Il mostro di Udine: il serial killer delle notti di pioggia e di luna piena

Tempo di lettura: 18 minuti

“Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto”.
Così scriveva H.P Lovecraft, scrittore, poeta, critico e saggista statunitense, uno dei maggiori esponenti della letteratura horror del ‘900.
Dagli inizi degli anni 70 per un ventennio, dell’atavica paura dell’ignoto si impregnò Udine, cittadina di poco meno di 100.000 abitanti, là nel profondo nord-est. Gente chiusa, schiva legata alla propria terra e alle tradizioni sulla quale aleggia il fantasma di un serial killer e di una storia che non ha avuto, ad oggi, ancora un epilogo.
L’articolo che vi accingete a leggere racconta di un mostro, il mostro di Udine, che tra il 1971 e il 1989 ha ricercato e massacrato senza pietà, nelle piovose notti delle periferie friulane, almeno 13 donne spesso ai margini della società, talvolta prostitute.
Modalità riconducibili ai delitti seriali avvenuti nello stesso periodo nelle periferie di Firenze sui quali, però, la stampa ha puntato subito i riflettori lasciando, invece, quelli del nord-est nella penombra per tanto, troppo tempo.
È il 21 Settembre del 1971; piove.

Poco dopo la mezzanotte una telefonata anonima interrompe i lavori della redazione di un quotidiano locale. Una voce, senza particolare inflessione, invita chi ha risposto a recarsi in Viale delle Ferriere dove troveranno una donna sgozzata.
La zona si trova in quella che un tempo era la periferia sud di Udine, non molto distante dalla stazione ferroviaria: luogo attorno al quale gravitano, oggi come un tempo, una parte delle attività legate alla prostituzione della città.
A trovare il cadavere non sono i cronisti, ma Fulvia Candotti, anche lei prostituta, che di passaggio nel viale riconosce il cadavere dell’amica illuminato dalle luci interne della sua vettura rimaste accese dopo il delitto.
La polizia identifica la vittima nella 35enne Irene Belletti, di professione prostituta e solita appartarsi con i propri clienti in zona, al riparo da occhi indiscreti, anche grazie alla illuminazione quasi assente del viale.
Questo ha permesso all’assassino di ucciderla indisturbato con 3 fendenti al collo e 5 alla schiena.
La pista della rapina viene scartata immediatamente avendo ritrovato nell’auto, la borsetta della vittima ed il suo contenuto. Si ricerca allora tra presunti clienti, prostitute, protettori, vagabondi, possibili testimoni ma, a parte un iniziale sospettato che viene presto scagionato, nulla emerge: l’assassino e la voce anonima della telefonata rimangono senza un nome.
Il 6 Novembre 1972 le cronache riportano il ritrovamento della 52enne Elsa Moruzzi, con il cranio sfondato ed evidenti segni di strangolamento, nel suo appartamento nel centro di Udine.


Le indagini portano a un nulla di fatto ma al tempo, viste le diverse modalità, non era stato messo in relazione questo delitto con il precedente e i successivi. Stessa sorte per Eugenia Tilling che nel Dicembre del 1975 viene ritrovata morta, con il collo trafitto da mortali pugnalate, ma nulla sembra collegare gli omicidi, la notizia passa quasi inosservata come un “normale” fatto di cronaca.
Nel Maggio del 1976 l’Orcolat, l’orco della Carnia che nel folclore friulano scatena i terremoti, colpì i territori a nord i Udine provocando quasi 1.000 morti.
Mentre il Friuli stava ancora medicandosi le ferite di questa tragedia, il 21 Settembre il corpo esanime della 26enne Maria Luisa Bernardo colpita da 22 coltellate viene ritrovato in un campo di granoturco di Moruzzo, non distante da dove poi verrà ritrovata tre anni più tardi Jacqueline Brechbuhler.
Nata a Cividale ma trasferita a Udine Maria Luisa viveva con il marito, invalido e bisognoso di cure, e 2 figli in tenera età. A causa delle gravi difficoltà economiche in cui la famiglia versava, la giovane mamma si prostituiva abitualmente in un viale non molto lontano dalla stazione e vicino al posto dove cinque anni prima era stata trovata cadavere Irene Belletti: circostanze, modalità e legame delle due donne con il mondo della prostituzione cominciano a portare gli investigatori ad ipotizzare un possibile collegamento tra i due delitti.
Sono passati otto anni dal primo omicidio, la luna del 3 Ottobre del 1979 splende piena in cielo, e la notte è funestata da un altro delitto: il corpo di Jacqueline Brechbuhler, martoriato da dieci coltellate, viene rinvenuto a Colugna, non molto distante dal centro storico di Udine.
La donna originaria della Francia, ma trasferitasi nella città friulana un paio di anni prima, non versava in buone condizioni economiche e per arrotondare si prostituiva con clienti occasionali. Nonostante le forti similitudini riguardo al modus operandi ed alla vita condotta dalla donna, il caso non verrà mai attribuito con certezza al mostro di Udine.
Agatha Christie scrisse: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova»: è proprio a questo punto che sugli abitanti di Udine cala il terrore per la possibile presenza di un serial killer meticoloso e apparentemente ben organizzato a tal punto da lasciare gli investigatori per così lungo tempo a brancolare nel buio.
La lunga scia di sangue che ha tinto di rosso il Friuli non si arresta: la prostituta 19enne con problemi di droga Maria Carla Bellone, incontra il suo assassino in una notte di febbraio del 1980. Dopo essere stata sgozzata e accoltellata, il suo corpo viene ritrovato in aperta campagna.


Ma a questo punto, per la prima volta, appare quella che sembra la macabra firma dell’assassino: un taglio dalla precisione chirurgica, che dallo stomaco, evitando accuratamente l’ombelico, scende fino al pube. Questo taglio ricorda una tecnica usata negli anni ’60 per la realizzazione dei parti cesarei, fatto che sposta l’attenzione degli investigatori in ambito medico-chirurgico.
Di lì a breve, il 19 Marzo 1980 nella discarica di Gradisca viene rinvenuto il cadavere carbonizzato di Wilma Ghin. Viene sospettato del delitto un giovane pugliese ma ben presto le accuse cadono e, ancora una volta, la lista dei possibili sospetti rimane vuota e gli investigatori non sanno che pesci pigliare.
Poi un apparente silenzio di circa tre anni durante i quali sembra non accadere nulla.
Arriviamo al 24 gennaio del 1983, la luna è quasi piena in cielo, la prostituta 22enne Luana Giamporcaro viene uccisa, sgozzata. Anche il suo corpo viene ritrovato in aperta campagna, in un campo di mais, e sul suo corpo ci sono due lunghi tagli che vanno dallo stomaco al pube, evitando sempre l’ombelico.
Maria Bucovaz 44enne sposata e madre di 4 figli, a seguito di difficoltà e incomprensioni con il marito, si separa ma la prole viene affidata alle cure del padre, pur continuando a coltivare un rapporto d’affetto con la famiglia. Maria convive successivamente con un altro uomo in un appartamento delle case popolari, ma a seguito di uno sfratto e delle difficili condizioni economiche in cui versa, è costretta a vivere in condizioni di completa indigenza in una baracca nei pressi di Cividale del Friuli prostituendosi per sbarcare il lunario.
È la notte del 21 Maggio del 1984; piove parecchio.
Secondo quando ipotizzato degli investigatori, quella sera Maria potrebbe aver preso un taxi con il quale, come spesso usava fare, avrebbe raggiunto i dintorni di Udine per prostituirsi. Non è dato sapere se avesse già un appuntamento oppure avrebbe incontrato casualmente quello che pensava un cliente e che invece a poca distanza dalla sua baracca, in un boschetto tra Cividale e Orzano, l’avrebbe massacrata.


Approfittando della nottata piovosa, il giorno seguente, un cercatore di lumache, avventuratosi nei boschi nel comune di Moimacco, fece la macabra scoperta: la diagnosi del medico legale fu strangolamento.
L’anno 1984 pare che per il tranquillo Friuli, patria dei “fugolar”, i delitti legati al mostro di Udine non si plachino.
Fa notizia tra la popolazione il ritrovamento, in un campo vicino a Beano di Codroipo a pochi chilometri da Udine, del cadavere di Matilde Zanette Bazzo 44 anni, di San Fior di Treviso. L’omicidio si consuma nella piovosa notte di plenilunio del 9 settembre 1984, questa volta però le indagini sembrano prendere una piega diversa rispetto ai precedenti in quanto in meno di venti giorni viene fermato e poi accusato il 27enne Gianluigi Sebastianis, un falegname di Fagagna.  Le forze dell’ordine sono arrivate al giovane grazie a testimonianze di altre prostitute che avevano in passato denunciato aggressioni e che hanno fornito un numero di targa e un modello di macchina associata al Sebastianis. Incalzato dai carabinieri in un primo momento il giovane confessa l’omicidio rivelando dei particolari che apparentemente potevano essere noti solo all’assassino, per poi ritrattare la sua confessione senza però riuscire ad evitare la galera dato che nel 1986 la Cassazione confermò la condanna a 17 anni per omicidio, lasciando comunque un’ombra su questo cambio di versione. Soprattutto, la velocità delle indagini non ha permesso agli inquirenti di fare alcune valutazioni come, per esempio, il ritrovamento di dodici milioni di Lire che Matilde si portava sempre con sé poco distanti. Il ritrovamento del corpo semi svestito in una posizione che portava a facili conclusioni ma in un luogo scomodo per consumare un rapporto sessuale e il ritrovamento dei suoi occhiali lontano, quasi sul ciglio della strada. Questi particolari uniti all’ipotesi che Matilde fosse stata strangolata meritavano maggiore attenzione e scrupolo: così facendo, probabilmente, ci si sarebbe accorti per esempio che, nella storia di questi dieci delitti, i primi tre avevano caratteristiche comuni. La matrice era la stessa, una cieca violenza, pugnalate sulla zona pubica, altre coincidenze per altri delitti. Ma così non fu!
Stojanka Joksimovic 42 anni, di nazionalità Jugoslavia e con un figlio di 8 anni, risiedeva a Udine dal 1975.
Il 29 Dicembre del 1984 venne trovata strangolata, presumibilmente con una calza di nylon, alla periferia della città vicino alla discarica di San Gottardo. Il rapporto del patologo legale riferì che su varie parti del corpo vi erano delle ferite da punta superficiali. Molti si chiesero se l’assassino non volle infierire quella volta sulla vittima oppure non ne ebbe il tempo perché, magari disturbato da auto di passaggio, ritenne più saggio abbandonare il cadavere per non essere scoperto.
Passano altri 3 mesi ed è il turno di Aurelia Januschewitz, una prostituta di origine francese di 42 anni, con alle spalle una storia di solitudine, dolore ed emarginazione che la costringe a soventi, seppur brevi, ricoveri all’ospedale psichiatrico di Udine.


Il 3 marzo del 1985 è una giornata piovosa manca poco al plenilunio che si sarebbe verificato da lì a pochi giorni. Il cadavere di Aurelia giace abbandonato in una stradina di campagna nei dintorni di Udine. Sull’addome tre tagli longitudinali “perfetti” senza sbavatura o indecisione alcuna tanto che il medico legale ipotizza che lo strumento utilizzato per il delitto possa essere qualcosa di molto affilato come un coltello o un rasoio ma potrebbe anche trattarsi di una lametta da barba o persino un bisturi chirurgico.
Arriviamo alla piovosa notte del 25 Febbraio del 1989 pochi giorni prima la luna piena illuminava Udine e dintorni e Marina Lepre venne rinvenuta cadavere con un profondo taglio alla gola nella periferia nord della città sul greto del torrente Torre da un uomo che faceva footing.
Marina, di appena 40 anni, era nata a Conegliano ma viveva a Cividale con sua figlia Fedra di 9 anni. Apparteneva a una famiglia di origini borghesi, il padre lavorava in banca mentre lei, successivamente al diploma magistrale, era riuscita a trovare lavoro come impiegata in una compagnia di assicurazioni.
Si era sposata ma le prolungate assenze del marito, spesso all’estero per lavoro, l’avevano portata alla separazione situazione che probabilmente aveva contribuito ad acuire la depressione che si trascinava da dopo il parto alimentando anche problemi di alcolismo.
Quella sera alcune testimonianze la collocano all’ospedale di Udine presso il quale si era recata pare per farsi medicare una lieve ferita al mento. Dopo l’uscita dal pronto soccorso viene notata nei pressi della stazione salire a bordo di una autovettura FIAT: da quel momento nessuno la vede più almeno fino al mattino successivo. Sgozzata con alcuni colpi di arma da taglio ma soprattutto con il macabro dettaglio del profondo fendente a forma di “S” dal ventre al pube.
La mattina del 26 Febbraio gli inquirenti sono sul posto per cercare indizi, passano parecchie ore sul luogo del delitto e i dintorni vengono perlustrati con apparente cura. In serata però il carabiniere Edi Sanson e il suo collega, a fine turno, decidono di ritornare nuovamente in zona per cercare qualche indizio o particolare trascurato durante il sopralluogo della mattina. La volontà di approfondimento deriva, non solo dal dovere di servizio, ma soprattutto dal fatto che il carabiniere Sanson vedendo il cadavere in quelle condizioni la prima cosa a cui pensa è che il mostro sia tornato, sia ancora in circolazione.


Arrivati sul posto è già buio, cominciano a cercare ma sono quasi subito distratti da una voce in lontananza di cui però non riescono a comprenderne le parole. La voce proviene dalla chiesa di San Bernardo, poco distante dal luogo che stanno perlustrando, si decidono dunque di avvicinarsi per meglio capire di chi sia la voce e cosa stia dicendo.
Raggiunta la chiesa davanti agli occhi dei carabinieri si palesa la scena di un uomo sulla sessantina in evidente stato confusionale che chiede ripetutamente perdono a Dio per quello che ha fatto con braccia e occhi rivolti verso il cielo. Con gentilezza ma cautela lo avvicinano, lo tranquillizzano e cercano di indentificarlo offrendosi di accompagnarlo a casa. Dalla prima veloce identificazione emerge che l’uomo è un ginecologo di Udine che però sembra non aver mai professato. Giunti all’abitazione del medico, bussano: alla porta si presenta un uomo apparentemente più giovane che dichiara di essere suo fratello. Premurosamente ringrazia i carabinieri scusandosi e affermando che il fratello non sta bene e soffre di allucinazioni. I carabinieri consegnano il medico al fratello e fanno un tentativo di entrare in casa per dare un’occhiata: alla richiesta però il fratello cambia atteggiamento e sbrigativamente rifiuta in quanto sprovvisti di mandato, fa entrare il fratello e si premura di chiudere la porta dietro di sé.
I carabinieri, ritornati in caserma, fanno rapporto su quanto accaduto: considerata la particolarità dell’evento ci si aspetterebbe quanto meno una richiesta di perquisizione e una successiva ripresa delle indagini, invece non solo non seguono azioni di questo tipo nell’immediato ma il medico non viene nemmeno interrogato.
A seguito di sollecitazioni e alla presentazione di un ricco fascicolo al Procuratore della Repubblica che mette in relazione 5 delitti e li accomuna alla stessa mano esperta e capace di incidere con chirurgica precisione i corpi delle vittime, nel 1996 le indagini vengono riaperte.
Lo strano ginecologo, unico individuo fino a quel momento mai sospettato, viene finalmente sottoposto a indagine e viene emesso un mandato di perquisizione. L’abitazione condivisa con il fratello viene perquisita e con stupore i carabinieri trovano tracce di sangue nella vasca e sequestrano un set di utensili chirurgici da cui sembrerebbe però mancare il bisturi.
Nell’armadio vengono rinvenuti abiti femminili e, a precisa domanda sulle motivazioni di questo ritrovamento, i fratelli si giustificano attribuendo il vestiario femminile alla madre deceduta da tempo.
Ma non basta. Oltre ad emergere che il medico non avrebbe potuto svolgere la professione per gravi disturbi psichici, per sostenersi avrebbe svolto una serie di lavoro saltuari.


Uno in particolare attira l’attenzione degli inquirenti: quello di cameriere dal 1975 al 1878 presso un ristorante della zona che nasconde un inaspettato retroscena. Il proprietario lamentava soventi sparizioni di tovaglie specialmente a ridosso delle chiusure notturne, ed era proprio il medico ad essere il sospettato di questi ammanchi. Una sera una dipendente del ristorante lo aveva notato e, incuriosita, lo aveva pedinato e aveva visto il medico con in mano un bisturi sopra alla tovaglia che seguiva i disegni del tessuto quasi a simulare un’operazione chirurgica.
A questo punto gli inquirenti decidono di tenere sotto controllo il telefono ed intercettano una telefonata tra il fratello del medico e una amica di famiglia a dir poco agghiacciante.
Nella telefonata vengono registrate le seguenti parole: “Ho dovuto tenere mio fratello chiuso in camera per impedirgli di uscire”, quando la donna preoccupata ne domanda il motivo la spiegazione è: “Pioveva e nelle notti di luna piena faccio fatica a tenerlo tranquillo”.
Molti delitti sono stati commessi in notti piovose e alcuni di essi anche in corrispondenza di pleniluni o comunque in giornate non distanti da questo fenomeno. Tuttavia, dal momento che i fratelli vengono messi sotto pressione dai carabinieri i delitti cessano, pertanto dopo un po’ di tempo viene ordinata l’archiviazione del caso così il mostro di Udine scompare nuovamente, come inghiottito dalla nebbia.
Nel 2007 Fedra Lepre, figlia di Marina ufficialmente l’ultima vittima del mostro, prende coraggio e dopo tanti anni si decide ad aprire quella scatola che le venne consegnata dai carabinieri un mese dopo la morte della madre con all’interno gli effetti personali della vittima. È convinta che con le moderne tecniche dei RIS le possibili piccole tracce biologiche rimaste sugli oggetti personali della madre, in particolare un foulard, possano aiutare a rivelare qualcosa in più sulla morte di Marina.
Fedra si rivolge a “Chi l’ha visto” che raccoglie il suo appello e punta nuovamente i riflettori sul caso ed insieme convincono la procura a riaprire le indagini alla luce di nuove possibili piste investigative. In particolare, nella scatola c’è un portachiavi con 2 chiavi che al tempo era stato trovato stretto nella mano di Marina: Fedra prova ad utilizzare le chiavi in qualsiasi serratura delle sue proprietà ma stranamente le chiavi non aprono nessuna delle porte. Fedra informa i carabinieri i quali immediatamente ipotizzano che le chiavi possano essere state strappate da Marina all’assassino e lui, nella concitazione del momento, non se ne sia accorto. Il collegamento con l’appartamento del ginecologo è immediato, i carabinieri si fiondano con un mandato all’indirizzo del medico: purtroppo la casa è stata venduta l’anno prima, nel 2006, a causa di morte naturale del medico e il nuovo proprietario, come spesso capita, ha già provveduto a cambiare tutte le serrature.
Nonostante il nulla di fatto delle chiavi, i riflettori nuovamente puntati sul caso di Marina Lepre – e di riflesso sul mostro di Udine – smuovono la procura che ordina il sequestro dello scialle che viene inviato ai RIS di Parma che realizzano le analisi. Nel frattempo, in redazione di “Chi l’ha visto” giungono due testimonianze che sembrano collimare: una delle quali è rilasciata dalla sorella gemella della Giamporcaro (una delle vittime) che indicherebbero come sospettato una persona mai indagata. I risultati degli esami del RIS evidenziano una sequenza di DNA femminile presumibilmente riconducibile alla proprietaria del foulard ovvero la Lepre stessa, mentre sugli attrezzi chirurgici non si evidenziano tracce perché probabilmente sterilizzati. Il caso viene chiuso per la 3° volta nel 2015.
Nella primavera del 2019, grazie alla serie televisiva in programmazione su SKY dedicata a queste vicende, vengono ritrovati alcuni reperti rimasti tra gli archivi in quanto all’epoca non vi erano tecnologie sufficientemente avanzate per considerarli di rilievo. Le famiglie di Maria Luisa Bernardo e Mariacarla Bellone – assassinate nel 1976 e nel 1980 – chiedono la riapertura del caso. Finalmente Fedra, figlia di Marina Lepre, non è più sola alla ricerca della verità, i riflettori sono ritornati a far luce su questi casi irrisolti.


Nella Udine degli anni di Piombo per le strade della città si nasconde un assassino seriale che prende di mira donne sole, emarginate invisibili ai più. Molti hanno provato a chiedere, in maniera provocatoria, cosa sarebbe successo se le vittime fossero state mogli di persone in vista oppure di personaggi di un certo spessore come notai o avvocati. Nessuno ha dato una risposta ufficiale a questa domanda, si rincorrono diverse voci che parlano di un’operazione per togliere la prostituzione dalle strade di Udine fino ad un fantomatico gruppo “Udine pulita” che firmò persino un volantino che riportava nome e cognome e fotografia di un professionista additato per essere omosessuale invitando la popolazione a ribellarsi ed aiutare a ripulire la città da tale “vergogna”.
Esiste davvero un’unica mano a cui attribuire i delitti delle 13 donne oppure i delitti sono stati compiuti da più persone e casualmente alcuni di essi hanno degli indizi comuni? Gli investigatori hanno seguito diverse piste, forse le indagini hanno avuto delle lacune che oggi difficilmente sono colmabili, l’unica certezza è che i casi rimangono tutt’ora irrisolti e avvolti in un impenetrabile mistero. Sembrerebbe che dal lontano 1989 non si siano apparentemente verificati altri casi riconducibili ai delitti che abbiamo raccontato ma il mostro di Udine non ha ancora un volto e chissà se nelle notti piovose della città friulana c’è ancora chi teme che il mostro sia sempre in agguato.

Una canzone del cantautore italiano Francesco Guccini recita:

“E cade la pioggia e cambia ogni cosa
La morte e la vita non cambiano mai
……
per fare un uomo ci voglion 20 anni
per fare un bimbo un ora d’amore
per una vita migliaia di ore
per il dolore è abbastanza un minuto”

Al mostro sono stati sufficienti una manciata di minuti per spezzare le vite di queste 13 donne gettando nel dolore le loro famiglie.
Ho scelto di raccontare questa vicenda in loro memoria e in ricordo di tutte le donne vittime quotidianamente di violenza.
Ricordare significa mantenere viva l’attenzione, certamente il nostro è solo un piccolo contributo, una luce fioca in confronto ai riflettori che potrebbero accendere i media ma se saremo in tanti la luce diventerà sempre più intensa e ci auguriamo che chi si sta impegnando per scoprire la verità possa incontrare persone coraggiose che magari ricordano, hanno visto e per paura non sono riuscite a raccontare una verità, quella verità che sino a questo momento non è riuscita a venire a galla.

BIBLIOGRAFIA

  • Femmine un giorno – Marina Commessatti [Bébert Edizioni]
  • Chi l’ha visto – Rai 3

Articoli di repertorio diverse annate dei seguenti quotidiani e/o testate online :

  • La Stampa
  • Il Messaggero Veneto
  • Il Friuli

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