Rani di Jhansi, la regina guerriera

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Dopo un attacco dei ribelli il 7 luglio, in cui gli inglesi riescono a difendere City Fort a costo di gravi perdite, il capitano Skene, che comanda i superstiti, tratta la resa. I ribelli li autorizzano ad andarsene, purché consegnino le armi: ma, quando gli inglesi sono disarmati, li attaccano e compiono una strage, incuranti del fatto che si tratta soprattutto di civili, in gran parte donne e bambini.....

Corsi e ricorsi storici che si presentano in modo tale che i contemporanei non li riconoscono, quindi dovranno provvedere i posteri.
Il Regno Unito del 1856 è una nazione in continua crescita ed espansione, nella quale i sudditi finalmente si riconoscono dopo secoli di contrapposizione tra i monarchi percepiti come stranieri e la popolazione in generale. Il nazionalismo nasce dalla creazione di un passato eroico, di una radice comune cui far riferimento per la propria identità collettiva, a costo di inventarselo dal nulla o di forzare parecchio la realtà storica.
Nel caso degli inglesi, che tra i popoli del Nord Europa sono quelli che hanno subito la più marcata e indelebile impronta della colonizzazione romana, questo passato eroico viene costruito proprio a partire da chi ai Romani cercò di opporsi. E, poiché in quel momento regna una regina (Vittoria) destinata a durare molto a lungo, il primo modello da seguire è quello di un’altra regina, Boudicca degli Iceni, quella che nel I secolo dopo Cristo guidò la principale rivolta contro gli invasori, finita peraltro molto male.
Tra l’altro, sembra che il nome originale (Boudica), in brittonico antico, significhi appunto “Vittoria”. Tu guarda a volte le coincidenze…


Gli inglesi del XIX secolo preferiranno però trascrivere il nome della regina guerriera degli Iceni nella forma più musicale Boadicea, immortalata da un poema classicheggiante, pieno di echi catulliani, del “poet laureate” del tempo, Alfred Tennyson, che rappresenta l’apice del gusto del tempo (e pazienza se, qualche decennio dopo, in “Dedalus”, James Joyce lo definirà “un rimaiolo”).
Mentre Tennyson lavora al suo poema, il principe consorte Alberto offre i suoi cavalli allo scultore Thomas Thornycroft, che li userà come modelli per il maestoso gruppo bronzeo che domina il Tamigi dall’Embankment di Londra.
Ma, intanto, dall’altra parte del mondo, la storia di Boudicca si ripete, con gli inglesi nel ruolo di invasori malvagi che diciotto secoli prima era stato dei Romani.
Una situazione piuttosto imbarazzante per gli storici britannici che ne scriveranno, i quali preferirono scantonare attribuendo alla protagonista della vicenda una similitudine con Jehanne d’Arc, che non c’entra molto, ma essendo francese può essere scomodata senza che questo incida sui cliché nazionalisti (senza contare, tra l’altro, che anche Jehanne d’Arc è stata ammazzata dagli inglesi).
Dall’altra parte del mondo c’è l’India. Uno di quei Paesi che sarebbe sempre più opportuno considerare come se fossero dei continenti, vista l’estensione, la popolazione, i diversi climi, le tantissime etnie di lingue e culture diverse e i conflitti che scoppiano perennemente tra loro per questioni di ogni genere, da quelle economiche a quelle religiose.
Per gli inglesi, questa situazione ha rappresentato una fortuna. Dai Romani (non certo dagli Iceni!), gli inglesi hanno imparato benissimo il principio del “divide et impera” e in India lo praticano su vasta scala. Alla fine, anche quando nominalmente questo o quel regno o principato risulta indipendente e autonomo, sono sempre gli inglesi a decidere fino a che punto lo è. I monarchi locali sono perfettamente liberi di essere fedeli alleati della corona britannica: per ogni altra cosa, lo sono pochissimo.


A buona parte degli indiani, questa realtà non va bene e la tensione esplode a un secolo esatto dalle prime affermazioni inglesi sul territorio indiano, datate 1757: è il 1857 quando la rivolta dilaga in tutta l’area e coinvolge soprattutto le truppe locali che gli inglesi hanno arruolato alle proprie dipendenze, i cosiddetti Sepoys (“soldati” in bengalese). La scintilla che accende il fuoco è una circostanza che mostra quanto sia distante la sensibilità europea da quella locale: le truppe hanno ricevuto in dotazione dei nuovi fucili ad avancarica della Enfield; durante il caricamento di questi, il soldato deve aprire la cartuccia usando i denti; la cartuccia è unta di un grasso che deve poi facilitare lo scorrimento all’interno della canna; si tratta palesemente di grasso animale. I soldati di religione hindu sono preoccupati che si tratti di grasso bovino (la loro religione vieta il consumo di carne bovina), i soldati di religione musulmana sono preoccupati che si tratti di grasso suino (la loro religione vieta il consumo di carne suina).
Quando la questione viene posta agli ufficiali inglesi, questi non solo non danno alcuna risposta, ma rispondono irritati che si tratta solo di stupide superstizioni. A quel punto, i Sepoys, che avevano già da tempo la sensazione di essere sottoposti a un asfissiante processo di assimilazione culturale, pensano che la misura sia colma e si ribellano.
Ma se la ribellione si estende (e ci vorrà molto per sedarla, molto tempo in cui si susseguiranno molti spargimenti di sangue), ci sono anche altre ragioni. Ad esempio, la Compagnia delle Indie (l’impresa commerciale inglese che ha il monopolio dello sfruttamento delle colonie, di cui la Corona britannica è una dei principali azionisti) ha imposto agli indiani la “dottrina dell’estinzione”: in pratica, ogni volta che muore un monarca indiano senza eredi maschi naturali (sono quindi escluse le figlie femmine e i figli adottati), la Compagnia annette il territorio alle sue proprietà private: che, così facendo, in pochi anni diventano vastissime. Per gli indiani, questa dottrina è un furto che viola i loro più elementari diritti.
È proprio in una di queste circostanze che matura la vicenda della Rani di Jhansi, la regina guerriera che oggi viene ricordata (anche dagli inglesi) come la “Boadicea indiana”.
Nel 1857, il piccolo stato di Jhansi sembra di gran lunga il meno indicato per ambientarvi una ribellione antibritannica. I suoi monarchi sono da sempre fedeli servitori e alleati degli inglesi, cui si sono sottomessi spontaneamente, senza bisogno della minima azione militare. Gli stessi inglesi dicono che è il posto più tranquillo in cui un Europeo possa vivere in Asia.
L’ultimo marajah di Jhansi è però un uomo piuttosto sfortunato per quanto riguarda la sua vita privata. Gangadhar Rao, questo è il suo nome, è un uomo colto e sensibile, mecenate delle arti e soprattutto del teatro, che è la sua vera passione. Quando può, trova sempre il modo di andare in scena nelle vesti di regista o attore. Non disdegna neanche i ruoli femminili. Per la verità, sembra che rivestire ruoli femminili gli piaccia anche fuori dell’ambito teatrale. Però, le ragioni dinastiche gli impongono di sposarsi, cosa che fa due volte: la prima moglie muore giovanissima senza avergli dato eredi, la seconda è una ragazza che si chiama Lakshmi Bai, anche se è nata con quello di Manukarnika (e perciò sarà sempre chiamata Manu in famiglia), ed è originaria di Benares.
Fin dall’infanzia, Manu si è rivelata un carattere indipendente e autonomo e il fatto che provenga da una famiglia di bramini la rende il soggetto ideale per un matrimonio che la innalzi ulteriormente sul piano sociale.
In questo periodo anche altre principesse indiane mostreranno un notevole livello di autonomia, favorito dalla debolezza caratteriale dei loro mariti, come la begum (principessa, appunto) di Bhopal e quella di Oudh: quest’ultima arriverà a tenere intorno a sé una specie di guardia pretoriana composta da ragazze armate e addestrate. Ma avranno il buonsenso di non tirare troppo la corda con gli inglesi.
Invece Manu, la Rani (regina) di Jhansi sarà costretta a schierarsi apertamente contro di loro.
Il matrimonio con Gangadhar Rao è stato felice, ma di figli non ne sono arrivati lo stesso. O forse ne è arrivato uno, ma è morto dopo pochi mesi. Fatto sta che, quando nel 1853 Gangadhar Rao si è ritrovato gravemente ammalato, ha adottato come figlio un cuginetto di cinque anni, Damodar Rao.
Per sicurezza, prima di morire il 21 novembre di quello stesso anno, Gangadhar Rao ha fatto convalidare il suo testamento (in cui nomina Damodar Rao erede del trono di Jhansi e Manu reggente) dai funzionari inglesi presenti sul suo territorio, che gli hanno garantito il rispetto delle sue volontà.
Invece, con il marajah ancora caldo nel letto di morte, gli inglesi si rimangiano le promesse e il viceré James Broun-Ramsay, marchese di Dalhousie, dichiara che, in base al principio dell’estinzione, il territorio di Jhansi sarà annesso alle proprietà della Compagnia delle Indie.
Agli hindu il principio di estinzione proprio non va giù: ma come, il figlio adottivo va bene per gli Dei, che accettano i suoi sacrifici religiosi per risparmiare all’anima del defunto di finire nel Put (una specie di inferno), e non può andare bene per la legge degli inglesi?
Gli stessi inglesi presenti a Jhansi sono perplessi: la dinastia è filobritannica da sempre, la Rani è stata sempre nostra amica, è proprio il caso di creare tensioni in un’area in cui siamo tranquilli per una inutile prova di forza? Ne sono convinti al punto da sottoscrivere una petizione che accompagna i ricorsi della Rani contro la decisione di Dalhousie. Ma i ricorsi vengono respinti e la petizione non viene nemmeno inoltrata all’interessato. Né ottiene alcun risultato l’appello che la Rani propone addirittura alla regina Vittoria.
Gli inglesi residenti a Jhansi si adoperano per farle ottenere una cospicua pensione per Damodar Dao e i beni che il marito le aveva destinato tramite il testamento: ma l’amministrazione fa storie anche su questo e glieli sequestra finché non avrà saldato i debiti di Gangadhar Rao.
Spodestata la sua dinastia regnante, Jhansi va sempre peggio. Diventa difficile l’esazione delle tasse e i contributi pubblici finiscono. La guarnigione inglese viene drasticamente ridimensionata. Dalhousie se ne disinteressa totalmente e, anzi, più tardi dichiarerà di aver sempre detestato gli indiani. Ormai è malato e vuole solo tornare nella natia Scozia. Lascia l’India nel 1856 e nel 1860 muore nel suo palazzo di Midlothian: in punto di morte, quando già stanno per preparargli la veglia funebre, riemerge per qualche istante dal coma per chiedere il risultato della partita di cricket Eton-Harrow.
Al suo posto arriva Lord Canning, che se possibile detesta gli indiani ancora di più e, forse (Lady Canning smentisce in una conversazione con la regina Vittoria, ma in India lo dicono tutti), si è messo in testa di convertire tutto gli hindu e i musulmani al cristianesimo entro massimo tre anni.
È in questa situazione che matura la rivolta dei Sepoys.
Quando nel 1857 il vento della rivolta arriva a Jhansi, non ci sono più né Gangadhar Rao né la Rani a calmare gli animi. Il grosso della guarnigione è formato da soldati bengalesi che si ribellano e massacrano gli ufficiali inglesi presenti nella stazione principale, detta Star Fort, il 4 giugno. I pochi militari superstiti e i civili inglesi riparano in una stazione più piccola, City Fort.
A Star Fort, oltre che il tesoro di Jhansi, si trovano tutti i viveri. Prima che si scatenino carestie ed epidemie, gli inglesi riparati a City Fort si rivolgono alla Rani, che ha conservato un piccolo contingente di soldati per la sua protezione, affinché li aiuti.
La Rani risponde loro di abbandonare City Fort e di allontanarsi, facendosi garante della loro sicurezza. Secondo gli inglesi, è d’accordo con i ribelli per provocare un massacro. Secondo gli storici moderni, i ribelli non la tenevano nel minimo conto, ma lei non lo sapeva.
Dopo un attacco dei ribelli il 7 luglio, in cui gli inglesi riescono a difendere City Fort a costo di gravi perdite, il capitano Skene, che comanda i superstiti, tratta la resa. I ribelli li autorizzano ad andarsene, purché consegnino le armi: ma, quando gli inglesi sono disarmati, li attaccano e compiono una strage, incuranti del fatto che si tratta soprattutto di civili, in gran parte donne e bambini.
La scoperta che la Rani ha fornito mezzi e denaro ai ribelli, nonostante le voci per cui sarebbe stata costretta a farlo dalle loro minacce (le avrebbero dato un ultimatum, scaduto il quale avrebbero fatto saltare in aria il suo palazzo con tutti gli occupanti), fa indicare la Rani come mandante della strage.
C’è da aggiungere che ad accusare la Rani è soprattutto una donna inglese sfuggita alla strage, ma che le sue accuse non sono state mai provate.
Molti anni dopo, divenuto adulto, un bambino inglese scampato alla strage scriverà a Damodar Rao che secondo lui la Rani non c’entrava proprio niente. Esistono anche comunicazioni ufficiali della Rani in cui il fatto è duramente stigmatizzato.
Ma ciò che gli inglesi non le perdonano è di aver approfittato della situazione per riprendere in mano il governo di Jhansi. Anche se non ha alternative, visto che per la popolazione il figlio è l’erede legittimo e lei è l’unica autorità riconosciuta.
Anche se gli inglesi per il momento abbozzano, la Rani non si fida molto e, mentre riprende le attività di mecenatismo per cui andava famoso Gangadhar Rao, ne approfitta anche per addestrare il suo esercito e soprattutto per addestrare sé stessa: un testimone vissuto fino ad età molto avanzata ricorderà di averla vista condurre un cavallo tenendo le redini in bocca, con due spade nelle mani.
Nel 1858 la rivolta è agli sgoccioli e gli inglesi stanno trattando con mano molto pesante chiunque vi abbia partecipato. Man mano che cadono le roccaforti dei ribelli, la Rani continua a inviare messaggi agli inglesi, nei quali si dichiara loro fedele alleata e si proclama innocente dei fatti di City Fort. Gli inglesi fingono di darle ascolto, ma hanno già deciso che la loro vendetta si abbatterà anche su di lei. Né cambiano idea quando alcuni ribelli coinvolti nella strage di City Fort, prima di essere impiccati, confessano di aver fatto parte del gruppo che la costrinse a cedere con le minacce.
La Rani, dal canto suo, complica ulteriormente la sua posizione stipulando un’alleanza con Nana Sahib, un altro principe spodestato in base al principio di estinzione, che andava massacrando inglesi (specialmente civili) dappertutto, aizzato da un misterioso personaggio chiamato Tatya Tope. Probabilmente sia la Rani sia Nana Sahib sono preoccupati per le tante stragi di civili indiani che gli inglesi compiono a loro volta. I civili indiani uccisi in questo periodo sono in numero pari a oltre dieci volte quelli inglesi. Questo, nonostante la regina Vittoria abbia chiesto di non infierire con rappresaglie sui civili.
Lo storico George Otto Trevelyan farà un paragone tra la condotta degli inglesi contro i civili indiani e la ferocia con cui, nell’Odissea, dopo la strage dei Proci, Telemaco trucida le ancelle di Penelope: a cosa sono serviti tanti secoli trascorsi in mezzo, si domanda, se oggi noi cristiani facciamo le stesse cose di un pagano?
“Dal male, male fiorisce; da tirannia, germoglia tirannia”, canta in quello stesso periodo Tennyson nel suo poema su Boadicea.
Alla Rani arrivano sempre più segnali che le fanno comprendere come non ci sarà nessuna clemenza per lei.
Ai primi del 1858, un contingente inglese comandato dal generale Hugh Rose parte alla volta di Jhansi. La Rani richiama alle armi tutti gli uomini validi del suo regno, circa quattordicimila, che si uniranno agli ultimi Sepoys ribelli. L’assedio inglese di Jhansi comincia con un cannoneggiamento, il 20 marzo.
Tatya Tope cerca di portare aiuto alla regina assediata, ma gli inglesi lo sconfiggono pesantemente sul fiume Betwa. La difesa di Jhansi coinvolge anche le donne. La stessa Rani è in prima fila e capita perfino che un tiratore scelto abbia la possibilità di abbatterla: ma Rose glielo impedisce, perché la regina ribelle deve essere catturata, condannata e impiccata. Dal suo impegno in battaglia deriverà appunto il paragone con Jehanne d’Arc.
Il 3 aprile, gli inglesi sfondano le difese indiane. La Rani riesce però a scappare, insieme a un gruppo di fedelissimi, tra cui suo padre, Nana Sahib e Tatya Tope, non senza avere ferito un ufficiale inglese (il tenente Bowker) che l’ha riconosciuta e le si è avventato contro. L’inglese sopravvivrà e racconterà la sua storia.
Per quattro giorni, gli inglesi distruggono e bruciano tutto. A scatenare la loro furia è la scoperta, negli appartamenti della Rani, di ogni sorta di oggetti appartenuti ai civili inglesi trucidati l’anno prima a City Fort. Il numero dei soldati della Rani uccisi durante l’assedio è stato stimato in circa cinquemila: ma i civili uccisi dopo dovrebbero essere molti di più.
La Rani intanto si è rifugiata nella fortezza di Kalpi da Rao Sahib, nipote di Nana Sahib. Da qui, insieme a lui e ai suoi fedelissimi, ha marciato sulla fortezza di Gwalior occupata dagli inglesi e ha ottenuta una confortante vittoria. Poiché il marajah di Gwalior, fedelissimo agli inglesi, è fuggito, Rao Sahib viene incoronato al suo posto.
Per gli inglesi è veramente troppo. A giugno, attaccano in forze Gwalior, chiudendo ogni via d’uscita.
Secondo i frammentari resoconti, la Rani viene uccisa il giorno dopo la penetrazione degli inglesi a Gwalior, il 17 giugno. Le circostanze variano però a seconda delle testimonianze. Una prima versione afferma che venga ferita a baionettate, mentre le sue fedeli dame di compagnia Mandar e Kashi cadono uccise intorno a lei come le figlie di Boudicca. Secondo un’altra versione, a ferirla è un colpo di carabina. Forse non muore nemmeno sul campo, ma nelle retrovie, forse addirittura nel vicino monastero di Baba Gangadas. Lord Canning (che si ammala anche lui come Dalhousie e muore nel 1862) lascerà un taccuino segreto di appunti nel quale è riportato che la Rani fu circondata dagli ussari e che uno le uccise il cavallo, allora lei sparò verso l’uomo senza colpirlo, e l’ussaro la trapassò con la spada.
Hugh Rose avrebbe voluto vederla penzolare da una forca (si rifarà impiccandone il padre e, nel 1859, Tatya Tope) ma nei suoi resoconti ne parla come di una condottiera valorosissima.
Nana Sahib scappa in Nepal e se ne perdono le tracce, anche se alcune testimonianze affermano che viene sbranato da una tigre cui dava la caccia, il 24 settembre 1859.
Damodar Rao, che ha solo 9 anni alla morte della madre adottiva, è considerato del tutto innocente ed estraneo ai fatti. Viene mandato nella città di Indore, nel Madhya Pradesh, ed è educato in scuole inglesi. Riceve una pensione molto inferiore a quella che inizialmente gli è stata proposta, ma sufficiente a vivere dignitosamente tenendo anche alcuni servitori. Si fa conoscere come fotografo, si sposa due volte e ha un figlio. Muore nel 1906.

BIBLIOGRAFIA

Fonti: “Regine guerriere” di Antonia Fraser, 1988 (tr. it. Rizzoli, 1990)

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