Lebbra… Lebbrosi… e lebbrosari

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La lebbra è una malattia che accompagna l'uomo da almeno 4.000 anni, stando ai reperti archeologici; ha preso origine forse in Africa, più probabilmente in Estremo Oriente, visto che i reperti più antichi che la testimoniano sono stati rinvenuti in India e Pakistan....

Lebbra, lebbroso.
Parole come queste sono ancora in grado di destare un senso di repulsione in chi le ascolta.
La lebbra non è soltanto una malattia mortale e per molto tempo incurabile, ma anche una malattia degradante, capace di ridurre chi ne è affetto alla condizione di un mostro.
Oggi vivono al mondo circa 15 milioni di lebbrosi, nella quasi totalità concentrati in Paesi poveri.
I riferimenti possibili a questa malattia e alle sue conseguenze per chi ne è affetto sono moltissimi, nella cultura di ogni tempo e Paese.
Nella civiltà occidentale ha avuto un peso importante fino a tutto il Medioevo, ma l’eco del suo passaggio non si è mai del tutto spento. Un classico del ‘900 italiano, Dino Buzzati (1906-72) la mette al centro di angoscianti racconti ambientati in un Medioevo senza tempo, che potrebbe anche rappresentare una distopia, come Una cosa che comincia per elle o L’uomo che volle guarire
Un giornalista e poeta cattolico francese di grande successo popolare, Raul Follereau (1903-77), ha dedicato quasi tutta la sua opera di artista e filantropo ai lebbrosi dell’Africa. Henri Charrière (1906-73) , ergastolano e poi scrittore, nel suo capolavoro autobiografico Papillon, racconta anche della sua avventura in una colonia di lebbrosi durante la sua fuga dalla Cayenna. Anche la scrittrice e filantropa vietnamita Le Ly Hayslip (nata nel 1949), nel primo dei suoi appassionanti libri autobiografici, Quando cielo e terra cambiarono posto, narra di un’esperienza tra i lebbrosi del suo Paese.
E questi sono solo i casi più noti.
La lebbra è una malattia che accompagna l’uomo da almeno 4.000 anni, stando ai reperti archeologici; ha preso origine forse in Africa, più probabilmente in Estremo Oriente, visto che i reperti più antichi che la testimoniano sono stati rinvenuti in India e Pakistan.


Nel IV secolo a. C. era sicuramente presente in Cina.
La sua presenza a Roma è testimoniata da scritti di Celso e di Plinio il Vecchio del I secolo a. C., mentre non è certo che sia la lebbra la malattia cutanea deformante presente nella Palestina del XII secolo a. C., di cui si parla nel Levitico.
Nel Medioevo la lebbra infestava quasi tutta l’Europa, anche se nel tempo le popolazioni svilupparono una certa resistenza che portò l’incidenza a calare drasticamente a partire dal XV secolo. Tuttavia, l’inizio delle colonizzazioni fece sì che la malattia fosse rapidamente diffusa in tutto il Nuovo Mondo, i cui abitanti non disponevano di altrettante difese immunitarie.
La lebbra consiste nell’infezione da parte di un bacillo, detto bacillo di Hansen, identificato per la prima volta nel 1873 dal dermatologo norvegese Gerhard Hansen (1841-1912). Questa infezione si trasmette in molti modi, ma quello prevalente sembra essere il contatto cutaneo, ossia quello diretto. Infatti le fasi di maggiore diffusione della lebbra, in cui l’infezione si è fatta strada come una vera pandemia, corrispondono regolarmente a periodi di notevole concentrazione di popolazioni in aree ristrette.
Lo studioso Andrew Nikiforuk sostiene che a diffondere la lebbra sia stata soprattutto l’inurbazione: in mancanza di conoscenze, pratiche e dispositivi per l’igiene di case e strade, la promiscuità delle città antiche avrebbe favorito la trasmissione di diverse malattie infettive, ma della lebbra in modo particolare, trattandosi di un’infezione che si trasmette in diversi modi e di una malattia che può restare a lungo asintomatica.


Infatti, solo un decimo delle persone infettate sviluppa la malattia, e solo metà di queste in forma grave. Ciò rendeva difficilissimo identificare i portatori sani e tenere sotto controllo la diffusione del morbo, tanto più che la scarsa igiene personale del tempo favoriva diverse altre affezioni cutanee, con le quali la lebbra poteva essere confusa fino a un certo punto, o che potevano mascherarne i segni.
Né erano del minimo aiuto le superstizioni che identificavano la lebbra, di volta in volta, come un castigo divino (di solito per la “lussuria”) o come una chiamata a espiare i propri peccati prima ancora di affrontare il giudizio divino. 
Bisogna considerare che la mentalità del Medioevo, specie su certi argomenti, era diversissima da quella da quella di oggi. Basta pensare alla cappella di Santa Maria Soricorum, Santa Maria dei Sorici, nel Duomo di Santa Maria Capua Vetere, Santa Maria Maggiore. Questa cappella riporta anche singolari immagini raffiguranti dei topi, in ricordo di un supposto miracolo, nel quale un giovane aristocratico di passaggio, affetto da lebbra, sarebbe stato guarito dalla visita notturna di un gruppo di roditori, che avrebbero sanato le sue piaghe leccandole. 
Nel Medioevo, prese comunque piede la pratica di isolare i malati, una volta identificati, in strutture fuori città, chiamate lebbrosari. I lebbrosi dovevano indossare un saio che li ricoprisse quasi del tutto e portare un bastone con una campana per avvertire la gente del loro passaggio. Potevano vivere solo di elemosine. L’isolamento era considerato alla stregua di una morte civile, come si apprende dagli scritti dello sfortunato poeta francese Jean Bodel, originario di Arras, vissuto come lebbroso per gli ultimi otto anni della sua vita, dal 1202 al 1210.
Poiché la malattia non risparmiava i ricchi, già allora, esistevano lebbrosari per tutte le tasche, di solito edificati fuori delle città, sottovento rispetto a esse.


C’erano però anche delle eccezioni.
Ad esempio, una delle più importanti figure dell’effimero Regno di Gerusalemme, fondato nel XII secolo in seguito alla Prima Crociata, il Re Lebbroso Baldovino IV, nato nel 1161 e salito al trono a tredici anni quando la malattia si era già manifestata.
Benché tutti pensassero che il suo regno sarebbe durato pochissimo, Baldovino si rivelò un sovrano molto combattivo. Pianificò di allargare il suo regno conquistando l’Egitto, ma lo scarso appoggio ricevuto dall’imperatore bizantino Manuele Comneno, che pure era suo parente, fece saltare i suoi piani. Dovette invece difendere i suoi territori da un attacco dell’esercito di Saladino, ottenendo una importante vittoria a Montgisard, nel 1177.
Due anni dopo, però, Saladino lo sconfisse a Marj Uyun.
Baldovino, benché circondato da cortigiani e collaboratori del tutto inetti, riuscì a tenere a bada i musulmani finché fu in vita e designò come erede il figlio di una delle sue sorelle, Baldovino V, nato nel 1177.
Nell’ultimo periodo della sua vita, ormai cieco e incapace di anche di camminare, non fu più in grado di combattere. Morì il 16 marzo 1185, a 24 anni. Il nipote erede lo seguì nella tomba dopo un solo anno. Salì allora al trono il cognato che Baldovino IV considerava il più incapace di tutti, Guido di Lusignano, che condusse il suo esercito alla devastante sconfitta di Hattin, con cui nel 1187 il Regno Crociato di Gerusalemme ebbe fine.
Una eco di questa storia si ritrova in un romanzo di Emilio Salgari pubblicato nel 1894, La città del Re Lebbroso, nel quale però l’azione è spostata nel XIX secolo e in Estremo Oriente.


Nel tempo, soprattutto da quando la medicina ha cominciato a curare la malattia, i lebbrosari sono gradualmente scomparsi, ma non rapidamente. L’ultimo lebbrosario italiano, che si trovava a Gioia del Colle, in Puglia, è stato chiuso nel 2011.
Fino ai tempi moderni, si sono costruiti lebbrosari in qualunque luogo isolato, ad esempio in piccole isole, la più famosa della quali è Molokai, la quinta isola in ordine di grandezza delle Hawaii, che nel XIX secolo ospitò due importanti missionari cattolici, poi elevati agli altari come santi, Damiano de Veuster (1840-89) e Marianna Cope (1838-1918). La figura di Damiano de Veuster, sacerdote belga molto fuori dagli schemi, capace di dar vita a una colonia confortevole e moderna partendo da una situazione di massimo degrado e destinato a morire prematuramente della stessa malattia che combatteva, è particolarmente famosa, al punto che nel 1959 le fu dedicato un film spagnolo di grande successo internazionale, Molokai, l’isola maledetta; un secondo film sull’argomento, di produzione belga, Molokai (1999), ha avuto un discreto successo nei Paesi di lingua inglese con il titolo Father Damien ma non è mai arrivato in Italia.
Alla fama di Padre Damiano contribuì sicuramente la diatriba che, dopo la sua morte, oppose il reverendo congregazionalista Charles McEwen Hyde (1832-99) e lo scrittore Robert Louis Stevenson (1850-94).
Entrambi avevano conosciuto direttamente Padre Damiano ed erano stati in ottimi rapporti con lui, ma Hyde (si dice, per contrastare la diffusione del cattolicesimo tra gli indigeni) si espresse in termini molto offensivi nei riguardi del missionario appena morto, accusandolo di condotta scandalosa e scatenando la reazione di Stevenson, che gli rispose senza mezzi termini con una serie di lettere pubblicate su giornali inglesi e australiani.
Messo davanti all’alternativa di querelare Stevenson (che lo accusava di essere un bugiardo mosso da ignobili propositi) e quella di ritrattare, Hyde ritrattò.


Gli scritti di Stevenson sulla questione si possono leggere in Italiano solo in una vecchia antologia della Longanesi, pubblicata nel 1951 con il titolo La casa lucente.
Un altro importantissimo lebbrosario, che esiste ancora oggi come ospedale d’avanguardia per la cura di tutte le malattie, fu fondato nel 1913 dal musicista e medico svizzero Albert Schweitzer (1875-1965, premio Nobel per la Pace nel 1952) a Lambaréné, nel Gabon. Le attività di Schweitzer a Lambaréné furono testimoniate, tra gli altri, dall’ultimo servizio realizzato dal grande fotoreporter William Eugene Smith per la rivista Life, intitolato A Man of Mercy, pubblicato nel 1954. Furono proprio le forzature con cui la redazione di Life pretese di proporre la vicenda del concertista di successo divenuto medico e missionario (allo scopo di renderla più appetibile a qualsiasi tipo di pubblico) a determinare la rottura tra la rivista e il fotografo, che da allora in poi avrebbe lavorato solo come socio dell’agenzia Magnum Photos.
Fin dalle origini del cristianesimo, i lebbrosi sono stati oggetto di carità e filantropia.
In particolare, nel XX secolo, fino agli anni ’70, la lotta contro la diffusione della lebbra è stata portata avanti da diverse associazioni per lo più di ispirazione cristiana, di cui la principale è quella degli Amici di Raoul Follereau, al quale abbiamo già accennato all’inizio. 
Negli ultimi 30 anni, il numero dei casi è sceso drasticamente anche nei Paesi poveri, e quelli rimasti si concentrano in gran parte in pochi Paesi, India e Brasile soprattutto.
La lebbra si manifesta in molti modi e, come detto, spesso rimane latente per molto tempo prima che si presentino sintomi. I suoi segni caratteristici sono le lesioni o le escrescenze sulla pelle.
Le forme più lievi, nel tempo, possono evolvere in quelle più gravi, determinando danni innanzitutto al sistema nervoso (perdita di sensibilità innanzitutto) e poi agli altri organi. Alla fine, la morte arriva in seguito ai danni epatici o renali, oppure per setticemia, perché la perdita di sensibilità impedisce di rendersi conto delle ferite, anche quando si infettano.
Le forme iniziali possono essere guarite, ma è difficile recuperare i danni neurologici, se ci sono. Le forme avanzate possono essere rallentate ma solo difficilmente guarite.
Nel tempo sono state testate molte terapie di buon successo. I primi successi si ottennero utilizzando l’olio estratto dalla pianta tropicale Chaulmoogra, secondo un procedimento al quale è legata un’altra storia importante, quella di Alice Ball.


Alice Ball, nata a Seattle nel 1892, apparteneva alla minoranza di afroamericani benestanti, perché suo nonno aveva avuto un grande successo come fotografo e suo padre, oltre a praticare la fotografia, era divenuto un noto avvocato.
Si ritiene che sia stata l’esperienza maturata già durante l’infanzia nei laboratori fotografici di famiglia a spingere Alice verso lo studio della Chimica.
Era una studentessa eccezionalmente dotata: si laureò in Chimica e in Farmacia a Seattle e riuscì a pubblicare degli studi su riviste scientifiche di alto livello. Il prosieguo della carriera accademica la portò alle Hawaii, dove aveva già trascorso un anno da bambina, per prendere un master presso la locale università.
Mentre studiava le proprietà di alcune piante, incontrò un chirurgo, Harry T. Hollmann, che stava testando un olio estratto dalla pianta tropicale chiamata Chalmoogra nella terapia della lebbra. Le iniezioni endovenose e intramuscolari di quest’olio sembravano rallentare significativamente il progresso della malattia.
La Ball compì un importante lavoro sull’olio di Chalmoogra, definendone la composizione fino ad allora sconosciuta e identificando quello che sembrava essere il principio attivo, l’acido idnocarpico (l’olio di Chalmoogra è una miscela di almeno dieci acidi grassi diversi), che mostra un potere antimicrobico letale sul bacillo di Hansen.
Ma il capolavoro della Ball consistette nel mettere a punto un procedimento chimico per stabilizzare i principi attivi in modo che si conservassero a lungo e potessero essere trasportati lontano senza perdere efficacia.
Il lavoro sull’olio di Chalmoogra valse alla Ball il master in Chimica che la rese la prima donna e la prima afroamericana a conseguire una laurea di secondo livello all’Università della Hawaii, nonché la prima a diventare docente universitario.
Purtroppo, la carriera di Alice Ball non era destinata ad andare oltre. Nel 1916, dovette rientrare a Seattle perché mostrava i sintomi della tubercolosi. Sebbene il suo certificato di morte menzioni questa malattia quale causa, sembra che le cose siano andate diversamente. Le terapie cui si era sottoposta a Seattle stavano avendo successo, per cui aveva potuto rimettersi al lavoro. Durante una esercitazione di laboratorio sul corretto uso delle maschere antigas (si era nel pieno della Grande Guerra), la Ball avrebbe inalato accidentalmente del gas di cloro e, anche per le sue condizioni generali non perfette, sarebbe morta rapidamente in seguito a questa intossicazione, il 31 dicembre 1916.
Poiché non aveva ancora pubblicato il suo lavoro sull’olio di Chalmoogra su una rivista scientifica, il suo capo-dipartimento alle Hawaii, Arthur L. Dean, lo pubblicò a proprio nome, dando al procedimento il nome di “metodo Dean”. Nel 1922, il dottor Hollmann pubblicò e diffuse un articolo per restituire il merito della scoperta alla Ball, ma intanto Dean era divenuto preside della facoltà e l’iniziativa passò sotto silenzio.


Solo negli anni ’70, due ricercatori della stessa università, Karin Takara e Stanley Ali, dimostrarono inequivocabilmente che Dean si era appropriato di un lavoro non suo.
Successivamente, per la cura della lebbra,  furono impiegati dei chemioterapici ancora più efficaci, i sulfoni.
Dal 1969 la cura d’elezione è l’antibiotico rifampicina, scoperto dall’italiano Pietro Sensi (1920-2013).
Negli ultimi decenni sono stati elaborati anche dei vaccini anti-lebbra, che si stanno rivelando molto promettenti.
Il maggiore problema, come al solito, è diffonderli nelle aree più povere del mondo. 

BIBLIOGRAFIA

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