Trieste.
In via Giovanni Palatucci al 5 c’é un grande complesso di edifici costruito nel 1898, nel rione di San Sabba.
A suo tempo era stato costruito per diventare uno stabilimento per la pulitura del riso.
Dopo l’occupazione nazista, la Risiera di San Sabba, questo è il nome di questi edifici, venne utilizzata come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’armistizio del 1943.
Successivamente fu strutturata come campo di detenzione di polizia, Polizeihaftlager.
Da quel giorno servì per smistare coloro che dovevano essere deportati in Germania e in Polonia verso i lager, per conservare i beni a loro confiscati, e come prigione per ostaggi, Partigiani, detenuti politici ed ebrei.
Appena si entrava, il primo stanzone a sinistra, era chiamato la cella della morte. Ci finivano tutti prigionieri portati lì dalle carceri oppure catturati durante i rastrellamenti e destinati ad essere eliminati e cremati nel giro di poche ore.
Poteva accadere anche che i detenuti si trovassero insieme ai cadaveri in attesa di cremazione.
Poco più avanti, sulla sinistra di trovavano 17 micro celle in cui venivano rinchiusi fino a 6 prigionieri, principalmente partigiani, politici ed ebrei, destinati all’esecuzione a distanza di giorni, a volte di settimane.
Le prime due stanze venivano usate per la tortura oppure la raccolta di materiale prelevato ai prigionieri: alla fine del conflitto vi furono rinvenuti migliaia di documenti d’identità, sequestrati non solo ai detenuti e ai deportati, ma anche ai lavoratori inviati al lavoro coatto.

Le porte e le pareti di queste stanze erano ricoperte di graffiti e scritte, che il tempo ha lentamente cancellato.
A testimonianza dei messaggi lasciati da chi passò per quelle mura, vi sono le trascrizioni sui diari dello Studioso e collezionista Diego de Henriquez, che con la sua opera è riuscito a rendere indelebile il ricordo degli ultimi istanti di vita dei condannati a morte.
L’edificio successivo era destinato all’accoglienza in camerate molto ampie di ebrei e prigionieri civili e militari, che venivano poi inviati nei lager in Germania.
Da qui passavano uomini e donne di tutte le età, compresi bambini di pochi mesi. Le loro destinazioni erano, per lo più, Dachau, Auschwitz e Mauthausen. Ad attenderli nella maggior parte dei casi c’era la camera a gas.
Nel cortile interno davanti alle celle, c’era l’edificio che era destinato alle eliminazioni, con il forno crematorio.
Per accedere a questa zona bisognava percorrere una scala perché si trovava in un piano interrato.
Nel marzo del 1944 i nazisti decisero di trasformare il preesistente essiccatoio in un forno crematorio, in grado di incenerire, secondo il progetto di Erwin Lambert che aveva già costruito alcuni forni crematori in altri campi di sterminio, un numero maggiore di cadaveri.
Il nuovo forno venne collaudato il 4 aprile 1944, con la cremazione di 70 cadaveri di prigionieri fucilati il giorno prima al poligono di Opicina.
Il forno crematorio e la relativa ciminiera rimasero in funzione fino alla notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, quando i nazisti in fuga, per eliminare le prove di quanto avevano fatto, fecero saltare la struttura con la dinamite.
Tra le macerie furono ritrovate ossa e ceneri umane in tre sacchi chiusi, simili a quelli usati per il cemento.
Venne ritrovata anche una mazza, utilizzata per giustiziare i prigionieri.
In base alle ricostruzioni, tutte plausibili, si presume che i metodi di eliminazione dei detenuti fossero la gassazione in automezzi, la fucilazione e il colpo di mazza alla nuca. Questo metodo oltre a essere molto cruento, non assicurava la morte immediata della vittima. Poteva capitare che nel forno venissero messe persone ancora vive, agonizzanti. Altre volte nel crematorio finivano prigionieri volutamente inviati ancora vivi; era il caso ad esempio di membri della Resistenza, di cui ho raccontato la storia, oppure di prigionieri politici.
Il fabbricato centrale era composto da 6 piani ed era adibito all’ospitalità dei militari delle SS, tedeschi e ucraini. Accoglieva anche i militari italiani, che svolgevano funzioni prevalentemente di sorveglianza.
In quello che oggi è l’edificio destinato al culto, venivano ricoverati i mezzi delle SS e i furgoni utilizzati per gassare i prigionieri.
Accanto vi era l’alloggio della comandante.
Secondo alcune stime e in base al materiale ritrovato, nella risiera di San Sabba morirono fra le 3 e le 5000 persone. Decisamente superiore è il numero invece dei prigionieri che passarono di lì per essere poi smistati nei vari campi di sterminio o di lavoro.

Triestini, friulani, istriani, sloveni e croati, militari, ebrei…bruciarono nella Risiera di San Sabba senza alcuna distinzione.
Dopo l’8 settembre 1943, la struttura divenne territorio direttamente amministrato dal Reich.
Con la creazione del ”Litorale Adriatico”, le province di Udine, Trieste, Gorizia, Pola, Fiume e Lubiana, furono annesse direttamente alla Germania.
Il controllo della zona fu affidato al Gauleiter della Carinzia Friedrich Rainer, che non aveva mai celato il proprio odio viscerale verso l’Italia. Assunse pieni poteri politici ed economici sul territorio a partire dal 1° ottobre 1943.
Come prima cosa affiancò all’operato di podestà e prefetti dei consiglieri di fiducia e stabilì precise regole per l’uso delle milizie locali, che passarono alle dirette dipendenze delle SS.
La milizia fascista assunse il nome di ”Milizia Difesa Territoriale”. I vari reparti di polizia furono impiegati nelle operazioni di rastrellamento e repressione della guerra partigiana e di controllo della classe operaia nelle grandi fabbriche. Tra questi divenne tristemente famoso l’Ispettorato Speciale di P. S. per la Venezia Giulia, agli ordini dell’ispettore generale Giuseppe Gueli, operante nella cosiddetta ”Villa Triste” di via Bellosguardo.
Questo ispettorato passò alla storia come ”banda Collotti”, dal nome del suo comandante, il commissario Gaetano Collotti, particolarmente attivo, dopo l’armistizio, nel fornire collaborazione per la cattura di ebrei ed antifascisti.
Prima dell’inizio della guerra gli ebrei nel territorio di Trieste erano circa 5.000.
Dopo la firma delle leggi razziali del 1938 e l’istituzione a Trieste di uno dei “centri per lo studio del problema ebraico”, 4 in tutta Italia, molti ebrei della zona decisero di migrare.
Nonostante questo, i nazisti riuscirono a deportare nei campi di sterminio più di 700 ebrei triestini.
Di questi ne sopravvissero circa 20.
A San Sabba furono deportati anche molti ebrei provenienti dal Veneto, dal resto del Friuli, da Fiume e dalla Dalmazia.
Della supervisione del controllo di polizia fu incaricato il comandante Odilo Lotario Globocnik, uomo di fiducia di Himmler e organizzatore dei massacri di oltre due milioni e mezzo di ebrei in Polonia (Aktion Reinhard).
Si installò alla risiera con un nutrito seguito di professionisti della morte, che avevano già avuto modo di operare in maniera proficua in varie operazioni di sterminio nel resto dell’Europa.

Fra loro c’erano gli uomini dell’Einsatzkommando Reinhard, 92 specialisti tra i quali numerose SS ucraine, sia uomini che donne.
Gli Einsatzgruppen o Einsatzkommandos erano reparti speciali, creati allo scopo di ”condurre la lotta contro i nemici ostili al Reich alle spalle delle truppe combattenti”. Avevano l’incarico di svolgere compiti di “particolare impegno” per l’attuazione della politica di occupazione, di repressione e di sterminio praticata dal Terzo Reich nei territori invasi.
Dipendevano dall’RSHA, che a sua volta dipendeva dal Ministero degli Interni, a capo del quale c’era il Reichsführer SS Heinrich Himmler.
Ad ulteriore supporto dei gruppi operanti a San Sabba, arrivò anche Christian Wirth, impegnato fin dal 1939 nella famigerata Aktion T4, operazione studiata appositamente per l’eliminazione dei cosiddetti malati inguaribili la per la Germania. Oltre a rappresentare un importante centro economico e politico per espansionismo Imperiale, la zona rappresenta un importante avamposto di controllo nel settore balcanico, interessato da una capillare guerra partigiana e minacciato da l’avanzata Sovietica.
L’evolversi del conflitto a favore degli alleati e la tenace Resistenza presente in zona, costringeranno i tedeschi ad abbandonare il Litorale e San Sabba.
Ma ormai i muri di San Sabba grondavano il sangue di migliaia di innocenti.
Nel 1976 a Trieste si concluse il processo ai responsabili dei crimini commessi alla Risiera.
Tra gli imputati spiccavano i nomi di Joseph Oberhauser, comandante della struttura e August Dietrich Allers, suo diretto superiore. Al processo il banco degli accusati rimase vuoto: alcuni di loro erano stati giustiziati dai Partigiani, altri erano deceduti per cause naturali.
Allers morì nel marzo 1975, Oberhauser rimase a Monaco dove risiedeva.
La giustizia italiana non ne chiese l’estradizione in quanto gli accordi italo-tedeschi che regolano questo istituto si limitano ai crimini successivi al 1948.
Il processo si concluse con la condanna dell’Oberhauser all’ergastolo. Morì libero nel 1979.
In merito al processo di San Sabba,
Simon Wiesenthal fisse: ”Non è solo un’esigenza di giustizia, ma anche un problema educativo. Tutti devono sapere che delitti come questi non cadono sul fondo della memoria, non vengono prescritti. Chiunque pensasse ad un nuovo fascismo deve sapere che, alla fine, sarà sempre la giustizia a vincere. Anche se i mulini della giustizia macinano lentamente”.
Il 15 aprile 1965 La risiera di San Sabba divenne monumento nazionale.
Niente potrà mai cancellare quello che avvenne in quel luogo durante l’occupazione nazista. Il dolore, la morte, la sopraffazione, l’umiliazione che subirono le persone che passarono dalla risiera, resteranno come una macchia indelebile nel nostro cuore, perché mai più nessun nazismo o fascismo possano ritornare….