Tutti conosciamo la storia di Biancaneve, soprattutto per il film di animazione Disney del 1937, che ci rivela una storia sì avvincente, ma molto edulcorata rispetto alle versioni letterarie. Ma dietro ogni storia c’è un fondo di verità, quindi… cosa si nasconde dietro Biancaneve? La fiaba è stata pubblicata per la prima volta dai fratelli Grimm così come l’hanno raccolta attingendo alla tradizione orale tedesca. Infatti, l’obiettivo primario dei Grimm non era scrivere un libro di fiabe, ma attuare una raccolta del patrimonio di racconti popolari, al fine di condurre uno studio linguistico e folclorico. La prima edizione delle fiabe risale al 1812, edizione a cui ne seguiranno altre sei, ampiamente rimaneggiate e riviste dai due fratelli, questa volta sì, con l’intenzione di farne un’opera letteraria. Se mettiamo a confronto le fiabe del 1812 con quelle dell’ultima edizione, del 1857, le differenze sono lampanti. E queste differenze interessano anche la nostra fiaba, Biancaneve. Sono due i racconti dei Grimm che riportano questo titolo: Schneewittchen (quella di Biancaneve e i sette nani, già presente nel 1812) e Schneeweißchen und Rosenrot (Biancaneve e Rosarossa, introdotta nel 1837). I due racconti non hanno nulla in comune, se non il nome della protagonista (il nome Schneewittchen significa esattamente “Biancaneve”, ma nella versione in dialetto alto tedesco). Vediamo prima di tutto come si svolge la fiaba originale, quella del 1812.
“La versione del 1812”
La madre di Biancaneve, dopo essersi punta un dito, sogna di avere una bambina bianca come la neve, nera come l’ebano e rossa come il sangue. Dopo aver dato alla luce Biancaneve, la madre inizia a provare una forte gelosia verso di lei; una gelosia tanto grande che, quando Biancaneve compie sette anni, la madre chiede a un cacciatore di ucciderla e di portarle polmone e fegato, in modo da cucinarli con sale e pepe. Biancaneve, quindi, fugge e si rifugia presso i sette nani.
La madre si presenta da Biancaneve camuffata da vecchia venditrice e regala alla figlia un nastrino da legare al collo. È la madre stessa che, con la scusa di aiutarla a indossarlo, stringe il nastrino talmente forte da soffocarla. Per fortuna i nani giungono in tempo per salvarla. Il secondo tentativo della madre è un pettine avvelenato, ma anche qui intervengono i nani che sfilano il pettine dai capelli della bambina. Al terzo tentativo Biancaneve cade nel tranello: mangia la mela avvelenata e cade a terra come morta. Quando i nani la trovano, pensano che sia troppo bella per seppellirla, così la mettono in una bara di cristallo con inciso il suo nome in lettere d’argento, e la tengono in casa “per molto, molto, molto tempo”. Il principe, passando di lì, si innamora perdutamente del cadavere e lo chiede in dono ai nani. Il principe non riesce a fare più nulla senza avere accanto la bara di vetro, è preso da umor nero quando non può guardarla e mangiare gli è impossibile senza averla con sé.
I servitori del principe, stanchi di portare avanti e indietro la bara, un giorno la aprono e se la prendono con il cadavere, scuotendolo. In questo modo Biancaneve sputa il pezzo di mela e ritorna in vita. Il principe organizza subito le nozze con la ragazza, che non esita a invitare anche la madre. La donna, tuttavia, è ancora decisa a ucciderla. Ma al matrimonio la attende una brutta sorpresa: la madre deve indossare delle scarpe di ferro arroventate che le bruciano orribilmente i piedi la costringono a ballare fino a cadere a terra morta.
Balzano subito all’attenzione i particolari più macabri, come gli echi di cannibalismo e necrofilia, e la terribile punizione ricevuta dalla madre di Biancaneve. Tuttavia, non sono mancati i tentativi di ricondurre la storia di Biancaneve a una vicenda reale. Lo studio più noto è quello di Karl-Heinz Bartels. Lo storico era originario della cittadina di Lohr sulle sponde del Meno, in Franconia. In questa cittadina nacque infatti nel 1729 Maria Sophia Margaretha Catharina von Erthal, il personaggio reale che, secondo Bartels, ha ispirato la Biancaneve letteraria.
“La vera Biancaneve?”
Maria Sophia Margaretha Catharina von Erthal era figlia di Philipp Christoph von Erthal, architetto e contestabile del territorio del Zurmani a Lohr. Grazie alle sue capacità diplomatiche, viaggiava spesso come inviato in missioni speciali, era una sorta di ministro degli esteri. Di conseguenza, ebbe l’opportunità di interagire con governanti e regnanti di tutta Europa. Quindi, nella mente degli abitanti di Lohr, i “von Erthal”, che vivevano nel castello della città, avevano tutte le caratteristiche di una famiglia reale. Nel 1741 morì la madre di Maria Sophia e, il 15 maggio 1743, suo padre sposò Claudia Elisabeth Maria von Venningen, nata contessa imperiale di Reichenstein. La fiaba descrive un rapporto a tinte cupe tra Biancaneve e la madre (la matrigna nelle versioni successive al 1812), complesso come lo era nella vita reale tra Maria Sophia e la matrigna Claudia Elisabeth. La donna non sopportava la presenza dei figliastri e i rapporti con Maria Sophia peggiorarono a tal punto che la matrigna costrinse la ragazza a fuggire di casa e a vivere nei boschi, in condizioni di totale abbandono. Una versione non molto accreditata dice che la giovane morì di vaiolo, abbandonata. Secondo altre fonti più autorevoli, però, la baronessa Maria Sophia sopravvisse al vaiolo, ma la malattia le rese pressoché cieca e si ritirò a Bamberga, nella dimora di una nubile inglese, dove morì dimenticata da tutti all’età di 71 anni. Resta comunque il fatto che Maria Sophia abbandonò la casa paterna. Mentre la vanitosa matrigna ordinava specchi d’ogni genere dalle più prestigiose vetrerie per potersi ammirare, e se ne faceva addirittura regalare uno parlante dal marito in grado di ripeterle quanto fosse lei la più bella, Maria Sophia trovò ospitalità da piccoli minatori che lavoravano nelle abbondanti miniere della regione. Questi vennero poi definiti “nani” per nascondere la loro vera identità, ovvero l’essere dei bambini schiavi o comunque persone deformi, provate dalle fatiche disumane e stremati dalla malnutrizione e dalle malattie. Si crede che l’ispirazione per i fratelli Grimm furono le sette montagne chiamate Höhenwer, nelle cui vicinanze si trovano le miniere di Bieber. Anche lo specchio parlante è realmente esistito, ed è tuttora esposto al museo dello Spessart a Lohr. Si tratta di un grande manufatto alto oltre un metro e mezzo, circondato da una cornice con motti e cartigli e costruito in modo che, tramite un gioco di echi, ripetesse quello che gli veniva detto. L’allontanamento della giovane Maria Sophia dal castello di Lohr provocò una notevole indignazione negli abitanti, tanto da far nascere la leggenda dell’avvelenamento. In questo caso, la celebre mela avvelenata sarebbe collegata al veleno della belladonna, pianta che cresce in abbondanza nei pressi del castello di Lohr e nei boschi della regione dello Spessart. Persino la vicenda della bara di vetro potrebbe trovare un riscontro nella realtà, dato che la zona contava numerose vetrerie (dalle quali, come accennato in precedenza, anche la matrigna contessa von Venningen acquistava i suoi amati specchi). Anche la presenza di numerose botteghe di fabbri potrebbe essere all’origine del macabro finale della fiaba, quello della danza sulle scarpe di ferro arroventate.
Considerato quindi che i fratelli Grimm hanno vissuto ad Hanau, che si trova solo a 50 km dalla città di Maria Sophia, non sembra un’ipotesi impossibile che la baronessa sia stata una delle ispiratrici della fiaba di Biancaneve. Non a caso ho detto “una delle ispiratrici”, perché pare che nella vicenda di Biancaneve siano confluite le vicissitudini di un’altra nobile tedesca, Margaretha von Waldeck.
Un’altra candidata al titolo di Biancaneve
Qui ci vengono in aiuto gli studi di Eckhard Sanders, che negli anni ’90 pubblicò il saggio Schneewittchen: Marchen oder Wahrheit?: ein lokaler Bezug zum Kellerwald (per il mercato italiano, Biancaneve: è una fiaba?). Dunque, secondo Sanders Biancaneve si ispira alla storia di Margaretha von Waldeck. Margaretha visse tra l’Assia e la Bassa Sassonia, ed era nata nel 1553 da Filippo IV, conte di Waldeck-Wildungen, e dalla sua prima moglie Margarethe von Ostfriesland. Dopo la morte della madre, quando Margaretha aveva solo quattro anni, il padre sposò in seconde nozze la severissima Katharina von Hatzfeld. Pare che i rapporti tra la matrigna e la giovane Margaretha fossero pessimi. La fanciulla, descritta dai documenti della città di Bad Wildungen come di straordinaria bellezza, fu allontanata dal castello quando aveva sedici anni e quasi esiliata a Bruxelles. Qui si innamorarono di Margaretha molti nobiluomini, incluso l’erede al trono di Spagna, il futuro Filippo II. La relazione fu fortemente osteggiata, anche perché la ragazza era di fede luterana. Margaretha morì a 21 anni, probabilmente avvelenata. Molte furono le illazioni, tra cui l’intervento di sicari fatti arrivare dalla Spagna. Ma le similitudini proseguono. Il conte Filippo IV von Waldeck era proprietario di numerose miniere, nelle quali lavoravano in condizioni di schiavitù dei bambini, che vestivano con lunghi cappotti e berretti a punta: anche qui c’è la presenza di quelli che poi sarebbero diventati i nani. La residenza dei sette nani descritta dalla fiaba potrebbe essere stata modellata sul villaggio minerario di rame di Bergfreiheit, oggi un distretto di Bad Wildungen. Esattamente come i nani della fiaba, nel 1500 i piccoli minatori di Bergfreheit vivevano tutti insieme in una casa singola, che a volte accoglieva fino a 20 bambini. Nella vicenda di Margaretha troviamo anche il riferimento alla mela avvelenata. Come già è stato scritto in precedenza, la morte di Margaretha è avvolta nel mistero e si sospetta che la causa sia stata l’avvelenamento. Secondo Eckhard Sander, negli anni in cui visse la ragazza, le cronache di Wildungen riportarono che un anziano fu arrestato per aver dato mele avvelenate ad alcuni bambini per scoraggiare i furti nei suoi frutteti. Un altro possibile riferimento è la leggenda, all’epoca popolare, dello “stregone dei Meli”, utilizzata per spingere i bambini a non rubare dai frutteti altrui. In quel caso lo stregone sarebbe stato infatti in grado di avvelenare le mele e causare ai piccoli ladri fortissimi mal di pancia.
“Una versione napoletana…”
Ma c’è di più oltre alle travagliate vicende di queste nobili donne. Nel Pentamerone di Giambattista Basile è contenuta una storia in cui una bella bambina di sette anni di nome Lisa cade senza sensi quando un pettine si incastra nei suoi capelli. Messa in un sarcofago di vetro (come Biancaneve), Lisa continua a crescere e diventa ogni giorno più bella (come Biancaneve). Un parente, invidioso della bellezza di Lisa, giura di ucciderla (proprio come la regina gelosa decide di uccidere Biancaneve), e a questo scopo apre il sarcofago. Ma mentre trascina Lisa per i capelli, il pettine si stacca e la bella ragazza torna in vita.
“… e bellunese”
In tempo di carestie e guerre, c’era una terra chiamata le “sette montagne di vetro”, nelle Dolomiti. Esattamente nelle viscere del Monte Pore sorgeva l’incantevole e vivace Regno di Aurora. Era un regno fatto di miniere, dove non si estraeva solo l’oro, ma anche argento e soprattutto ferro. La leggenda continua narrando la storia di Delibana, la vergine prescelta per sacrificarsi, rinunciare alla sua vita e scendere nelle viscere della miniera per ben sette anni, in modo da assicurare fertilità alla vena sotterranea. La “Biancaneve” delle Dolomiti, quindi, era circondata da un laborioso popolo di minatori e garantiva una provvigione di ferro al vicino castello di Andraz. Ma in ogni leggenda c’è un fondo di verità: infatti, già nel 1177, dalle miniere del Fursil, si estraeva uno straordinario minerale ferroso, ricco di manganese e resistente come l’acciaio, tanto da attirare l’attenzione di Federico Barbarossa. Lo studioso Giuliano Palmieri ha rintracciato nella storia di Delibana, importata in Germania dalle maestranze che avevano lavorato nelle miniere del Fursil, l’impianto della celebre fiaba poi raccolta dai Grimm.
“Conclusioni”
Tra le due ipotesi “storiche”, possiamo dire che la storia di Maria Sophia von Erthal presenta nel complesso più elementi di collegamento con la fiaba di Biancaneve. Questo non esclude tuttavia che anche frammenti della vicenda più antica di Margaretha von Waldeck possano aver attraversato i secoli, per finire in una delle fiabe più famose del mondo. Dopotutto, l’abbiamo visto anche con l’apporto di Giambattista Basile e della leggenda di Delibana, il fascino di queste storie consiste nel mescolare realtà e immaginazione, passato e presente, vita ed eternità.
