Il 25 novembre si celebra in tutto il mondo la Giornata Mondiale contro la violenza sulle donne.
Ma perché proprio questo giorno?
1960, 25 novembre.
Tre sorelle vennero uccise dagli agenti del dittatore Rafael Leonidas Trujillo, a Santo Domingo, nella Repubblica Dominicana.
Dopo essere state fermate per strada mentre si stavano recando in carcere a far visita ai mariti, vennero brutalmente picchiate con dei bastoni e gettate in un burrone.

Minerva, María Teresa e Mirabal erano attiviste del gruppo clandestino Movimento 14 giugno, formatosi per spodestare il dittatore attraverso la lotta armata.
A causa della loro militanza, nel gennaio del 1960, furono arrestate e incarcerate per alcuni mesi, per poi essere rilasciate e uccise.
Il mondo da allora le ricorda come Las Mariposas, le farfalle, per il coraggio dimostrato nell’opporsi alla dittatura, lottando in prima persona per i diritti delle donne.
Il 25 novembre del 1981 si è tenuto il primo «Incontro Internazionale Femminista delle donne latinoamericane e caraibiche» e da quel momento il 25 novembre è stato riconosciuto come data simbolo. Nel 1999 quella giornata è stata istituzionalizzata anche dall’Onu con la risoluzione 54/134 del 17 dicembre.
Un ulteriore passo in avanti è stato fatto con il riconoscimento della violenza sulle donne come fenomeno sociale da combattere, grazie alla Dichiarazione di Vienna del 1993.
Uno dei simboli più usati per denunciare la violenza sulle donne e sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema sono le scarpe rosse.
Questa rappresentazione è stata ideato nel 2009 dall’artista messicana Elina Chauvet con l’opera Zapatos Rojas.

L’installazione è apparsa per la prima volta davanti al consolato messicano di El Paso, in Texas, per ricordare le centinaia di donne rapite, stuprate e uccise a Ciudad Juarez, di cui ho scritto la storia.
La violenza fisica e psicologica contro le donne è una piaga sociale mondiale, di difficile risoluzione.
Quella tra le mura domestiche, è forse uno dei problemi più complessi e antichi che ci troviamo ancora a dover affrontare noi donne.
La vergogna, il silenzio, la paura, la solitudine stringono ogni giorno di più quelle mura, trasformando quella che dovrebbe essere la casa familiare in una gabbia da cui è impossibile fuggire.
La violenza fisica lascia dei segni spesso indelebili sul corpo di chi la subisce.
La violenza psicologica l’ascia dei segni indelebili nell’anima.
Chi sopravvive porta su di sé le cicatrici di quell’amore malato.
Vorrei che questo giorno non fosse solo oggi ma fosse tutti i giorni, che l’impegno fosse di ciascuno di noi per costruire una rete di protezione verso chi ha bisogno, per impedire che altre madri, mogli, amiche, sorelle, colleghe di lavoro, conoscenti, vicine di casa…diventino un caso sui TG nazionali.

Chiudo questo scritto raccontando una storia, qualcosa che ho vissuto perché è accaduta ad una mia amica, di cui non so più niente.
Per vent’anni ha sopportato la violenza fisica e psicologica del marito ubriaco quasi ogni giorno.
Insulti, sputi, calci in pancia e nelle reni anche quando aspettava il loro unico figlio.
Non ha mai avuto la forza di lasciarlo, di spiccare il volo da sola e di ricominciare a vivere perché oltre ad averle distrutto il fisico, le ha distrutto l’anima.
L’ha intrappolata nell’insicurezza.
Ho potuto fare ben poco per aiutarla, perché non ha mai accettato la mia mano tesa, forse non ha mai avuto il coraggio di farlo.
Un giorno, mentre ero a casa sua, è scoppiata una lite tra lei e suo marito e lui immediatamente ha cominciato ad essere violento.
Quando ha provato a metterle una mano addosso, mi sono messa tra di loro e si è fermato.
Quella è stata l’ultima volta che l’ho vista.
Dopo che me ne sono andata, lei è sparita dalla mia vita.
Sono passati 4 anni.
Spero ancora di poterla rivedere.
Ho conservato il suo numero di telefono.
Ogni tanto le faccio uno squillo, nella speranza che prima o poi mi risponda, che mi dica che la sua vita è cambiata, ma non lo ha ancora fatto….