Il sonno della ragione genera “fake”. Sulla fotografia e l’uso dello scatto tra arte ed antropologia.

Tempo di lettura: 6 minuti

Il presente articolo si compone di due parti e vuole raccontare due diversi approcci alla fotografia, tratte da altrettante mostre – amatoriali – diventate poi libri che si sono svolte in Ossola negli ultimi mesi.

Partiamo da un presupposto: la fotografia è fondamentale, soprattutto per chi studia le tradizioni e la loro evoluzione. Avere la foto di una donna in costume mentre porta una Cavagnetta è un vero e proprio tesoro inestimabile. Proprio per questo le cose vanno fatte “cum grano salis”, perché il rischio di “tramandare” fakelore è altissimo.

La locandina della mostra O come ossolani

O come Ossolani. È questo il titolo di una mostra fotografica prima e di un libro poi, presentato proprio in questi giorni a Domodossola. A realizzarli è stata una giovane, con una iniziativa senza dubbio interessante, ma che apre ad un dibattito e ad alcune inevitabili considerazioni. Dove finisce l’arte e dove inizia lo sfruttamento inconsapevole? Dove finisce la documentazione e dove inizia la ricerca degli aspetti più “freak” delle culture?  

Da anni mi occupo a livello professionale non solo di tradizione, ossolana in particolare, ma anche delle sue “derive” e del fakelore, ovverosia il “folklore inventato e presentato come fosse autentico”: non posso trattenermi dal mettere nero su bianco un paio di riflessioni.

Cominciamo dal titolo: “O… come ossolani”. Il rimando all’etnicità è esplicito, è evidentemente pensato per far leva sul senso di appartenenza; quando poi si passa ad osservare le foto, ne abbiamo subito conferma: donne in costume tipico (e chi se non le donne, portatrici e conservatrici della sapienzialità antica di cui il costume è eponimo?), spazzacamini, anziani dal volto segnato. L’autrice è autodidatta, non ha una formazione specifica in campo fotografico, si autodefinisce “viaggiatrice” ma trovo che il termine abbia in sé qualcosa di ambiguo:  stiamo parlando della reporter alla scoperta della verità, degli aspetti più segreti di una cultura “altra”, o della turista che -tutto sommato- si accontenta della versione “ready to shot” dell’indigeno da villaggio turistico? Non è un dilemma di poco conto.

Tanto più che l’esoticità da villaggio turistico è rappresentata dalla propria cultura di appartenenza.

Immagine tratta da Google immagini,
http://www.mondoallarovescia.com/turisti-piu-maleducati-del-mondo/

Da antropologo nativo ossolano mi sono spesso trovato in difficoltà a fare ricerca sul territorio: non è facile essere ricercatore e al contempo l’oggetto della ricerca, ma la mia formazione mi ha permesso di trovare soluzioni pratiche a questo empasse metodologico e filosofico. 

L’autrice della mostra non sembra nemmeno porsi il problema, ma si muove con indifferenza tra l’indossare vestiti tipici (e proponendosi dunque come oggetto di indagine) e il ruolo di indagatrice con la macchina fotografica al collo. Una posizione a mio avviso incompatibile, o comunque traballante sotto vari aspetti.

Non parlo tanto delle foto in bianco e nero, ottenute con un semplice smartphone a cui sono stati applicati i filtri, forse nemmeno sapendo bene cosa c’è tecnicamente dietro la costruzione di una foto e dell’immagine, come appare evidente da alcuni errori di inquadratura e di sovraesposizione, quanto di un problema concettuale: la ragazza, mettendo davanti il bulldozer dell’identità e della tradizione sfruttandolo a livello pubblicitario (ah, il valore aggiunto della tradizione, capace di vendere tutto, dai biscotti alle mostre autocelebrative!) in realtà ha lavorato come il ricercatore ottocentesco, prediligendo la stranezza e la meraviglia. 

Ecco quindi la visione delle donne in costume riprese in situazioni fake, creare ad hoc con tanto di sguardo fittizio perso nel vuoto, con Cavagnette portate in maniera errata, frutto di una creazione ancora una volta fake fatta senza conoscenza del fenomeno, senza approfondimento. Una foto pericolosa, che altera e stereotipizza una usanza ancora oggi viva.

Che differenza esiste tra queste foto e quelle della Venere ottentotta tipico esempio della steatopigia? O con le foto delle persone di colore costrette a vivere nei villaggi ricostruiti in occasione delle varie Expo di inizio Novecento?

Una foto della cosiddetta Venere Ottentotta

Spiace che le donne si siano prestate a questo folklorismo, termine che solitamente non uso preferendo il più neutro fakelore, svalorizzando così il loro ruolo di portatrici e conservatrici del costume, ridotte a modelle nemmeno prezzolate, o peggio di “cavalletti umani”.

Una mostra dalle ottime premesse purtroppo disattese: non è lo sguardo di un’ossolana, non è nemmeno uno sguardo “da lontano”. Non è Scheuermeier, né la Canziani del Gran Tour, ma una sorta di Gericault, con i suoi alienati, o meglio ancora dei freak di Diane Arbus. O i turisti che vanno nei villaggi del Nepal a fotografare la varia umanità per poi esporla e venderla come arte. 

Steve McCurry ha creato una tendenza artistica, pubblicando il suo volto della giovane Afghana dagli occhi azzurri che tutti conosciamo. Una foto rivoluzionaria fatta nel periodo dei talebani, uno scatto assolutamente non facile da ottenere, con la documentazione di un problema delle donne afgane considerate tali già a 9 anni. Ma non tutti sono dei rivoluzionari della fotografia. I bambini vestiti da piccoli spazzacamini sono sovvertimento della realtà normale, come il travestimento tipico della mascherata. Non del Carnevale, sia chiaro, da cui i bambini erano preclusi (almeno dai rituali principali e maggiormente tradizionali). Non è rievocazione storica, non è ricostruzione, è semplice artefatto. Lecito? Per carità, sì. Ma si inserisce in un pantano tipico del concetto di costume “tipico”, che avviluppa nella sua viscosità: quando è lecito portarlo? Sempre o solo in occasioni ufficiali e codificate? La promozione turistica è contemplata nella casistica? 

Tornando alle foto ho notato la presenza di donne e uomini dai volti dove prevale l’aspetto del freak show, la signora sdentata, l’anziano dal volto strano, la donna spettinata e sciatta, contrapposta alle donne, altrettanto strane (se vogliamo) che portano il costume tipico ancora oggi, nel 2020.

Un costume visto come peculiarità e stranezza e non come simbolo identitario. Una deriva pericolosa, non c’è che dire. Perché tra estrema sacralizzazione e sfruttamento turistico del folklore bisogna sempre prediligere la via di mezzo. Il folk, o quello che ne rimane oggi, va fotografato “in natura”, non in uno zoo. Le donne che portano la Cavagnetta vanno osservate in azione, nel loro habitat, non in situazioni creare (male?) artificialmente. 

Perché sappiamo tutti come l’opinione pubblica consideri oggi gli animali nei circhi.

BIBLIOGRAFIA

CONDIVIDI

Condividi su facebook
Condividi su twitter
Condividi su linkedin
Condividi su pinterest
Condividi su whatsapp
Condividi su email

COMMENTI

ARTICOLI CORRELATI

Le nostres storie direttamente nella tua mailbox