Il potlatch, l’antica cerimonia dei doni degli indiani americani

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Il periodo natalizio nella cultura occidentale, oltre al significato religioso cristiano intrinseco, ha assunto nel tempo una valenza sempre più laica e folcloristica connessa con le esigenze consumistiche tipiche della società capitalista in cui viviamo, affiancando in questo contesto anche una forte tradizione di aggregazione familiare

Abstract

Il periodo natalizio nella cultura occidentale, oltre al significato religioso cristiano intrinseco, ha assunto nel tempo una valenza sempre più laica e folcloristica connessa con le esigenze consumistiche tipiche della società capitalista in cui viviamo, affiancando in questo contesto anche una forte tradizione di aggregazione familiare: una sorta di appuntamento annuale nel quale le diverse componenti parentali sono solite riunirsi attorno al focolare domestico, per il classico scambio di doni e buone intenzioni. Per la verità l’idea di ricevere e offrire regali natalizi non è un’invenzione della società moderna ma piuttosto un radicato retaggio che sopravvive sin dai tempi antichi, andandosi ad innestare sulle radici pagane del Natale cristiano, riconducibili in particolare alla festività dei “saturnalia”. Diffusa nell’antica Roma in corrispondenza del solstizio invernale e molto sentita da ogni ceto sociale dell’impero, la ricorrenza in onore del dio Saturno durava alcuni giorni ed era dedicata alla rinascita della Terra, con giochi, rappresentazioni e banchetti, sia pubblici che privati. In queste feste era usuale il reciproco scambio di auguri e di doni, come piccole figurine e tavolette di cera o argilla (sigilla), stuzzicadenti, frutta secca, fino a preziosi gioielli.

Ma lo scambio di doni non è appannaggio del solo occidente antico, essendo presente in forme cerimoniali molto interessanti e significative anche presso alcune culture amerindiane, come quella conosciuta con il nome di potlatch.

Danza sacra in una cerimonia potlatch (“ Walas’axa”. Un dipinto di Wilhelm Kuhnert ,1894)

Il potlatch tra i nativi del nord ovest

Il territorio lussureggiante della costa nord occidentale del continente americano, che va dall’attuale California settentrionale fino all’Alaska, ha favorito lo sviluppo di una grande quantità di culture indigene, appartenenti a diverse famiglie linguistiche e organizzate in molteplici forme sociali: dai Salish ai Wakash, dai Wiyot ai Tlingit, dai Kwakiutl ai Chinook, solo per citarne alcune. Grazie all’ambiente naturale favorevole, all’abbondanza di caccia e pesca, alla diffusa varietà di radici, piante e frutti, nonché alla capacità di conservazione ed immagazzinamento dei prodotti, i popoli di questa regione americana furono in grado di costituire comunità stanziali in villaggi permanenti, con densità relativamente significative e conseguente complessità dei sistemi di stratificazione sociale. La notevole capacità di valorizzazione del commercio, unita all’abilità di solcare l’oceano e di spostarsi lungo la costa, agevolarono inoltre la diffusione di usanze e credenze similari tra le varie tribù, per le quali è possibile definire l’area del nord ovest con un certo grado di omogeneità. Tali condizioni resero possibile anche uno sviluppo comune di riti elaborati e diversificati, con l’impiego di costumi e maschere cerimoniali, molto spesso legate alla vita sociale ed alla distinzione in gerarchie all’interno delle comunità. Il rango e la posizione sociale, per queste popolazioni native, erano strettamente connessi con il potere che permea tutto l’universo. Esso deriva essenzialmente dal mondo degli spiriti, i quali, manifestandosi materialmente sotto forma di animali, sacrificano così la propria essenza eterea a beneficio degli umani. Ecco perché le cerimonie sacre erano spesso contraddistinte da questo rapporto simbiotico tra uomo e animale, entrambi connessi da una complessa rete terrena di reincarnazioni reciproche. La caccia e la pesca assumevano una forte dimensione sacrale: l’uomo si cibava della carne dell’animale liberando lo spirito che era in lui, così da dargli l’opportunità di reincarnarsi nuovamente nell’infinito ciclo della vita. In questa estesa forma di spiritualità della natura, per l’indiano del nord ovest il cibo era quindi sacro ed i pasti collettivi, anche programmati tra tribù normalmente distanti tra loro, rappresentavano una magnifica occasione per celebrare questi riti spirituali nei quali ritrovare parenti lontani, fare nuove conoscenze, rinsaldare vecchie amicizie e antiche alleanze. Soprattutto durante la stagione invernale l’intera società indiana entrava nella parte dell’anno connessa con la morte e la rinascita e, quindi, esclusivamente dedicata alle attività sacre. Spesso queste celebrazioni si concludevano con un potlatch, ossia con una distribuzione di beni ed oggetti preziosi agli invitati, rispettando un rigido ordine gerarchico.

Gruppo Tlingit in costumi da ballo, Hoonah, Alaska, circa 1909

Il potlatch – parola derivante dal dialetto Chinook che significa “regalo” – si teneva in occasione di eventi importanti, come nascite, morti, adozioni o matrimoni, in modo da raggruppare quante più persone possibile attorno ad importanti riti di passaggio. La scelta della stagione invernale, oltre al già citato tema rituale della “rinascita”, era dovuta anche al fatto che i mesi estivi, essendo caratterizzati dall’abbondanza dei prodotti della natura, erano dedicati a procurare ricchezza per la famiglia e per il villaggio. L’accumulo dei beni e degli oggetti nel corso dell’anno, mobilitava una complessa rete di connessioni, che comprendeva doni, prestiti, restituzioni e transazioni di vario tipo. Con l’arrivo della stagione invernale il leader della tribù, al fine di affermare la propria ricchezza ed il proprio potere, preannunciava a tutte le comunità confinanti la data ed il luogo in cui si sarebbe tenuto il particolare rito, nel quale egli avrebbe  donato ai partecipanti tutti gli oggetti di valore accumulati nei mesi precedenti, distruggendo pubblicamente quelli in eccesso, in modo tale da tornare, di fatto, in uno stato di semi povertà. Il tutto si svolgeva, grazie all’intercessione degli sciamani, mediante una profonda connessione con l’al di là: il capo tribù rivendicava la propria forza morale di leader presentandosi agli spiriti degli antenati, alla famiglia ed ai clan presenti, con una ferrea volontà di rinascere a nuova vita, purificato da pericolosi meccanismi di egoismo ed avidità e pronto a guidare con saggezza la collettività affidatagli dagli dei. Non a caso alcuni popoli, come i Kwakiutl, chiamavano la cerimonia “makwa” ossia “fare una grande cosa”. Il potlatch si svolgeva spesso in un’atmosfera di festa, musica, danza, canto, con l’organizzazione di scherzi e giochi. Presso la grande casa in legno allestita per l’evento si predisponevano gigantesche figure di benvenuto, scolpite in pali di cedro, normalmente posizionate nelle aree di accesso dei visitatori, come le rive di fiumi, dei laghi e dell’oceano, da dove i padroni di casa accoglievano le canoe degli ospiti con canti propiziatori.

Pali e case totemici della tribù Gitxsan, museo di Ksan in Columbia Britannica

Le famiglie indossavano insegne e monili che contrassegnavano la loro posizione ed il rango all’interno del clan: copricapi, coperte, grembiuli per le danze. Si accantonavano in bella vista lungo il tragitto i doni: grandi quantità di cibo, panchine intagliate, placche di rame a forma di scudo, maschere cerimoniali raffiguranti gli spiriti guida, pali totemici finemente decorati. La narrazione era un elemento fondamentale e, presso alcune popolazioni, assumeva talvolta connotati politici, per cui gli esponenti più rappresentativi delle tribù partecipanti si dilungavano in discorsi, nei quali si discuteva, si negoziava e si stipulavano veri e propri accordi commerciali (titoli) in grado di garantire il diritto di caccia, pesca e raccolta di bacche nelle varie aree costiere. Questi titoli, di anno in anno venivano trasferiti da un clan all’altro, perché tutti potessero godere in egual misura delle molte risorse delle diverse zone costiere. Una volta conclusi e accettati gli accordi, l’organizzatore del potlatch consegnava i titoli e distribuiva agli astanti il cibo conservato in stuoie e contenuto in cesti di stoccaggio, insieme a coperte ricavate da pelli di animali e oggetti ornamentali di rame lavorato.  La cerimonia veniva indetta anche quando si verificava l’esigenza di riparare un’umiliazione, un incidente  o qualche altro evento spiacevole per il quale la reputazione di un membro del clan era stata temporaneamente offuscata. In alcune feste poteva accadere che l’ospite sfidasse l’organizzatore del potlatch, donando e distruggendo nei falò, a sua volta, grandi quantità di ricchezza, per dimostrare la superiorità del proprio clan. Tale pratica non era causa di dissapori tra le diverse famiglie, ma anzi rappresentava una sana competizione ed un efficace stimolo affinché ci si potesse impegnare a fondo nel dimostrare pubblicamente la propria generosità, senza risparmio di energie e tanto da non temere rivali.  I significati del potlatch erano quindi molteplici, dal riequilibrio economico della società indiana di riferimento, al potere di riunire i conflitti interpersonali accaduti durante l’anno, fino alle occasioni di discussione politica e diplomatica tra i clan. Nonostante la presenza di rigide gerarchie, la cerimonia del potlatch evitava che un clan potesse prevalere sugli altri accaparrandosi in maniera smisurata le risorse disponibili, pena la perdita di potere e prestigio di fronte alla comunità. Sostanzialmente nessuna ricchezza duratura poteva essere alla base di una posizione di supremazia e, contestualmente, ogni componente del villaggio poteva contare su una certa tranquillità economica, indipendentemente dal proprio ruolo sociale.

Blunden Harbour, tiene i suoi doni in rame durante un potlatch (Foto Wilson Duff del 1955, museo reale Columbia Bitannica)

Il contatto con l’uomo bianco

Gli europei che occuparono queste vaste aree del nord America, non capirono mai il grado evolutivo delle società indiane che abitavano il nord ovest ed il sub artico. Per gli esploratori, infatti, gli immensi spazi a disposizione giustificavano l’idea che il territorio fosse in gran parte disabitato e che la mancanza di una società accentrata e strutturata in maniera simile a quella del vecchio continente, dimostrasse senza dubbio alcuno lo stato selvaggio e primitivo dei popoli nativi. Con la storica colonizzazione dell’odierno Canada, si instaurò quindi nelle comunità di pionieri bianchi una marcata diffidenza e ostilità verso tutti i riti pagani praticati dalle tribù, ritenuti un serio ostacolo alla civilizzazione del Paese ed alla sua completa cristianizzazione. In particolare la cerimonia del potlatch fu vista subito dai missionari e dagli agenti governativi come un’usanza pessima, dispendiosa, improduttiva e contraria ai “valori civili” di accumulo di beni e ricchezza privata, tipica dei popoli europei. La sua eliminazione diventò ben presto un obiettivo chiave per le politiche di assimilazione. Il missionario anglicano William Duncan, fondatore nel 1862 della comunità cristiana utopica Metlakatla, che riuniva centinaia di famiglie indiane appartenenti ad alcune tribù Tsimshian, nell’attuale Columbia Britannica, scriveva al riguardo: << il potlatch è di gran lunga il più formidabile di tutti gli ostacoli alla cristianizzazione e alla civilizzazione degli indiani>>.
Nel 1884 lo Stato del Canada, con un emendamento all’Indian Act (legge di regolamentazione delle popolazioni native) vietò la cerimonia, criminalizzandola con pene detentive. L’articolo 3 della legge recitava:<< … Ogni indiano o altra persona che partecipa attivamente o assiste alla celebrazione della festa indiana nota come potlatch … è colpevole di un reato e sarà passibile di reclusione per un periodo non superiore a sei o inferiore a due mesi in qualsiasi prigione o altro luogo di reclusione; inoltre qualsiasi indiano o altra persona che incoraggi, direttamente o indirettamente, un indiano o un non indiano a partecipare a tale festa o danza, a celebrarla o anche solo ad assistere alla celebrazione della stessa è colpevole di un reato simile, e sarà passibile della stessa punizione …>>.
Tale imposizione non venne però presa seriamente dalle nazioni indiane, che continuarono a praticarla in clandestinità, anche grazie alla notevole difficoltà per le autorità europee di individuare la celebrazione del rito e di far conseguentemente rispettare il divieto. Nel 1888 l’antropologo Franz Boas, scriveva: <<… ragione del malcontento tra gli indiani è una legge che è stata approvata, qualche tempo fa, vietando le celebrazioni delle feste. Il cosiddetto potlatch di tutte queste tribù impedisce alle singole famiglie di accumulare ricchezza. È il grande desiderio di ogni capo e anche di ogni uomo di raccogliere una grande quantità di proprietà, e poi di dare un grande potlatch, una festa in cui tutto è distribuito tra i suoi amici e, se possibile, tra le tribù vicine. Queste feste sono così strettamente connesse con le idee religiose dei nativi e regolano il loro modo di vivere a tal punto che le tribù cristianizzate vicino a Victoria non hanno rinunciato a praticarle. Ogni regalo ricevuto a un potlatch deve essere restituito nel corso di un altro potlatch e un uomo che non organizza la sua festa a tempo debito viene considerato al pari di uno che non paga i propri debiti. Pertanto la legge dello Stato non è buona e non può essere applicata senza causare malcontento generale. Inoltre, il governo non è in grado di farla rispettare. Gli insediamenti sono così numerosi, e le agenzie indiane così grandi, che non c’è nessuno che impedisca agli indiani di fare tutto ciò che vogliono.>>
Anche gli agenti governativi ritenevano tale legge inutile e dannosa,  convinti invece che l’importanza dei potlatch sarebbe diminuita fisiologicamente con l’avvento delle giovani generazioni indiane, istruite nella civiltà dei bianchi e quindi più “progredite”. Tuttavia, solamente nel 1951 l’emendamento alla Indian Act venne definitivamente abrogato.

Il capo artista e narratore Hilamas della tribù Kwakiutl a Piatto di cedro rosso, usato nel 1910 per servire il cibo agli ospiti del potlatch. (H.R. MacMillan Funds) Museo di antropologia, Università della British Columbia.

L’antropologo Sergei Kan, tra il 1980 ed il 1987, ha partecipato a diversi potlatch degli indiani Tlingit, osservando  somiglianze e differenze tra le cerimonie originali e quelle contemporanee. In particolare lo studioso, pur rilevando che il rito odierno non è più obbligatorio e, per tale motivo, viene praticato solamente dal 30% circa dei membri tribali adulti, ha affermato che lo stesso conserva ancora lo spirito originario, assumendo per molti versi aspetti sociali fondamentali, resi maggiormente aderenti alle esigenze del nostro tempo anche per far fronte allo stato di povertà ed indigenza in cui versano diversi membri delle tribù delle riserve. Laddove ancora oggi, soprattutto nei confronti delle “prime nazioni”, tardano ad essere attuate le politiche governative di assistenza alle persone più bisognose, i responsabili delle comunità, i capi famiglia oppure singole persone, in occasione di particolari eventi lieti o commemorativi,  organizzano cerimonie dedicate alla distribuzione di beni primari e oggetti artigianali, magari frutto di offerte e donazioni, nell’antico spirito di condivisione del potlatch.

Conclusioni 

Nel mondo in cui viviamo concetti come potere, prestigio e ricchezza sono spesso considerati  strettamente legati tra loro, talvolta in maniera indissolubile. I meccanismi sociali ritenuti in grado di consegnare all’individuo una condizione di privilegio e supremazia – per molte persone difficilmente raggiungibili – sono sempre più connessi con la crescita economica individuale e vengono spesso presentati come un traguardo di felicità cui l’uomo moderno deve anelare. All’interno di questo complicato e frenetico ingranaggio consumistico,  che pare inarrestabile, la tradizione occidentale del natale cristiano fatica a mantenere vivo il messaggio religioso originario di umiltà e condivisione. L’invito natalizio resta per tutti quello di effettuare una breve ma lieta pausa, in una sorta di doppio binario nel quale siamo chiamati ad esprimere, per noi e per le nostre famiglie, qualche riflessione di ordine etico, morale e spirituale, senza tuttavia rinunciare alla festa laica. Come nell’antica Roma ci concediamo spesso festeggiamenti, svaghi, elargendo doni a parenti ed amici nella speranza di riceverne altrettanti. Pochi giorni a cavallo del solstizio invernale in cui ci sforziamo di essere più sereni e buoni, per poi tuffarci nuovamente nel vortice dell’economia globale, che tende a considerare ineluttabili le profonde disuguaglianze che affliggono il pianeta. Per gli indiani americani il concetto di ricchezza e di benessere assumeva un significato meno assoluto, non un traguardo personale da raggiungere e mantenere il più a lungo possibile, bensì un mezzo temporaneo e collettivo, utile per organizzare al meglio la società secondo i ritmi spirituali della natura, con i quali le comunità native erano strettamente connesse. Secondo lo scrittore francese Georges Bataille, inoltre, il carattere agonistico della cerimonia indiana del potlatch, obbligando moralmente il ricevente ad una possibile reciprocità, riusciva a mantenere sane abitudini competitive, accettando anche una struttura suddivisa in classi sociali e gerarchie amministrative, in grado però di conciliare il mantenimento del potere con la possibilità di ridistribuire le risorse disponibili, eliminando  le differenze estreme che, invece, affliggono buona parte della popolazione mondiale al giorno d’oggi. Molti studiosi definiscono tale modello, comune a diverse popolazioni indigene (Maori, Papua Nuova Guinea) con il nome di “economia del dono”, una sorta di organizzazione sociale alternativa, nella quale il denaro non era contemplato, da contrapporre alla “economia di mercato” che il mondo moderno ha sviluppato. Tale modello, benché arcaico, è tuttora oggetto di dibattito fondamentale in antropologia e da molti viene ritenuto un esempio da non respingere a priori, uno spunto da rielaborare in chiave moderna e su cui riflettere alla luce dei sempre maggiori rischi derivanti da uno sfruttamento incontrollato ed illimitato delle risorse naturali del pianeta, in un’ottica di maggiore sostenibilità ambientale e per garantire un futuro di maggiore equità per l’umanità.

BIBLIOGRAFIA

  • Comba, Enrico – 2003 – Riti e misteri degli indiani d’America, Utet, Torino;
  • Jacquin, Philippe – 1977 – Storia degli indiani d’America, Mondadori, Milano;
  • Boas, Franz – 2014 – Introduzione alle lingue degli indiani d’America, Ghibli, Milano; 
  • Boas, Franz – Bateson, Gregory – 2015 – La funzione sociale della danza : una lettura antropologica, Ghibli, Milano;
  • Boas, Franz – 1995 – L’uomo primitivo , Laterza, Roma;
  • Mauss, Marcel – 2002 – Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, Einaudi, Torino;
  • Romano, Onofrio – 2019 – Georges Bataille : depensare la crescita, Jaka Book, Milano;

 

Sitografia

  • | Potlatch L’enciclopedia canadese (thecanadianencyclopedia.ca) 
  • http://peabody2.ad.fas.harvard.edu/potlatch/page2.html
  • (PDF) Etnoarcheologia della Middle Tanana Valley, Alaska (researchgate.net)
  • The Potlatch – Prime Nazioni del Pacifico nord-occidentale (donsmaps.com)

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