New York, 28 luglio 1945. Sabato mattina.
La metropoli si sveglia sotto un cielo grigio, quasi plumbeo. C’è la nebbia.
L’Empire State Building, uno dei simboli della città che non dorme mai, troneggia nel quartiere di Midtown, nel distretto di Manhattan, con i suoi 443 metri di altezza e i suoi 102 piani.
Sembra una giornata come tante altre, fino alle 9.40.
Nel grattacielo c’è meno gente che in settimana.
Il colonnello William Franklin Smith Jr, veterano della seconda guerra mondiale e pilota esperto, sta volando a bordo di un Mitchell B-25 della US Air Force, dal Massachusetts a Newark, nel New Jersey, per una missione di routine. Il suo compito è quello di trasportare del personale da una base all’altra.
Mentre è in avvicinamento all’area metropolitana, la torre di controllo dell’aeroporto La Guardia, invita il colonnello ad atterrare lì a causa delle condizioni meteo poco favorevoli; in questo modo eviterebbe di sorvolare i grattacieli di Manhattan. Non si vede nulla a causa dell’infittirsi della nebbia presente in zona già dalle prime ore del mattino.
Il pilota chiede comunque di poter proseguire per portare a termine la propria missione.

Sono le 9.40 quando arriva vicino all’Empire State Building. L’impatto è inevitabile, dato che il volo viene effettuato ad una altezza molto inferiore al minimo previsto sulla zona.
Il velivolo si schianta tra il 78° e il 79° piano sul lato nord, causando uno squarcio di circa 6 metri.
Le ali si strappano ed un motore viene scagliato sul tetto di un edificio vicino, mentre l’altro, con parte di un carrello, precipita attraverso il vano ascensore. L’esplosione dei serbatoi, carichi di benzina, causano un vasto incendio.
Il colonnello Smith muore nello schianto, insieme ad altri 2 membri dell’equipaggio. Con loro periscono anche 11 dipendenti del National Catholic Welfare Council, il consiglio creato dai vescovi nordamericani per gestire le attività assistenziali in tempo di guerra. I feriti sono più di 20.
Un giornalista accorso sul posto, Frank Adams, del New York Times, descrive così la scena del disastro: «L’aereo si è schiantato con un impatto terrificante lungo la parete nord dell’edificio sulla trentaquattresima strada; con le ali spazzate via e le fiamme arancioni brillante che si alzavano fino all’ottantaseiesimo piano del grattacielo, 1050 piedi sopra la Quinta Avenue, mentre i serbatoi di benzina esplodevano. Per un momento chi guardava da sotto ha visto la torre completamente illuminata; poi l’Empire State Building è scomparso di nuovo alla vista, nascosto dalla nebbia e dal fumo denso dell’aereo che bruciava».
Le persone presenti pensano inizialmente ad un attacco dell’aviazione giapponese, che ancora combatte in quei giorni nel Pacifico, nonostante la fine della Seconda Guerra Mondiale.

La struttura dell’Empire State Building limita la diffusione dell’incendio, domato dopo circa 1 ora dall’intervento dei pompieri.
Nonostante i danni, il lunedì successivo le attività lavorative riprendono. Tre mesi di lavoro cancellano completamente i segni dell’impatto.
A ricordare quel giorno resta una pietra mancante sulla facciata.
La vita riprende il suo corso normale fino al 11 settembre 2001, quando 2 attentati consecutivi cambieranno per sempre la vita della città che non dorme mai.