Il beato Manfredo Settala: l’eremita che parlava al popolo

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Al tempo del Beato Manfredo gran carestia tormentò gli abitanti della valle. Solo i ricchi avevano appena da vivere, e solo i furbi e i prepotenti se la passavano bene. I poveri, le madri, i bambini erano stremati dalla fame e dalla miseria per le strade e nelle case....

Tra il XII e il XIII secolo, le terre di Valceresio e del Mendrisiotto hanno accolto una figura di grande misticismo e santità. Parliamo del Beato Manfredo Settala, a lungo eremita sul Monte San Giorgio sopra Riva San Vitale e morto il 27 gennaio 1217.
Nonostante la sua grande fama di santità, sono poche le notizie sulla sua vita. Non abbiamo notizie sulla data di nascita e nemmeno sui primi anni della sua vita, se non il fatto di appartenere a una facoltosa famiglia milanese, i Settala. Questa famiglia diede al mondo uomini illustri: l’arcivescovo di Milano Senatore, vissuto nel V secolo, canonizzato e celebrato dalla Chiesa ambrosiana il 28 maggio; Enrico, altro arcivescovo di Milano dal 1213 al 1230; Lanfranco, abate di Chiaravalle, morto nel 1355; Francesco, vescovo di Viterbo, morto nel 1492. E ancora Cosmo, Gabriele e Carlo, rispettivamente vescovi di Ravello, Avellino e Tortona, vissuti tra il XVI e il XVII secolo. E, per finire, un altro beato, Lanfranco, primo generale dell’ordine degli Eremiti di S. Agostino, morto nel 1271.
Manfredo però rinuncio alla posizione sociale di cui godeva con la sua famiglia per avviarsi al sacerdozio.
Fu parroco, forse il primo di Cuasso al Piano, parrocchia che allora comprendeva anche Cuasso al Monte, Brusimpiano, Porto Ceresio e Besano. Da curato di Cuasso al Piano, sicuramente celebrò nell’allora chiesa di San Cristoforo e Santa Cristina, ora San Giacomo. Tuttavia, temendo per la responsabilità del suo ufficio, scelse la vita eremitica e si ritirò sul Monte San Giorgio, in territorio ticinese.

Visse lassù molti anni pregando e macerando il suo corpo con il digiuno e la solitudine, al modo degli eremiti orientali I suoi antichi parrocchiani di Cuasso non lo dimenticarono e ogni tanto salivano sul monte a cercargli preghiere, consigli, miracoli anche. E il Santo, dice la bella leggenda, sfuggiva quelle visite, nascondendosi in una caverna aperta nel lato del monte verso Lugano. Ancora oggi è detta “la tana dal Beat”. La liturgia locale, risalente almeno al 1500, accettò questo fatto, cantandolo in un inno latino con queste parole:

Visitabatur saepius a multis circumstantibus
quod praevidendo fugiens suam intrabat cellulam.

(Spesso venivano in visita le persone dai luoghi circostanti, ma egli, prevedendolo, si rifugiava nella sua cella)

Però l’eremita del San Giorgio, secondo la tradizione popolare, ogni tanto scendeva al piano, verso Meride, Varese e i paesi del Lago di Lugano e Riva S. Vitale. Ed è da questi viaggi che nacquero le più belle leggende sul Beato. Raccontano le storie locali di un ladro detto “Mago di Cantone”, che aveva castello su una collina accanto alla strada che va da Riva San Vitale a Rancate. Tra le molte angherie compiute da questo losco personaggio, si racconta che da una casa patrizia di Meride rapì una bellissima fanciulla di nome Teodolinda nel giorno delle nozze, e la portò nella sua tana. Intimidazione o vendetta? Inutile e pericoloso per la famiglia tentare la liberazione o pensare alla vendetta. Il Beato si propose di entrare nella casa del Mago e di riportare in salvo la bella Teodolinda.
La narrazione tradizionale fa andare il Beato, pregando, a passi lenti e sicuri con un bastone in mano, verso la casa del brigante. E prima chiedendo e poi minacciando i castighi di Dio, spaventa così il ladrone che Teodolinda gli è subito consegnata. E il Beato Manfredo tenendola per mano, la riporta a casa e allo sposo. Esiste una sorta di documento che accenna a questa leggenda: un dipinto del 1600 del pittore Giorgioli, nella chiesa di San Silvestro a Meride, rappresenta San Giorgio che libera la vergine, figlia del re, dal mostro. E accanto all’eroico soldato è dipinto un santo vecchio, il Beato Manfredo, così idealmente associato a ricordare i Santi di Dio sempre vivi in ogni secolo e sempre pronti a buttarsi, per il popolo e il debole, contro la sempre rinascente prepotenza dei violenti. Le antiche leggende parlano, come di tanti altri santi eremiti, di guarigioni avvenute sul San Giorgio, di liberazione di ossessi, di consolazione improvvise, per la benedizione e la parola del Beato. Il pittore Pietro Chiesa in uno dei tre grandi quadri da lui dipinti in chiesa di Riva S. Vitale, rappresenta il Beato che prega, sul monte, e attorno a lui i malati guariscono, gli storpi riprendono l’uso delle gambe, i disperati tornano giù dal monte riconciliati con la vita e il dolore. Le due più belle leggende sul Beato vivente sono però quelle del pane e quella del campo di orzo.

Al tempo del Beato Manfredo gran carestia tormentò gli abitanti della valle. Solo i ricchi avevano appena da vivere, e solo i furbi e i prepotenti se la passavano bene. I poveri, le madri, i bambini erano stremati dalla fame e dalla miseria per le strade e nelle case. I pescatori, senza pane, non avevano più la forza di andare per il lago con la barca e le reti. Un giorno discese dal monte il Beato, arrivò nelle contrade cupe e silenziose di Riva. Davanti a un gruppo di case, incontrò un gruppo di madri disperate, che appena lo videro, gli tesero i bambini gementi, implorando dal Cielo e da Lui pane e pietà. Il Beato le guardò con fare paterno e, in ginocchio sulla via, si raccolse in preghiera e disse poi di infornare le pietre che indicava nel vicino forno, poi impartì la benedizione. Ripartì per il monte e, alcuni minuti dopo, le madri già levavano dal forno una grande quantità di pani fragrantissimi. In una vecchia carta del 1758, copia di un’altra molto più vecchia, e risalente almeno al 1500, è raccontato il miracolo del forno e del pane con queste parole: “Entro la casa vicina al forno, eravi l’effigie del Beato Manfredo che stava ginocchioni e dai nostri antenati abbiamo inteso, che in detto forno aveva moltiplicato i pani. Detta effigie attualmente è affatto caduta, attesa la vetustà dei muri.” Ma se non esiste più l’antico affresco, esiste ancora, da secoli, a Riva S. Vitale, una istituzione locale detta il Pane del Beato. Ogni anno il 26 gennaio, alla vigilia della festa del Beato Manfredo, davanti alla tomba del Settala, l’arciprete benedice un grosso mucchio di pani, che poi sono distribuiti ai presenti e a tutte le famiglie del borgo. Un tempo i patrizi si preoccupavano di consegnare il Pane del Beato anche all’eremita che viveva sul San Giorgio e ai frati Cappuccini di Mendrisio e Lugano ed ai padri Serviti di Mendrisio.

Altra bellissima leggenda è quella del campo di orzo, molto raccontata dai popolani e della quale è quasi ancora visibile e leggibile il documento. Ancora negli anni della grande fame, il Beato scese un giorno dal monte e si fermò a riposare a metà strada, nella frazione di Albio. Era giorno di caldura soffocante, che seguiva cento altri giorni infuocati. L’acqua era inaridita nelle fonti, i prati erano arsi, frumento, segale, granturco bruciati sui campi, troppo sole e poco pane. Lassù in Albio i contadini seminarono orzo un certo giorno, sperando che la pioggia del buon Dio sarebbe arrivata, ma sperarono invano. Il Beato sapeva della fame e della miseria, sapeva delle speranze deluse della povera buona gente, e mentre riposava guardava il campo vicino, verde e giallo, coi miseri steli che invano si sforzavano a reggersi, prossimi ormai a cadere avvinti dal sole. Se anche l’orzo se lo portava via la caldura, arrivava la fame nera per la povera gente del monte. Il Beato improvvisamente chiamò i contadini e ordinò loro di zappare il campo e di avere fede. Due giorni dopo al calar del sole, l’orzo era maturo. Ancora la vecchia carta del 1758, copia di un’altra del 1500, parla del miracolo di Albio con queste parole: “Attestano i sottoscritti, previo loro speciale giuramento, che nel podere chiamato Albio in territorio di Riva San Vitale, situato quasi a metà del Monte San Giorgio, su cui condusse vita beata il B. M. Settala, vi è un campo che chiamasi Campo del Beato, perché vuolsi — per tradizione avuta dai nostri maggiori — che ivi abbia intercesso una grazia da Dio, ai poveri coloni miserabili di quel possesso, facendo maturare l’orzo due o tre giorni dopo averlo zappato.”

Secondo una tradizione antichissima Manfredo Settala morì nel 1217. Infatti, da una ricognizione della sua tomba, che fino al 1387 era dietro l’altare, si trovò una grossa coperta di cuoio intarsiato, sulla quale era incisa la data 1217, che presumibilmente si riferiva all’anno di morte. Morì nella chiesa del monte San Giorgio. Anche la sua morte è avvolta nella leggenda. Si racconta che la mattina del 27 gennaio di quel 1217, le campane di Meride presero a suonare improvvisamente, senza ragione e senza campanaro, e nessuno le poté fermare. Subito pensarono che fosse morto il santo eremita. E mentre tutti corsero al monte, le campane scampanarono a gran concerto. Cessarono solo quando la gente arrivata sul monte, trovò il beato, morto, ancora in ginocchio, in preghiera. La notizia della morte del Beato Manfredo corse per tutte le terre vicine, continua la leggenda, e una grande folla arrivò sul monte. Ed ecco che qui entra in gioco un altro topos del patrimonio medievale sulle vite dei santi. Sul San Giorgio sembra fosse nata una grossa lite tra i pretendenti il corpo di Manfredo Settala. La gente di Cuasso al Piano invocava il diritto di seppellire il suo antico parroco nella sua terra; Meride voleva il corpo perché il S. Giorgio era su territorio di Meride e perché le campane loro avevano suonato la morte e ancora perché essi per primi lo avevano trovato morto; Riva S. Vitale e l’arciprete volevano il Beato, invocando diritti di giurisdizione. Era molto difficile risolvere questa delicata contesa, tanto più che il cadavere era fermo e pesante come una montagna. Allora si decise di condurre sul monte due buoi di un paese vicino, di aggiogarli a una slitta, su cui fosse posto saldamente il morto, e di far partire i buoi senza guida. Fermandosi, sarebbero stati i buoi a decidere la definitiva collocazione delle sante reliquie. Così fu fatto. Manfredo Settala, condotto dai buoi fece il suo ultimo viaggio di mortale. I giovenchi costeggiarono qualche centinaio di metri il crinale e poi intrapresero la discesa verso Riva San Vitale. In pieno gennaio, al passaggio della slitta, i noccioli, i biancospini, i cornioli fiorirono, gialli, bianchi e rosati, i castagni, i frassini, gli ontani, i ginepri pungenti si piegarono per rendere la strada larga e sicura. A Riva, i buoi andarono verso la chiesa plebana, ne infilarono decisi la stretta porta, che si spalancò, e si arrestarono placidi davanti all’altare. Un tale, sdegnato nel vedere i buoi entrare in chiesa come i cristiani e dall’entusiasmo irrefrenabile del popolo di Riva, borbottò a bassa voce con gli amici il suo malcontento e la sua disapprovazione. Quasi istantaneamente lo colpì una febbre violenta, che lo buttò a terra privo di forze. Ma più tardi capì lui pure la volontà di Dio, si pentì del suo peccato e, davanti alla tomba del Beato, fu liberato da ogni malanno. Dice il Martirologio sul Beato Manfredo:

Manfredi mortem pandunt agitata metalla
Dissidium tumuli composuere boves.

(Muovendosi le campane, annunciarono la morte di Manfredo e i buoi risolsero il dissidio della sepoltura)

Anche la mitologia orientale e germanica ricordano pure simili fatti attorno al corpo degli eroi e attorno all’origine di certi luoghi mitici. Nella Bibbia poi si racconta del destino dell’Arca dell’Alleanza, che Dio volle affidato al libero andare di due giovenche. Il patrimonio leggendario cristiano riferisce di famosi santuari e monasteri, che furono edificati in posti scelti dall’istinto dei buoi. La tomba del Beato Manfredo Settala, a causa della sua santa vita, delle leggende popolari, delle grazie che operava, delle ripetute e solenni approvazioni episcopali, diventò un centro di attrazione delle folle e delle anime. Ininterrottamente dal 1300 in avanti ci sono notizie di pellegrinaggi e di solenni feste. Particolarmente importante come meta di pellegrinaggio diventò la tomba del Beato Manfredo tra il 1400 e il 1700. In un documento del 1643 si attesta che la parrocchia di Cuasso al Piano si recava in pellegrinaggio, per tradizione già antica, nei luoghi ove visse e morì il suo antico parroco. Una volta andava al San Giorgio e una volta andava a Riva San Vitale, ogni anno. E in occasione del pellegrinaggio a Riva si davano ai pellegrini arrivando a Brusino Arsizio (Ticino) una libbra di castagne cotte e un mezzo di vino, e a Riva, dopo la Messa, una micca di pane (forse il pane del Beato). Il pellegrinaggio di Cuasso cessò solamente dopo la metà del 1700 per ordine di Giuseppe II. Tre volte all’anno, è detto nel 1673, la parrocchia di Meride, per antica tradizione, si recava in pellegrinaggio al San Giorgio “dove habitava il Beato Manfredi Settala”. Il pellegrinaggio si compie ancora adesso, ma solo una volta all’anno, e assieme alla gente di Meride ci vanno moltissimi dei paesi confinanti, il lunedì dopo la Pentecoste. Pure la parrocchia di Riva S. Vitale visita ogni anno il romitorio del suo Beato, nella seconda domenica di maggio. A intervalli di anni, si celebrano alla tomba del Beato, grandi pellegrinaggi e feste votive. In particolare, nel mese di agosto del 1810, le piogge continue minacciavano ogni raccolto e la stessa sicurezza di Riva e dei vicini paesi. Il lago straripava e le montagne buttavano giù acqua da tutte le valli e da tutti i sentieri. La folla, accorsa numerosa, pregò per tre giorni nella chiesa di Riva e le cronache locali dichiarano che subito la calamità cessò. Come in ogni altro luogo di pellegrinaggio, non mancano neppure a Riva le testimonianze di miracoli, di grazie ricevute. Purtroppo non rimane più nulla delle tavolette votive. A quanto sembra dovevano essere molte, varie e interessanti, e abbastanza antiche. Inoltre, nell’archivio parrocchiale di Riva si trova una sorta di Liber miraculorum, compilato dal prete Angelo Maria Bernasconi nel 1758, copiando un antico manoscritto risalente al 1500. In questo foglio sono descritti otto grazie o miracoli.

La continuità secolare di questi miracoli costituisce una specie di beatificazione popolare del Settala. Non è però mancato anche l’interessamento ufficiale della Chiesa. Nel lontano 28 aprile 1387 il vescovo di Como, Beltramo da Brossano, fece trasportare le spoglie del Beato dal sito della sepoltura originale in un’urna nuova di marmo, sopra il sepolcro vecchio e presso l’altare. Con tale gesto ufficiale, che era l’antica forma di beatificazione, egli approvava e ratificava, a nome della Chiesa, la santità del Beato ed il suo culto pubblico locale. Nel corso del XVI e XVII secolo i vescovi considerarono sempre, in atti pubblici, il Settala come santo, e come tale ordinarono che fosse onorato al modo della Chiesa cattolica. Tutti concordano nel magnificare l’elevatissima vita morale del Beato Manfredo, che visse più di cose ultrasensibili che di cose terrene, e tutti parlano delle meraviglie che continua a compiere dal suo sepolcro. Egli vi giace intero, mani, piedi e testa scoperti, e come mummificati. Tutto il resto del corpo coperto dalla veste talare nera, da stola, manipolo e pianeta di damasco bianco tessuto in argento. Sul capo porta il tricorno e sul dito mignolo sinistro un anello d’oro con brillanti. È vero, come si usa dire ai tempi moderni, che la sua vita è leggendaria in gran parte. Ma è altrettanto vero che la leggenda è più viva, più vera, più grande che non la storia critica.

BIBLIOGRAFIA

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