Ho letto molto sulle condizioni igieniche nei campi di concentramento, ma un aspetto non lo avevo mai considerato.
Come affrontavano le donne nei lager l’arrivo del ciclo mestruale?
Come gestivano l’imbarazzo del sanguinamento in pubblico, senza possibilità di avere intimità e di accedere a servizi igienici per potersi lavare?
Ad affrontare questo argomento cercando di dar voce all’esperienza traumatica vissuta da migliaia di donne, è la storica britannica Jo-Ann Owusu: «Le mestruazioni sono un argomento che raramente ci viene in mente quando pensiamo all’Olocausto ed è stato un tema ampiamente evitato come area di ricerca storica.
Ed è deplorevole, poiché le mestruazioni sono una parte fondamentale dell’esperienza delle donne. Testimonianze orali e memorie mostrano che le donne si vergognavano di parlare delle mestruazioni durante la prigionia nei campi di concentramento, ma allo stesso tempo mostrano che continuavano a tirare fuori l’argomento superando lo stigma ad esso associato».

Jo-Ann Owusu mette in evidenza come le mestruazioni siano entrate nelle ricerche storiche sulla Shoah solamente da un punto di vista medico e riproduttivo: si è parlato di sterilizzazioni forzate o dell’assenza di mestruazioni (amenorrea). Ma l’esperienza delle mestruazioni in quel contesto ha significato molto altro nella memoria delle sopravvissute.
Per la maggior parte delle donne, la prigionia ha significato la completa esposizione dei corpi allo sguardo degli altri.
Liliana Segre, detenuta ad Auschwitz-Birkenau dall’età di 13 anni, ha dichiarato: «Nel lager ho sentito con molta forza il pudore violato, il disprezzo dei nazisti maschi verso donne umiliate. Non credo assolutamente che gli uomini provassero la stessa cosa…La spoliazione della femminilità, la rasatura, la perdita delle mestruazioni, sono state un percorso comune a tutte le donne. Sì, ne abbiamo risentito tutte moltissimo. Io soffrivo parecchio per le mestruazioni e ricordo che uno dei primi pensieri arrivando lì dentro era stato: e quando arriveranno le mestruazioni come farò?».
Mentre per molte donne il ciclo mestruale era identificato con la vergogna del sanguinamento pubblico e con il disagio di non poterlo gestire, per altre la sua assenza ha generato ansia e paura di infertilità.
Molte donne in età riproduttiva, a causa della denutrizione e della violenza a cui erano sottoposte ogni giorno, avevano smesso di avere il ciclo. E se quella condizione fosse stata definitiva? Se fossero rimaste per sempre sterili?
L’articolo della Owusu riporta diverse testimonianze fra cui quella di Charlotte Delbo, partigiana francese, deportata e sopravvissuta di Auschwitz, che racconta di una discussione avvenuta in una stanza piena di donne ai tempi della prigionia:
“E se dopo non tornassero mai più? Ci hanno condannate alla sterilità”.

Nelle baracche questo argomento era molto scottante, soprattutto le detenute si chiedevano come risolvere il problema.
Jo-Ann Owusu riporta nel suo lavoro il racconto di Trude Levi, un’infermiera ebrea ungherese di 20 anni: «Non avevamo acqua per lavarci, non avevamo biancheria intima. Non potevamo andare da nessuna parte. Tutto ci rimaneva addosso e per me è stata una delle cose più disumanizzanti che abbia mai vissuto».
Un’altra testimone, Julia Lentini, rom di Biedenkopf, Germania, all’epoca diciassettenne, deportata prima ad Auschwitz-Birkenau e successivamente a Schlieben, ha raccontato di come le donne che avevano le mestruazioni avessero dovuto trovare delle strategie per gestirle: «Prendevi la biancheria che ti avevano dato, la strappavi, facevi delle piccole pezze, e le custodivi come se fossero d’oro…le sciacquavi un po’, le mettevi sotto il materasso e le asciugavi, così nessuno poteva rubartele».
Alcune usavano altri materiali.
Ad esempio, Gerda Weissman, donna polacca che aveva 15 anni quando venne deportata, ha dichiarato: «Era una cosa difficile perché non avevi forniture. Dovevi trovare piccoli pezzi di carta e altre cose dentro ai bagni».
In quei giorni le pezze avevano una loro «microeconomia nei campi». Venivano rubate, regalate, prese in prestito e scambiate anche per altri scopi.
In alcuni casi, le mestruazioni hanno salvato le donne da esperimenti o stupri.
Elizabeth Feldman de Jong ha raccontato che non molto tempo dopo il suo arrivo ad Auschwitz aveva smesso di avere le mestruazioni, a differenza della sorella, che era con lei.
Un giorno era stata chiamata per essere sottoposta a un’operazione (dentro ai campi a molte prigioniere si asportava l’utero o vi si iniettava un liquido irritante per sterilizzarle). Lei si era presentata con la biancheria intima di sua sorella, sporca di sangue, e il medico si era rifiutato di operarla.
Jo-Ann Owusu riporta anche. la storia di due giovani donne che il 18 febbraio del 1940, in Polonia, erano state prelevate con la forza dalla loro casa dai soldati tedeschi: solo una di loro era stata stuprata, l’altra no perché aveva le mestruazioni.
Un’altra testimonianza interessante è quella di Lucille Eichengreen, giovane prigioniera tedesca che nel suo libro di memorie ha raccontato come durante la prigionia nel campo di concentramento di Neuengamme, vicino ad Amburgo, aveva trovato un piccolo pezzo di stoffa: aveva pensato di usarlo per coprirsi la testa rasata, ma preoccupata di essere punita per il possesso di un oggetto proibito lo nascose tra le gambe. Quando una guardia tedesca l’aveva presa da parte per stuprarla, l’aveva palpata e aveva trovato la stoffa: «Tu sporca inutile puttana! Puah! Stai sanguinando», disse. E l’aveva lasciata andare.
Oltre ad essere un momento di grave imbarazzo e un peso aggravante nella già difficile vita dei lager, le mestruazioni hanno creato relazioni tra donne all’interno dei campi.
La solidarietà femminile che scaturiva spontaneamente dall’esperienza condivisa delle mestruazioni racconta una storia fatta di complicità e piccoli gesti dall’immenso valore.
Alcune adolescenti hanno avuto il loro primo ciclo nei campi, trovando supporto e sostegno nelle prigioniere più anziane.
Una di queste giovani donne è stata Tania Kauppila, di origine ucraina, che si trovava nel campo di Mühldorf, in Baviera. Aveva 13 anni quando le erano venute le prime mestruazioni. Spaventata per quello che le stava accadendo, aveva pianto per ore, temendo di morire. Le altre donne del campo, come delle madri o delle sorelle, le avevano insegnato tutto ciò che doveva sapere.
Alcune studiose femministe dell’Olocausto, come Sibyl Milton, hanno analizzato le strategie collettive messe in atto dalle donne nei lager per sopravvivere, come la formazione delle cosiddette “famiglie del campo” o delle “famiglie sostitutive”, piccoli gruppi di mutua assistenza in cui ognuna si prendeva cura dell’altra.
Dopo la Liberazione, molte donne che soffrivano di amenorrea hanno vissuto il ritorno delle mestruazioni come una festa, come il simbolo della loro ritrovata identità e del ritorno alla vita.
L’articolo di Jo-Ann Owusu si conclude con la testimonianza di Amy Zahl Gottlieb che, in una intervista ha parlato proprio di come le donne, liberate dai campi, hanno iniziato ad avere una vita normale e avevano ricominciato ad avere le mestruazioni: questo evento per talune inaspettato, aveva trasformato il ciclo mestruale «in un simbolo della loro libertà» ritrovata.