La peste: tra realtà e metafora

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Tra il 2010 e il 2015 (ultimi dati precisi disponibili), l'OMS ha registrato oltre 3200 casi di peste, suddivisi tra tutti i continenti escluse Europa e Oceania, con 584 morti....

Il termine “peste”, nel corso del tempo, ha finito per indicare tutto ciò che può determinare delle catastrofi.
Questo, sia nell’ambito delle vere tragedie (“pestilenza” sta per grave epidemia), sia nel banale linguaggio di tutti i giorni (un bambino particolarmente indisciplinato viene definito “pestifero”).
Si tratta di una eredità lessicale del passato, un passato di cui si è sostanzialmente persa la memoria, perché percepito come ormai troppo distante e irripetibile. I numeri impressionanti di questo passato vengono depotenziati dal tempo che ci separa da questi eventi.
Questo atteggiamento rivela soprattutto i nostri limiti culturali.
La peste non provoca più epidemie, ma non è certo eradicata dal mondo.
Tra il 2010 e il 2015 (ultimi dati precisi disponibili), l’OMS ha registrato oltre 3200 casi di peste, suddivisi tra tutti i continenti escluse Europa e Oceania, con 584 morti.
La storia della peste è quella di una malattia infettiva capace di far comprendere a fondo tutte le esigenze e le difficoltà di una corretta profilassi. La peste non si prende per caso, ma viene trasmessa da parassiti che infestano l’uomo quando questo vive in condizioni igieniche estreme. All’uomo, i parassiti sono trasmessi da altri animali: per questo si parla di zoonosi. Non è un caso che le principali epidemie di peste si siano accompagnate a conflitti bellici, quando le pratiche igieniche passano in secondo piano rispetto ad altre esigenze.


La peste è una malattia provocata dell’infezione di un bacillo denominato Yersinia pestis e trasmessa all’uomo, quasi sempre, dalla puntura di pulci che parassitano i ratti o altri animali cui questi le hanno trasmesse (in genere ogni animale è infestato da un tipo diverso di pulce. Tuttavia, a volte può capitare che occasionalmente le pulci infestino un animale diverso da quello solito). Gli storici del passato hanno narrato di parecchie pestilenze ma, date le dubbie conoscenze di batteriologia e di epidemiologia dei loro tempi, non è affatto certo che si sia trattato ogni volta di epidemie di peste. La descrizione dei sintomi e delle circostanze in cui la malattia si diffondeva, fanno pensare che la “peste di Atene” del 430 a.C., raccontata da Tucidide, sia stata in realtà un’epidemia di vaiolo o di tifo; allo stesso modo, la “peste antonina” che colpì l’Impero Romano nel 167 d.C., ai tempi di Marco Aurelio, sembra più simile a un’epidemia di vaiolo.
Invece, fu certamente un’epidemia di peste quella che colpì Costantinopoli nel 541 d. C., ricordata come “peste di Giustiniano”. I resoconti, specie quelli firmati da Procopio di Cesarea, non lasciano molti dubbi al riguardo. Questa epidemia fu caratterizzata da ondate successive che si ripeterono fino a circa il 750 e si diffusero oltre l’area mediterranea, raggiungendo almeno cinque volte il mondo arabo, uccise da 50 a 100 milioni di persone ed è pertanto considerata la prima pandemia documentata.
Stiamo dunque parlando di una malattia molto infettiva e particolarmente letale: la più importante traccia che ha lasciato nel nostro passato è quella delle epidemie risalenti agli ultimi secoli del Medioevo, in particolare quella del 1346-53, denominata peste nera, che uccise circa 20 milioni di persone (un terzo degli abitanti complessivi dell’Europa).


Se nei casi precedenti, le cause dirette delle epidemie non sono note, su questo caso possiamo fare molte significative ipotesi. È possibile che, almeno in parte, fu dovuta a una forma di primitiva guerra batteriologica praticata dai mongoli che assediavano la colonia genovese di Caffa (attuale Fedosia) in Crimea. Questi avrebbero lanciato all’interno della città, con le catapulte i cadaveri dei morti per una epidemia scoppiata nei loro accampamenti, diffondendo l’infezione tra gli assediati. L’epidemia, sommata all’assedio, avrebbe quindi indotto molti cittadini alla fuga via mare. I fuggiaschi, durante il loro viaggio verso Genova, l’avrebbero poi diffusa in tutti i porti che toccavano.
Tuttavia, è probabile che questa storia spieghi solo l’esistenza di alcuni focolai, mentre ce ne sarebbero anche altri di origini diverse. Un’ondata di temperature più basse nel Nord Europa, indotta da un rallentamento della Corrente del Golfo, potrebbe aver spinto immense popolazioni di ratti (Rattus rattus o ratto nero) viventi nelle steppe della Russia a migrare verso l’Europa mediterranea in cerca di un clima meno rigido; l’avanzata dei ratti non avrebbe trovato l’opposizione del suo più efficace competitore in natura, il gatto, perché i gatti europei venivano sterminati nell’ambito della caccia alle streghe, molto attiva in quel periodo. I ratti neri vivevano benissimo nelle case, soprattutto in quelle di legno.
Si parla, in ogni caso, di “peste nera” e si calcola che, nel giro di sette anni, abbia sterminato circa un terzo della popolazione europea, senza risparmiare nessuna area.
Di questa pandemia, restano importanti tracce non solo storiche, ma anche letterarie, in particolare in Italia. Francesco Petrarca (1304-74), nel suo Canzoniere, ricorda più volte la tragica scomparsa della sua musa ispiratrice, Laura de Noves (1310-48), in particolare nel componimento Triumphus Mortis. Giovanni Boccaccio (1313-75) ambienta il Decameron durante l’ondata di peste che colpì Firenze nel 1348.


Questi non sono, tuttavia, gli unici punti di contatto tra la letteratura italiana e la peste.
La peste si manifesta, di solito, con il gonfiore dei linfonodi, dovuto alla reazione immunitaria contro la penetrazione del batterio nel corpo. Tale gonfiore produce i caratteristici bubboni, quelli che compaiono sul corpo di Don Rodrigo nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni (1785-1873). Da ciò il termine di “peste bubbonica”. A questo stadio la malattia può ancora guarire ma, se la reazione immunitaria non è sufficiente e il bacillo si propaga nel corpo, si ha un’infezione sistemica, la “peste setticemica”, il cui esito è quasi sempre letale. Una minoranza di pazienti si ammala attraverso il contatto con i fluidi emessi dai malati, soprattutto la saliva. Poiché in questi casi la via principale di ingresso del bacillo è quella respiratoria, si sviluppa una “peste polmonare”, gravissima e rapidamente letale (così, nei Promessi Sposi, muore il Griso).
Manzoni prese ispirazione dall’epidemia di peste che colpì il Nord Italia e diversi altri Paesi europei nel 1629-33, successivamente chiamata per questo “peste manzoniana”. Anche in questo caso, si possono identificare molteplici cause possibili. Una fase di temperature più basse nell’area atlantica (indicata come “piccola era glaciale”) avrebbe indotto una nuova migrazione di ratti dal Nord al Sud e una generale carestia aggravata dalla sovrappopolazione di diverse aree. Il periodo si trova proprio in mezzo al lungo conflitto europeo chiamato “guerra dei Trent’anni” (1618-48) e rappresenta il momento in cui le attività belliche raggiungono l’Italia. La Guerra di Successione di Mantova e del Monferrato, indotta dalla scomparsa di Vincenzo II Gonzaga, richiamò nella pianura padana una grande quantità di truppe francesi e tedesche che, oltre a saccheggiare ripetutamente l’area, vi portarono la peste che già imperversava altrove.
Secondo un medico del tempo, Alessandro Tadino (1580-1661), il focolaio principale partì dalla città bavarese di Lindau, importante mercato e luogo di concentrazione delle truppe. L’epidemia seguì il passaggio di queste (i “lanzichenecchi”) diffondendosi prima nella Germania meridionale e poi in Svizzera. A Milano, l’allarme fu lanciato per la prima volta dal medico Lodovico Settala (1550-1633) già nell’ottobre del 1629 e, anche se i primi commissari inviati nella zona di Lecco, dove si erano osservati i primi casi letali, attribuirono le morti alla malaria, la rapidità con cui la malattia si diffondeva indusse le autorità a vietare l’accesso alla città a chiunque provenisse dalle zone infette.

Non vennero però presi altri provvedimenti e per alcuni mesi le autorità restarono inerti, mentre la comunità scientifica era divisa sul da farsi. Finché nel 1630 l’epidemia esplose in tutta la sua virulenza: si calcola che a Milano siano morte 186.000 persone su 250.000 abitanti, ossia il 74% del totale, la percentuale più elevata di tutto il Paese.
A questa circostanza è legato un fatto particolarmente barbaro, ricordato dal Manzoni nella Storia della colonna infame: il 1° agosto 1630, due innocenti (il commissario di sanità Guglielmo Piazza e il barbiere Gian Giacomo Mora: da ricordare che, a quel tempo, i barbieri praticavano anche la chirurgia) furono giustiziati tramite il supplizio della ruota dopo essere stati condannati in quanto “untori”, ossia diffusori volontari del morbo, sulla sola base di alcune dicerie.
Le epidemie di peste contribuirono anche alla diffusione del consumo delle spezie.
Già dal Medioevo si sapeva che il consumo di noce moscata riduceva il rischio di contrarre la peste. Si ritiene che i principi attivi contenuti nella noce moscata (eugenolo, miristicina ed elemicina, tutti composti aromatici simili a quelli contenuti nei chiodi di garofano, nello zenzero, nel pepe e nel peperoncino) esercitino un apprezzabile potere insetticida che stermina le pulci, quando queste mordono una persona che ha consumato un tale prodotto. Questa ipotesi sembra confermata dal fatto che, al di sopra di certe concentrazioni, la noce moscata diventa un potente allucinogeno (si sconsiglia di provarla per ottenere questo risultato perché la quantità necessaria può provocare gravi danni epatici, anche mortali) a dimostrazione di una notevole attività (soprattutto della miristicina, che ha una struttura molto simile a quella dell’ecstasy) sulle cellule nervose (il cervello delle pulci contiene molte meno cellule di quello umano e gli effetti delle sostanze psicoattive sono molto superiori. Del resto, tutti i principali insetticidi agiscono a livello di sistema nervoso).
A ridurre le epidemie di peste in Europa sarebbero stati due fattori principali. Il primo è il passaggio dalla case di legno alle case di mattoni, meno ospitali per i ratti neri. Infatti, l’ultima epidemia di peste a Londra si ebbe nel 1665, prima del grande incendio che l’anno dopo distrusse quasi tutto il patrimonio edilizio cittadino in legno. I londinesi ricostruirono i quartieri della città con case di mattoni e la peste non si ripresentò più. Il secondo fattore è l’arrivo, dalle steppe siberiane, di un nuovo tipo di ratto, il ratto grigio (Rattus norvegicus), che soppiantò il ratto nero in quasi tutte le principali città europee. La pulce del ratto grigio è meno soggetta all’infezione da Yersinia pestis e i ratti grigi preferiscono vivere nelle fogne anziché nelle case.


Dopo la scoperta del batterio nel 1894 da parte dello studioso svizzero Alexandre Yersin (1863-1943), durante un’epidemia a Hong Kong, si sono tentate diverse cure per debellarlo e già i primi farmaci specificamente antibatterici, i sulfamidici, hanno portato a discreti risultati. Oggi la peste si cura con terapie a base di sulfamidici e antibiotici come tetraciclina, streptomicina e cloramfenicolo.
Un problema molto serio è quello della comparsa di ceppi di batteri resistenti agli antibiotici, che potenzialmente potrebbero diffondere di nuovo la pandemia in tutto il mondo se non si riuscisse a isolare i primi ammalati. Per questo, la prima forma di lotta alla peste consiste nella regolare pratica igienica di tenere i ratti di fogna lontani dalle comunità umane.
I ratti sono pressoché impossibili da sterminare (anche perché sono animali incredibilmente intelligenti e resistenti) e quindi l’unico modo per stare sicuri è tenerli il più lontano possibile. Per questa ragione è molto importante procedere alla rapida raccolta di rifiuti, alla bonifica dei siti pieni di rifiuti organici, alla periodica derattizzazione delle comunità umane e alla tutela delle comunità di gatti randagi, che sono in grado di tenere i ratti lontani dalle nostre città, quando sono in buona salute. Non a caso, uno degli interventi più noti dell’OMS contro la peste si ebbe negli anni ’60 in Bolivia e consistette nell’invio di numerosi gatti randagi raccolti nelle città americane e rimessi in forma per contrastare (cosa che fecero efficacemente) la diffusione dei ratti neri, in quel momento fuori controllo. Poiché i gatti contrastano anche la diffusione dei ratti grigi, che raramente sono vettori di peste ma possono essere vettori di moltissime altre malattie infettive, la legge 281/1991 protegge le comunità feline presenti nelle città italiane, senza delle quali i ratti uscirebbero continuamente dalle fogne.

BIBLIOGRAFIA

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