«Ma io volevo un caffè!». Sulla globalizzazione gastronomica della bevanda più consumata al mondo

Tempo di lettura: 6 minuti

American coffe e globalizzazione

Il caffè è senza dubbio la bevanda più bevuta in assoluto nel mondo. Una bevanda eccitante, rituale e soprattutto culturale. Culturale nelle sue metodologie di preparazione, nelle ritualità connesse, nella socialità che si porta dietro. Proprio in questi giorni i bar, dopo le ferree regole pandemiche, hanno potuto finalmente aprire al servizio al banco, con tutte le piccole ritualità connesse. Ed il “popolo del caffè” ha potuto così ritrovare il suo “luogo di culto” di quella piccola socialità che ho avuto modo di analizzare in una ricerca di qualche anno fa.

La riflessione è partita per caso: facendo zapping sono capitato su una puntata di Affari di famiglia, serie tv reality in cui si seguono le vicissitudini di un banco dei pegni di Las Vegas. Due dei protagonisti erano in trasferta in Italia quando vanno al bar ad ordinare un caffè. Una scena normalissima, quasi banale, se non fosse che il più anziano dei due guarda il prodotto (il classico espresso italiano da bar) e dice all’altro «Ma io volevo un caffè!».

A farmi partire la riflessione è stata mia figlia: «Ma come? Un caffè è sempre un caffè!».

Immagine tratta dal sito blaze.tv

In realtà non è così. 

Il caffè, semplificando al massimo, si può ottenere tramite due grandi metodologie di estrazione: l’espresso ed il filtro. Nel primo caso si utilizzano tempistiche brevi ed alte pressioni (una espresso professionale di norma estrae 7 grammi di caffè per meno di 30″ con una pressione di 9 bar); nel secondo il caffè (in dose più generosa, intorno ai 10 gr) viene estratto tramite percolazione, con acqua calda sulla polvere ed una infusione di qualche minuto (intorno ai 3). Questa tipologia di caffè filtro, diffusa in Nord Europa ed in Usa, ha dato poi il la ad una serie di metodi di estrazione più moderne: Aeropress, V60, Chemex, French press.

Qual è la differenza tra i due tipi di caffè? Innanzitutto la quantità di bevanda: 3 cl per l’espresso, 20 cl per il filtro. Poi il gusto, naturalmente: un caffè espresso avrà una crema (e nelle degustazioni si deve valutare anche la sua persistenza, oltre che il colore) ed un sapore maggiormente tostato, a scapito delle note floreali, mentre un caffè filtro (o americano) sarà più “leggero”, simile ad un tea (ma con più caffeina, essendo questa estratta per più tempo) con note aromatiche più intense, leggermente più dolce.

Fatta questa dovuta premessa, ho deciso di fare un piccolo esperimento: vado nel negozio simbolo della globalizzazione, Mac Donald, e chiedo un caffè americano.

Mac Donald, come ho avuto modo di dimostrare in più occasioni, è tutto fuorché globalizzato. I menù sono nazionali (e non potrebbe essere altrimenti, dato che la multinazionale è riuscita a conquistare persino il mercato indiano, dove per motivi religiosi non si mangia né maiale né manzo, il core business del fast food!). Ormai il claim pubblicitario del McCafé è “Il café all’italiana di Mac Donald”. Ma se chiedo un prodotto rigorosamente made in Usa, tipico dei diner che Mac vuole proprio riprodurre nel suo arredamento, cosa mi arriverà? 

La prima cosa che salta all’occhio è che in primo piano si trova la macchina del caffè espresso, una Cimbali, il sancta santorum del culto del caffè. Ma non una caffettiera americana, che semanticamente ricopre analogo ruolo nei diner statunitensi.

Esempio di macchina del caffè “americano” della ditta Smeg

Quello che arriva sembra, ad un occhio poco attento un caffè americano. Ma in realtà non lo è. Si tratta infatti di un semplice espresso “allungato” con acqua calda, che fa istantaneamente sparire la crema tipica dell’espresso e lo allunga. Ma al sapore è completamente diverso: prevalgono le note bruciate (come nell’espresso, in particolare con quelle miscele con una tostatura importante) a discapito di quelle fruttate. Ed anche il contenuto di caffeina, che si estrae come detto in perfusione con l’acqua, è quella dell’espresso, inferiore rispetto al filtro. 

Ricapitolando: da MacDonald, simbolo, per il senso comune, dell’America globalizzatrice, non trovo uno dei prodotti simboli della cultura alimentare Usa, ma una sua scialba copia. 

Quindi il discorso della globalizzazione vista come “vento di civiltà” che porta le sue mode granitiche dagli Usa in tutto il mondo inizia a scardinarsi.

Quindi la globalizzazione del caffè non esiste?

Non saltiamo a conclusioni affrettate.

I drink a marchio Starbuck in vendita nei supermercati

Starbucks, dopo essere arrivata in Italia qualche anno fa cambiando completamente il suo modus operandi, diventando nella sua sede milanese una Reserve Rostery, una torrefazione con caffè di qualità riprendendo il modello di bar italiano (Cfr Ciurleo, 2017), recentemente è approdato anche nella Gdo. E l’ha fatto con due linee di prodotti singolari. Da un lato si trovano i caffè torrefatti, macinati o in grani, con blending interessanti ed alcune mono origini (che nella gdo stanno facendo proprio ora il loro timido ingresso). Dall’altro si trovano i prodotti più Made in Usa, il core business di Starbucks: il Moccaccino o il Cappuccino.

Sia chiaro: del Cappuccino all’italiana che siamo abituati a vederci servito a colazione resta ben poco. Si tratta infatti di una sorta di frappé freddo, a base di latte ed aromatizzato al caffè zuccherato ed al cacao.

La cosa strana è che Starbucks, negli anni ’70, portò l’espresso (e soprattutto il termine “solo” e “doppio espresso”) dall’Italia negli Usa, ed ora questo viaggio sta facendo il percorso contrario. Ma, mentre nel primo caso abbiamo visto che la pratica dell’espresso si è dovuta adattare alle dosi americane, nel “viaggio di ritorno” questo adattamento non c’è stato. Il prodotto offerto da Starbucks alla gdo non ha italianizzazioni di sorta, nemmeno nel packaging.

Un po’ come accadde con Halloween, festa europea, “emigrata” negli Usa insieme ai padri pellegrini e recentemente ritornata in Europa, arrivando in Italia a soppiantare, nel calendario rituale dei più piccoli, il nostrano Carnevale.

In conclusione si tratta di due esempi di come il discorso della globalizzazione alimentare sia complesso. Proprio per questo non esiterei a parlare di “food-scape“, seguendo la teoria dei flussi di Appaduraj, ovverosia un flusso di mode culturali relative all’alimentazione. Come visto non si tratta di un “vento”, ma di un qualcosa di maggiormente multiforme, una sorta di fluido amorfo che può, a seconda della cultura con cui si incontra, riplasmarsi, modificarsi, o rivoluzionarsi del tutto.

BIBLIOGRAFIA

Appaduraj, Arjun

2006 – Modernità in polvere, Raffaello Cortina editore, Milano

Augé, Marc

2015 – Un etnologo al bistrot, Raffaello Cortina editore, Milano

Ciurleo, Luca

2015 – Tradizioni di pastarolla, Edizioni Ultravox, Domodossola

2017 – 1000 e un caffè. I molti volti di un rito sociale, Landexplorer, Boca

2021 – La società di lattice. Viaggio di un antropologo urbano nel mondo del CoViD-19, PAV edizioni, in fase di stampa

Ciurleo, Luca – Piana, Samuel

2016 – Ciboland. Viaggio nell’Expo tra antropologia ed economia, Edizioni Landexplorer, Boca

 

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