Angela Orosz, la donna nata nel campo di sterminio di Auschwitz

Tempo di lettura: 8 minuti

Quando la piccola venne alla luce pesava circa 1 kg ed era già così malnutrita che non riusciva nemmeno a piangere. Forse proprio quello fu la sua salvezza, perché fino alla data della liberazione nessuno si accorse di lei....

“Ero così malnutrita che non riuscivo nemmeno a piangere. Questa è stata la mia salvezza”.
A parlare così è  Angela Orosz , una donna nata ad Auschwitz.
Ho letto tanto su quei giorni di dolore. Ma questa storia mi ha commossa nel profondo. Ho immaginato quella bambina disperatamente attaccata alla vita, ho immaginato quella madre coraggiosa, vivere nella paura di perdere la sua piccola.
Due creature fragili, sopravvissute a quel mare di sofferenza, porteranno sempre nel corpo e nell’anima le cicatrici fisiche e psicologiche di quell’orrore.
La storia di Angela è innanzitutto la storia della sua famiglia.


Suo padre era un architetto molto famoso nella capitale ungherese.
Sua madre era una donna molto colta di Budapest, proveniente da una famiglia agiata. Parlava 4 lingue. Una volta terminato il liceo, a causa delle leggi razziali, la donna non aveva potuto continuare gli studi.
I suoi genitori si conobbero nel 1943.
La loro vita trascorse felicemente fino all’anno successivo quando i nazisti invasero l’Ungheria. Era il giorno dopo Pasqua del 1944. La milizia locale ungherese andò a bussare alla loro porta. Furono costretti a lasciare la loro casa e a salire su un treno per il trasporto del bestiame che li portò al ghetto di Satoraljaujhely.
Vi rimasero per circa un mese, soffrendo la fame e vivendo nella sporcizia. Da lì furono trasferiti ad Auschwitz dove arrivarono il 25 maggio.
La mamma di Angela era incinta.
Il terrore non l’abbandonò mai per tutto il tempo che rimase nel campo.
Fu picchiata più volte. le SS usavano fruste, mitragliatrici, urlavano ordini, aizzavano feroci cani contro i prigionieri. Dalle torrette venivano puntati mitra e faretti contro coloro che scendevano dai treni.
Non appena quel carico di disperati arrivò ad Auschwitz, furono divisi in due gruppi dal dottor Mengele: da una parte le donne incinte, i bambini, i malati, gli anziani, in sostanza tutti coloro che non potevano lavorare. Dall’altra tutti quelli che potevano essere sottoposti ai lavori forzati.
Ai primi veniva detto di togliersi i vestiti per andare a farsi una doccia, ai secondi venivano consegnati degli abiti da lavoro. Per fortuna la madre di Angela fu ritenuta abile al lavoro, forse perché il suo stato ancora non era ancora visibile. Fu comunque separata dal marito.
Quella fu l’ultima volta che lo vide perché l’uomo non sopravvisse alla fatica dei lavori e morì di sfinimento.


La donna venne rasata, le fu fatto un tatuaggio, 6075, simbolo della sua disumanizzazione.
In un primo momento fu incaricata di coprire il turno di notte nel magazzino che conteneva gli oggetti personali delle vittime. Aveva il compito di separare gli oggetti di valore dagli altri. Poi fu assegnata  a lavori pesanti all’aperto, come la costruzione di strade e di ponti.
Dopo qualche tempo passò in servizio alle cucine.
Questo incarico le permise di rubare qualche buccia di patata in più, sostentamento che la aiutò a salvare la vita alla bambina che portava in grembo. Le razioni alimentari che venivano date ai prigionieri erano infatti insufficienti per poter portare avanti una gravidanza: in tutto il giorno ricevevano una tazza di caffè come colazione, una zuppa di erbe a pranzo e una fetta di pane per cena.
Sfiancata dal duro lavoro, la giovane donna fu costretta a confessare che era incinta. In base alle regole di Auschwitz questo avrebbe comportato l’immediato trasferimento nella camera a gas, anche perché fino a quel momento aveva mentito.
Invece fu mandata in una caserma del Campo C, dove fu incaricata di prendersi cura di alcuni bambini, in particolare dei gemelli che sono stati utilizzati negli esperimenti medico-scientifici da Mengele e da suoi colleghi.
Qualche tempo dopo divenne lei stessa oggetto di sperimentazione per provare la sterilizzazione in laboratorio.
Era già incinta di sette mesi: le furono somministrate delle sostanze chimiche tramite dolorosissime iniezioni.
Resistette e con lei la sua piccola.
All’ottavo mese una dottoressa ungherese, che lavorava in quella équipe, le suggerì che forse sarebbe stato meglio ricorrere all’ aborto. Le disse: “Quando si va a partorire non sappiamo quale possa essere la reazione di Mengele. Se lui è di buon umore, morirà solo il bambino, ma se è di cattivo umore si finisce direttamente nella camera a gas. Sei così giovane, solo così potresti salvarti la vita”.
La giovane non disse nulla, abbassò  lo sguardo e dopo qualche istante rispose che ci avrebbe pensato.
Quella notte sognò sua madre che le disse di non abortire e di confidare in Dio.
La mattina dopo andò dalla dottoressa e riferì chiaramente che avrebbe portato a termine la gravidanza.
Il quel giorno arrivò… presumibilmente era il 22 dicembre 1944.
La madre di Angela, il cui nome era Vera, fu aiutata dalla responsabile del campo durante il parto. Quando la piccola venne alla luce pesava circa 1 kg ed era già così malnutrita che non riusciva nemmeno a piangere.
Forse proprio quello fu la sua salvezza, perché fino alla data della liberazione nessuno si accorse di lei.
Le difficoltà per le due donne iniziarono immediatamente.
Tre ore dopo il parto Vera fu costretta a lasciare la piccola Angela da sola in un giaciglio di fortuna, pregando e sperando che non morisse di freddo e che non piangesse, per andare a rispondere all’appello nominale.
Vestita solo di qualche straccio, stremata dal parto, trovò dentro di sé una forza incredibile che la fece resistere fino alla fine e la fece tornare dalla sua piccola che dormiva tranquilla.
I giorni passarono lentamente, tra il freddo, la fame e la costante paura di trovare la piccola senza vita. Arrivò finalmente il 27 gennaio 1945, giorno in cui l’Armata Rossa liberò Auschwitz.


Proprio quel giorno nacque un altro bambino: sì chiamava Gyorgy Faludi.
Angela e Gyorgy furono i soli bambini sopravvissuti tra i nati in quel campo di concentramento. 
Dopo la liberazione Vera fece di tutto per salvare Angela.
Cercò a Budapest una cura che potesse salvarla e aiutarla a crescere.
La situazione della piccola era grave a tal punto che poco prima di compiere un anno pesava appena 3 kg e non si muoveva quasi per niente. I medici che la visitarono in quel periodo erano convinti che non aveva alcuna speranza di sopravvivere.
Ma la giovane mamma non si perse mai d’animo, era convinta che la sua bambina ce l’avrebbe fatta.
Finalmente riuscì a trovare un medico che le diede un po’ di speranza e che si prese cura della piccola Angela. Stette accanto a lei per molti anni, fino a che la piccola no riuscì a camminare.
Nel gennaio 2015 Angela è entrata per la prima volta ad Auschwitz.
Di quell’esperienza ha detto: “Temevo che ogni passo che facevo fosse sulla tomba di qualcuno. Settant’anni non rimuovono nulla. Niente può cancellare la disumanità e l’incubo di quanto stava accadendo lì ….. Come posso dimenticare? Molto tempo dopo la guerra, mia madre sembrava aver messo gli orrori di Auschwitz in fondo sua mente. Ha vissuto come una persona felice e amorevole, ma quando si vide morire di cancro all’età di 71 anni, a Toronto, gli incubi sono tornati. Vide Mengele in piedi davanti alla porta della sua stanza d’ospedale. Nemmeno una forte dose di morfina poteva farlo sparire”.
La madre di Angela morì il 28 gennaio. Non poteva morire 27 perché, disse, quello era l’anniversario della liberazione di Auschwitz.
E Angela?
Angela con grande coraggio ha testimoniato nei processi di alcuni ufficiali nazisti, portando la memoria di quell’esperienza che sua madre le aveva raccontato e mostrando quelle cicatrici che il tempo non potrà mai cancellare.

BIBLIOGRAFIA

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