2 agosto 1980, ore 9.40
Un uomo con in braccio una bambina di 2 anni, appoggiata alla sua spalla mentre si succhia il pollice destro, e una donna con una piccola valigia in mano, attraversano la stazione di Bologna.
La piccola piange, silenziosamente, mentre il papà cerca di consolarla.
«Forse è meglio che non vada. Non mi sento di lasciarla in queste condizioni…» dice la donna guardando la piccina che ancora singhiozza, mentre le appoggia una mano amorevole sulla schiena.
«Non preoccuparti, starà bene, la febbre è già scesa, vedrai che è solo un raffreddore. Tu vai, stai con la nonna, fai quello che devi fare, e ci sentiamo tutti i giorni, ora di pranzo e ora di cena. Alla fine sono solo 3 giorni. Non ti fidi?! Dai dillo… non ti fidi…»

«Ma sì, mi fido, è solo che mi sembra di farle un torto a partire. Poi non sono tranquilla, con questa febbre che non passa.»
Ore 9.50, davanti ai cartelloni con gli orari dei treni.
«Da che binario parte?», chiede l’uomo.
«Aspetta…controllo. Ah sì, eccolo… binario 1, Ancona-Basilea. Speriamo sia in orario.»
È presto. La coppia si ferma su una panchina; la stazione è piena, sembra un brulicante formicaio.
Gente che va e viene, valige piene di vestiti, di ricordi. Quotidiani sotto braccio, qualche sigaretta fumata in fretta prima di partire.
L’orologio scandisce i minuti, mentre una voce, dall’altoparlante, annuncia un treno in arrivo da chissà dove, pronto a ripartire sul binario 3.
Ore 9.55, l’uomo e la donna, che ora ha in braccio la bambina che si è addormentata, chiacchierano. Lei non vuole partire, lui cerca di rassicurarla. Se la caveranno.
Lei è dubbiosa, si sente in colpa per quel viaggio. 3 giorni sono pochi ma la piccola ha la febbre e non ha dormito. Forse sono i denti, forse un colpo di calore.
Ore 10.00. Hanno deciso.
Vanno al binario 1. La gente passa, cammina.
Qualcuno corre. Qualcuno parte per le vacanze.

Famiglie. Amici. Sconosciuti. Volti abbronzati e felici.
Tante vite, un solo destino, che non sanno ancora che si compirà fra pochi minuti.
La donna sale sul treno, dopo aver stretto forte al petto la sua piccola, che ricomincia a piangere.
L’uomo la bacia sulla bocca, poi prende la bambina. Guarda la donna che si fa largo fra la gente su una carrozza di seconda classe. Trova posto, sistema la valigia e si sporge dal finestrino. Li guarda.
«Non sono tranquilla, quasi quasi resto.»
«Non preoccuparti, ci sentiamo appena arrivi.»
«Non so… mi sento in colpa, non l’ho mai vista così.
Ore 10.07, il tempo scorre lento.
L’uomo guarda la donna, stringe la bambina e le tocca la fronte. Scotta, ha le guance rosse. Piagnucola, poco convinta, sussurra… mamma…
Ore 10.10, altri minuti sono passati, altra gente sale sul treno, mentre qualcuno si ferma a chiacchierare sotto la pensilina.
Ore 10.12, l’uomo guarda nuovamente la donna.

«Hai ragione, parti domani. Pazienza per il biglietto, ma mi sembra sempre più calda», dice mettendo una mano sulla fronte della figlia.
La donna lo guarda sollevata, si gira, prende la valigia e facendosi largo fra la folla, scende dal treno.
Li abbraccia, prende la piccola, mentre l’uomo si occupa della valigia. Insieme si dirigono lentamente all’uscita della stazione, stretti in un abbraccio familiare, consolatore.
Ore 10.18, sono fuori. Fa caldo, il sole di agosto in città si fa sentire.
Camminano verso l’auto parcheggiata lì vicino. Per fortuna è all’ombra. Salgono tutti e tre, abbassando i finestrini.
Ore 10.23, l’uomo mette in moto l’auto. Sistema lo specchietto e il sedile, perché all’andata ha guidato la donna, che ora siede dietro con la figlia in braccio, che lentamente si addormenta.
Ore 10.25, stanno per uscire dal parcheggio quando si sente un tremendo boato. L’uomo si abbassa istintivamente, la donna anche, mentre con un braccio copre la sua piccola, che si sveglia fra le lacrime.
«Resta qui!», dice l’uomo uscendo dall’auto.
«No per favore, per l’amor di Dio, stai qui!» urla con voce stridula la donna, mentre cerca di consolare la bambina che piange.
L’uomo è già davanti alla stazione. Si ferma, con le braccia allargate lungo i fianchi, la bocca spalancata e una lacrima che solca la sua guancia destra.
Non sa ancora cosa sia accaduto, ma la stazione è distrutta. Sventrata.
Il parcheggio dei taxi è stato spazzato via.
Fumo, odore di bruciato. Polvere.

Urla. Alcune persone escono insanguinate dall’edificio, facendosi largo fra le macerie.
L’uomo è pietrificato. Ora piange.
Si volta, se ne va.
Torna alla sua auto, da sua moglie e sua figlia. Sale in silenzio, mentre la donna lo investe di domande. Ma lui non sente. Sono vivi. Sono salvi.
Mette in moto e guida verso casa, senza vedere la strada, la gente che si accalca. Le prime sirene si levano acute in tutta la città.
Nelle orecchie ha ancora il rumore della distruzione, nel naso l’odore della morte.
Solo più tardi scoprirà che si è trattato di un attentato.
Nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione, uno sconosciuto ha lasciato una valigia posizionandola a circa 50 centimetri d’altezza su un tavolino portabagagli, posto sotto il muro portante dell’ala Ovest dell’edificio. La valigia è imbottita da 23 kg di esplosivo, una miscela di 5 kg di tritolo e T4 detta «Compound B», potenziata da 18 kg di gelatinato, nitroglicerina a uso civile.
La deflagrazione è violentissima.
Il treno Adria Express 13534 Ancona-Basilea, quello da cui è scesa la donna, è fermo al 1° binario al momento dello scoppio. Viene investito in pieno; crollano anche 30 metri di pensilina, mentre il parcheggio dei taxi, difronte all’entrata, viene distrutto.

Muoiano 85 persone, 200 vengono ferite in modo grave, molti sono i mutilati.
L’uomo, la donna e la bambina sono a casa, al sicuro.
Il destino. Un miracolo.
Doveva andare così.
Sono passati 40 anni.
La bambina si è diplomata, fa la maestra elementare. Si è sposata. Ha tre figli, 2 maschi e 1 femmina. Ha tre gatti, una vita piena e serena.
La donna è mancata 10 anni fa, per una malattia che non perdona. Ha visto nascere i suoi nipoti, ha provato la gioia di stringerli al petto. Non ha mai dimenticato quel giorno, quel rumore, la paura.
L’uomo è diventato nonno. Vive sereno accanto alla sua unica figlia, ai nipoti.
Si gode la sua casa, il suo frutteto; pensa spesso alla moglie e ogni anno, il 2 agosto alle 10.25, ripensa a quel giorno, alla paura, alle lacrime, al sangue, alle sirene che fischiavano impazzite. Ripensa al destino benevolo che lo ha voluto vivo, testimone involontario di un attentato fra i peggiori del dopoguerra. Ripensa a quella febbre che ha salvato 3 vite.