giorni dopo, 9 marzo 1979 ore 13,40. Emanuele Iurilli è ancora sull’autobus, sulla strada di casa. In via Millio quattro terroristi armati di pistole e mitra irrompono nel negozio “bottiglieria” ubicato al civico 64/A, all’angolo con via Lurisia. Sono Maurice Bignami – legato sentimentalmente alla Azzaroni, uccisa pochi giorni prima – Fabrizio Giai, Giancarlo Scotoni e Bruno La Ronga. Dopo aver provato a rassicurare i presenti con la frase “non preoccupatevi, non siamo rapinatori, siamo compagni”, li rinchiudono nel retro dell’esercizio, minacciati con un fucile a pompa da Scotoni. Mentre Bignami e Giai si appostano dietro al bancone, Ronga raggiunge la quinta componente, Silveria Russo, già in copertura fuori dal locale. Parcheggiate poco lontano hanno lasciato due Fiat, una 131 e una 124 familiare. Probabilmente se le cose si mettono male potranno contare anche su una Volskwagen, più defilata in una strada laterale. Con una telefonata in Questura Bignami, fingendosi il gestore della bottiglieria, segnala di aver appena bloccato un ladro di autoradio e di trattenerlo in negozio. La volante undici con tre agenti a bordo arriva alle 14.20, il gruppo di fuoco la sta’ già aspettando grazie ad una radio ricetrasmittente in possesso al Bignami, in grado di sintonizzarsi sulla frequenza della polizia. L’appuntato Gaetano d’Angiullo prova ad entrare per primo, si affaccia sulla porta venendo subito fatto segno di colpi d’arma da fuoco. Cade all’indietro sul marciapiede, colpito gravemente all’addome e alle gambe. Il secondo agente che era subito dietro, rinuncia ad entrare e indirizza una prima sventagliata di mitra M12 attraverso la vetrata, ingaggiando un conflitto a fuoco con i terroristi bloccati all’interno. Il terzo agente, l’autista della pattuglia, si avvede della coppia armata all’esterno e ne nasce una seconda sparatoria. Gli attimi che seguono sono concitati, caratterizzati da confusione, grande emotività ed un enorme volume di fuoco che genera numerose pallottole vaganti tra le auto in sosta. La Ronga, colpito da quattro proiettili alle ginocchia e al polso (poi risultati provenienti dal fuoco amico della compagna Silveria) grida per il dolore. Mentre Scotoni è impietrito dalla paura, Giai udendo le urla del compagno si precipita fuori dal locale esplodendo una serie di colpi di fucile all’indirizzo dei poliziotti riparati dietro alcune autovetture in sosta. Dalle testimonianze raccolte successivamente sembra che Silveria Russo e Maurice Bignami, non potendo raggiungere l’auto più vicina, la Fiat 131, fortemente danneggiata dalla sparatoria, riescano a fuggire a bordo di una Simca abbandonata nel trambusto dal proprietario con le chiavi inserite. Giai e Scotoni, sotto il fuoco incrociato dei poliziotti non trovano altra possibilità che caricare il compagno La Ronga semisvenuto a bordo della volante di polizia, usandola per la fuga nonostante abbia entrambe le gomme posteriori forate. Dopo un percorso tortuoso i fuggiaschi giungono in piazza Sabotino, nel mezzo di un mercato rionale. La Giulia non è più marciante e viene abbandonata mentre, sotto la minaccia delle armi, il gruppo riesce a dileguarsi grazie al sequestro di un taxi.

La violenta sparatoria è durata in tutto meno di dieci minuti. In quel lasso di tempo vengono esplosi almeno 64 colpi di arma da fuoco, i proiettili vaganti forano auto in sosta, infrangono vetrate, si conficcano nei muri delle case. I passanti provano a ripararsi come possono, tra di loro c’è Emanuele Iurilli, appena sceso dall’autobus. Abita di fronte alla bottiglieria e si trova poco distante quando comincia il finimondo: terrorizzato cerca di scappare sperando di superare indenne i dieci metri che lo separano dal portone di casa. Sente le raffiche, si ripara dietro una Fiat 500 proprio tra la via Lurisia e la via Millio, troppo vicino al fuoco incrociato. Una pallottola vagante – come accertato successivamente partita dal Kalashnikov di La Ronga – penetra nel braccio destro, perfora un polmone e si conficca nel torace. Tra le numerose persone affacciate dai palazzi della via Millio c’è anche Elvira, la mamma di Emanuele, che non può fare altro che assistere sgomenta all’episodio. Quando tutto finisce il ragazzo, raccolto agonizzante, viene trasportato all’ospedale Molinette dove invano si tenta una disperata operazione per salvarlo. Emanuele muore poche ore dopo.

Per i capi nazionali di Prima Linea Sergio Segio e Marco Donat Cattin, giunti per l’occasione nel capoluogo piemontese da Milano, la vendetta per i compagni caduti nel “bar dell’Angelo” non può certo definirsi conclusa. Fabrizio Giai ritiene infatti che l’autore della segnalazione alla polizia che ha portato all’uccisione di Azzaroni e Caggegi sia proprio il gestore del locale, un certo Carmine Civitate. Il 18 luglio 1979, poco dopo le 18.00, due giovani scesi da una vettura parcheggiata davanti al bar dell’Angelo entrano nel locale ed esplodono tre colpi di arma da fuoco colpendo Civitate in fronte e al petto. Morirà sul colpo. La rivendicazione al quotidiano “La Stampa” conferma che l’omicidio è stato originato dalla volontà di vendicare i due compagni morti il 28 febbraio. Due anni dopo, nel corso del processo, si scoprirà che la segnalazione alla polizia non era partita dal povero barista – che tra l’altro aveva rilevato il locale solamente pochi giorni dopo la sparatoria – ma dal proprietario di una vicina tabaccheria. Carmine Civitate, di anni 38, lascia la moglie Francesca ventisettenne e due figli di 5 e 4 anni. Prima Linea resterà attiva ancora fino al 1981, disgregata e distrutta dagli arresti e dai pentiti (tra i quali Fabrizio Giai, già dissociato nel 1980, che racconterà i dettagli delle tragiche vicende torinesi). Tutti i componenti di fuoco di via Millio saranno arrestati e processati.
Come spesso capita per le vittime che non rivestono ruoli pubblici, che non vengono identificate come servitori dello Stato, la figura di Emanuele Iurilli verrà presto dimenticata, restando viva solamente tra i familiari e gli amici. Ci sono voluti 35 anni perché almeno una targa venisse apposta, nel 2014, sul luogo in cui il ragazzo perse la sua giovane esistenza, interrompendo almeno simbolicamente quel lunghissimo periodo di oblio. Il suo miglior amico, il cugino Michelangelo, lo ha ricordato nei pomeriggi passati insieme a costruire modellini di auto e di aerei. “Emanuele – racconta Michelangelo – avrebbe voluto diventare ingegnere aeronautico, sognava di volare”.

Nel 2016, nel corso di una commemorazione in suo ricordo, una studentessa dell’Istituto ‘Carlo Grassi’ ha dedicato ad Emanuele le seguenti parole:
Ho fatto quello che ho potuto per inseguire i miei sogni; le auto per costruirli, gli aerei per realizzarli. Era tutto quello che volevo, volare, ecco si volare, l’unica passione vera della mia vita, la quale mi portava ad avere un obiettivo.
Ma poi è arrivato il giorno dopo una giornata di scuola, ho incontrato la fiamma: mi ha tirato via con lei. Come non volesse andar senza di me mi ha voluto con lei, come aspettasse proprio me mi ha stretto forte al petto. Come non mi volesse in vita più mi ha preso e non mi ha fatto più volare.