Nella memoria collettiva dei nativi americani, la parola epidemia è ben conosciuta, tristemente associata all’uomo bianco e al genocidio culturale perpetrato nei secoli. Già dal XV secolo, i primi europei sbarcati nel nuovo mondo portarono infatti inconsciamente numerose e terribili malattie, spesso veicolate dai loro animali, contro cui le popolazioni del luogo erano del tutto inermi e prive di qualsiasi difesa immunitaria. La prima epidemia d’influenza suina, diffusa già nel 1493 a Santo Domingo con lo sbarco di Cristoforo Colombo, ridusse drasticamente la popolazione autoctona da oltre un milione di persone a meno di diecimila. Secondo una stima, tra l’80% ed il 95% degli indigeni delle Americhe (circa un decimo della popolazione mondiale che allora era di circa 500 milioni di persone) perì tra il 1492 ed il 1550 per effetto dei virus letali portati dai bianchi. Patologie incurabili come l’influenza, la varicella, il morbillo, ma soprattutto il vaiolo.

Fu infatti il vaiolo, diffuso nel 1518 a Hispaniola e propagatosi dapprima in Messico e in Guatemala fino a raggiungere il Perù, a favorire la destabilizzazione dell’Impero Inca ed il successivo massacro della popolazione ad opera di Francisco Pizarro. Il virus patogeno venne, pertanto, ben presto sfruttato consapevolmente nella conquista del nuovo mondo, arrivando anche al suo utilizzo come vera e propria arma biologica. La piena coscienza dell’effetto devastante della malattia del vaiolo sulle popolazioni native lo ebbero gli ufficiali anglosassoni nelle guerre indiane del ‘700 in nord America. La forma più grave del virus, infatti, detto “variola major”, ha la caratteristica di trasmettersi non solo per inalazione (9 – 14 giorni) ma anche per contaminazione (diversi anni allo stato secco). Conseguentemente la consegna nei villaggi indiani di indumenti e coperte infette da parte dell’esercito, si rivelò un’arma micidiale, in grado di sterminare intere tribù senza rischi per gli aggressori.
Le prove di tale subdola tattica bellica risalgono già alla cosiddetta guerra franco indiana (1754-1763) e sono state attribuite per la prima volta a Lord Jeffrey Amherst, comandante delle forze britanniche. Documenti forniti da “La cospirazione di Pontiac” di Francis Parkman (1870) e citati da Carl Waldman nell’Atlas of the North American Indian, in merito all’assedio di Fort Pitt da parte degli indiani Delaware nell’estate del 1763, testimoniano passaggi inequivocabili quali: “Il capitano Simeon Ecuyer aveva guadagnato tempo inviando coperte e fazzoletti infettati dal vaiolo agli indiani che circondavano il forte”. Lo stesso Amherst incoraggiò questa tattica in una specifica lettera al sottoposto capitano Ecuyer. La conferma di episodi analoghi ci giunge anche da Andrew J. Blackbird nel suo “Storia degli indiani Ottawa e Chippewa del Michigan” (1887). Diversi eventi e documenti storici suggeriscono che l’uso del vaiolo come arma potrebbe essere stato ampiamente apprezzato e impiegato dai comandanti militari europei, anche in diverse occasioni successive.

Come sottolineano E. Wagner & Allen E. Stearn in The Effect of Smallpox on the Destiny of the Amerindian (Boston 1945) le epidemie nel continente americano – siano esse spontanee o indotte – hanno decimato la popolazione nativa per quattro secoli, contribuendo altresì a fiaccarla nello spirito e nell’identità fino a generare un vero e proprio collasso sociale che ne ha reso più agevole la sottomissione. A sostegno di tale ipotesi, un accurato studio avviato nel 1991 dall’Università dell’Alaska ha evidenziato come la cultura dei nativi Yup’ik è stata letteralmente annientata dalle malattie dei bianchi, che nei secoli passati hanno gettato nella disperazione intere comunità tribali lasciando traumi persistenti nelle generazioni sopravvissute. La gente nativa si è improvvisamente svegliata in un mondo azzerato, privata non solo degli affetti più cari ma anche delle certezze di un tempo. Il sistema sociale in cui avevano sempre creduto, le loro medicine, i loro sciamani, tutto si era rivelato inutile di fronte alla morte invisibile. I guardiani di Yuuyaraq, gli Angalkuq, se ancora vivi erano irrimediabilmente caduti in disgrazia, colpevoli di fronte alla tribù di aver fallito nel loro ruolo di guide mediche e spirituali, ma anche accusati apertamente dai missionari cristiani di essere agenti del diavolo e di aver condotto il loro popolo al disastro. Secondo l’indagine universitaria non è un caso se gli odierni Yup’ik tendono spesso a rimuovere e rinnegare l’antica cultura, omettendo di trasmetterla ai loro figli. È come se si vergognassero ancora oggi del fallimento dei loro padri, colpevoli di aver rinunciato – impotenti di fronte alle devastanti malattie – perfino al potere di governo dei villaggi, consegnando un’intera cultura a missionari e insegnanti europei.

Al giorno d’oggi il problema è da ritenersi tutt’altro che superato. Secondo l’Ufficio per il Censimento degli Stati Uniti (US Census Bureau) l’attuale popolazione dei nativi americani è pari a circa 5,2 milioni di persone suddivise in 537 tribù. Oltre la metà di loro vive nelle riserve dell’Ovest e del Midwest, per la maggior parte in piccole case sovraffollate che spesso sono sprovviste di elettricità e acqua corrente. Molte comunità tribali sono stanziate in luoghi remoti e ancora oggi difficilmente accessibili, dove non arriva internet e dove l’accesso alle cure sanitarie è nettamente inferiore rispetto agli standard americani. Oltre un quarto degli over 65 non possiede un’assicurazione sanitaria.
Le condizioni di vita, spesso, risentono fortemente di una diffusa emarginazione che si riflette in tassi di suicidio altissimi, violenza contro le donne e abuso di alcol e droghe. Tutto ciò, unito alla cattiva alimentazione dovuta a povertà e scarsa informazione, espone tali popolazioni al diffondersi di patologie come l’asma, malattie cardiache, ipertensione ecc. Secondo il Washington Post gli indiani d’America hanno oggi una probabilità 600 volte maggiore di morire di tubercolosi e quasi 200 volte di ammalarsi e morire di diabete rispetto ad altri gruppi etnici. Ecco spiegato come l’impatto della pandemia da coronavirus abbia prodotto nelle riserve indiane effetti devastanti, paragonabili alle grandi epidemie del passato. Anche sul piano economico le conseguenze risultano peggiori che altrove, anche a causa del sistema bloccato dei gruppi tribali che, dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso, hanno basato la propria economia esclusivamente sulla gestione di parchi naturali, case di gioco d’azzardo (bingo e casinò), lavori di artigianato, alberghi e motel turistici: tutte attività messe in ginocchio dai lockdown imposti in questi ultimi due anni.

In tale contesto, l’agenzia sanitaria federale, che serve oltre 2,5 milioni di nativi americani, dispone di una limitata capacità di monitorare e indagare i casi di coronavirus nelle riserve, poiché il servizio sanitario indiano si affida in gran parte alle organizzazioni native che, per mancanza di fondi, hanno ridotte capacità di effettuare test diagnostici e tamponi, con tecnologie sanitarie obsolete e carenza di medicinali. Solo il 17% delle strutture sanitarie indiane sono infatti gestite dall’Indian Health Services (IHS che ha l’obbligo di segnalare i casi di covid 19) mentre la restante parte è affidata a tribù o organizzazioni native urbane, cui spetta l’onere di auto-denunciare le persone contagiate al governo federale. Questa confusione di competenze, aggiunta ad un sistema di catalogazione dei pazienti fermo agli anni 80 del ‘900, ha inizialmente, in più casi, sottostimato la diffusione del virus all’interno delle comunità, senza possibilità di monitorare lo sviluppo di focolai. La situazione è risultata tanto più grave quanto più piccola e sperduta è ovviamente la tribù. Se infatti è apparsa subito chiara la gravità dei contagi nelle riserve più popolose, come quelle delle nazioni Navajo e Cherokee – che essendo ben rappresentate sono riuscite almeno a fornire ai governi locali dati più o meno attendibili circa il grado di diffusione del virus – così non è avvenuto per le comunità più piccole, isolate e non sempre censite a livello federale. Questo perché solo se la riserva è stata riconosciuta dal Governo di Washington, essa può avere accesso ai fondi pubblici federali, anche in materia sanitaria, mentre per le altre, note solamente ai singoli Stati, spesso non viene elargita alcuna sovvenzione, neanche da parte del governo locale. In questa drammatica situazione con l’inizio della pandemia nei primi mesi del 2020, molte riserve dell’ovest hanno improvvisato blocchi stradali per vietare l’accesso ai villaggi; persino la città di Gallup nel New Mexico è rimasta isolata per alcuni giorni mediante check-point di volontari. Nelle grandi pianure si sono fermate le cerimonie sacre come la “danza del sole”, un rito di purificazione collettiva che richiede appunto assembramenti di persone. I rappresentanti delle tribù hanno provato a lanciare al Paese e al mondo intero la loro richiesta di aiuto, muovendo episodi di solidarietà che, superando le carenze legislative, ha avuto riscontro anche fuori dai confini americani: nel mese di aprile 2020 ottocento veterani della tribù Navajo dell’Arizona, “code-talkers” della guerra in Corea (1950-53) hanno ricevuto dalla Corea del Sud diecimila mascherine da distribuire alla comunità. Oltre duemila famiglie irlandesi, in ricordo dell’aiuto ricevuto dalle tribù indiane nel 1847 durante la carestia delle patate, hanno raccolto e inviato a Navajo e Hopi 670.000 dollari.

Se è vero che il covid-19 nei primi mesi di pandemia ha amplificato le disuguaglianze sanitarie tra i nativi (probabilità 3.5 volte maggiore di ricovero e più del doppio della mortalità) è anche vero che l’arrivo dei vaccini, la cui diffusione è stata notevolmente agevolata dall’amministrazione Biden, è stato accolto dalle comunità indiane molto positivamente. Secondo i centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie, gli indiani americani e i nativi dell’Alaska hanno il tasso di vaccinazione più alto del Paese: il 60% di loro ha ricevuto almeno una dose, rispetto a poco più del 40% dei bianchi. Allison Barlow, direttrice del Johns Hopkins Center for American Indian Health afferma “… molte tribù hanno raggiunto negli ultimi mesi del 2021 tassi di copertura del vaccino eccezionali nonostante i problemi cronici di accesso all’assistenza sanitaria e altre sfide socioeconomiche persistenti, che rendono il covid-19 una minaccia continua …”. Inoltre le tribù, dando prova ancora una volta di forza e resilienza, hanno risposto con nuove iniziative per diffondere le notizie, rimanere in contatto tra loro e sostenersi a vicenda, istituendo numerosi punti di ascolto, consiglio e aiuto, sia psicologico che materiale, attivi tra i giovani anche sui social.

La pandemia resta tuttora in corso e, secondo diversi studiosi, travalica ormai i pur gravi aspetti sanitari, assumendo connotazioni di natura politica, sociale e culturale, soprattutto tra i più giovani ed i più anziani. L’istruzione dei bambini nativi a livello nazionale, già carente, è stata infatti ulteriormente danneggiata. Anche il patrimonio delle tradizioni orali delle nazioni indiane versa ora più che mai in serio pericolo poiché la malattia ha colpito soprattutto gli anziani, ultimi custodi della memoria delle antiche usanze che, da generazioni, vengono tramandate ai più giovani. Restano pochi, sempre meno, coloro che parlano fluentemente le lingue native, coloro che conoscono l’etimologia delle parole e il loro corretto utilizzo nelle cerimonie sacre. Per ogni anziano che muore, un pezzo di identità indiana rischia di perdersi irrimediabilmente.