La storia di Sarah Hegazi, attivista per i diritti di LGBT in Egitto

Tempo di lettura: 5 minuti

Sarah si è suicidata il 14 giugno 2020, a Toronto, dove abitava dopo aver ottenuto asilo politico dal 2018. Non ha mai superato il trauma delle torture e della violenza sessuale che ha subito mentre era in carcere per aver postato una fotografia in cui sventolava una bandiera arcobaleno...

«Ai miei fratelli: ho provato a sopravvivere ma ho fallito, perdonatemi. Ai miei amici: l’esperienza è stata dura e io ero troppo debole per lottare, perdonatemi. Al mondo: sei stato davvero crudele, ma io ti perdono.»

Queste sono state le ultime parole scritte da Sarah Hegazi, attivista egiziana per i diritti di LGBT.
Sarah si è suicidata il 14 giugno 2020, a Toronto, dove abitava dopo aver ottenuto asilo politico dal 2018.
Dopo 2 tentativi falliti, ci è riuscita, si è tolta la vita.
Nel 2010 si era laureata in Sistemi Informatici presso la Thebas Academy, continuando i suoi studi all’Università Americana del Cairo.
Attraverso l’apprendimento online, ha successivamente completato gli studi in “Femminismo e giustizia sociale”, “Metodi di Ricerca”, “Diversità e inclusione sul posto di lavoro” e “Comprensione della violenza” presso l’Università della California, Santa Cruz, la School of Oriental and African Studies (SOAS), l’Università di Pittsburgh e l’Università Emory.
Era una donna forte e combattiva.


La sua vita era cambiata radicalmente il 22 settembre 2017. Aveva 28 anni.
Quella sera con alcuni amici aveva partecipato a un festival di musica al Cairo.
Quando sul palco era salito il cantante della band Mashrou’ Leila, dichiaratamente gay, la folla aveva iniziato a sventolare delle bandiere arcobaleno. Sarah era fra loro. Un amico le aveva scattato una foto.
Quel concerto e la foto di lei che sventolava quella bandiera erano diventati in breve tempo un caso, sui social e in televisione.
Intervistata da Deutsche Welle, la giovane aveva raccontato che quel momento era stato per lei di grande gioia e liberazione, perché «mi stavo dichiarando in una società che odia tutto ciò che è diverso dalla norma».
Sommersa da commenti omofobi e pieni di odio, aveva ricevuto diverse minacce di morte.
Qualche giorno dopo era stata arrestata davanti ai suoi genitori e condotta in un centro di detenzione gestito dall’agenzia per la sicurezza nazionale egiziana, dove era stata accusata di “incitamento alla devianza e alla dissolutezza sessuale”.
Dopo la sua liberazione dichiarò: “Mentre mi arrestavano, in casa mia, davanti alla mia famiglia, un agente mi ha chiesto cosa pensassi della religione, perché non indossavo il velo e se fossi vergine o no. L’agente mi ha bendato nell’auto che mi ha portato in un posto che non dovevo riconoscere. Sono stata portata giù da una scala, senza sapere dove sarei arrivata. (…) Ho avvertito un odore nauseabondo, e ho sentito gemiti di dolore. Mi hanno fatta sedere su una sedia, con le mani legate e un pezzo di stoffa in bocca per motivi che non riuscivo a capire. Non vedevo nessuno, nessuno mi rivolgeva la parola. Un attimo dopo, il mio corpo si è contorto dalle convulsioni e ho perso conoscenza. Non so per quanto tempo sono rimasta esanime. Era una scossa elettrica. Sono stata torturata con l’elettricità. Hanno minacciato di fare del male a mia madre, se ne avessi parlato a qualcuno».


Una volta portata in cella era stata aggredita sessualmente, fisicamente e verbalmente da 3 detenute incoraggiate dalla polizia.
Le torture erano proseguite nella prigione di Qanatir, a nord del Cairo: «Sono stata tenuta in isolamento per molti giorni prima di essere trasferita in una cella con altre due donne, alle quali mi è stato proibito di rivolgere la parola. Per tutto il tempo mi è stato vietato di uscire alla luce del sole. Ho perso la capacità di stabilire un contatto visivo diretto con le persone».
E mentre Sarah era in carcere, sottoposta a sevizie e ad estenuanti interrogatori, nel paese era in atto una violenta repressione contro la comunità gay egiziana.
Almeno 75 persone erano state accusate degli stessi reati dopo il concerto e decine di loro condannate da uno a sei anni di prigione.
Finalmente nel gennaio del 2018 in seguito alle pressioni di alcuni diplomatici occidentali e sudamericani, a Sarah Hegazi era stata concessa la libertà su cauzione.
Ma il suo calvario era tutt’altro che finito.
Aveva perso il lavoro ed era stata ripudiata ad alcuni membri della famiglia.
Per questo era caduta in depressione.
Anche la gente continuava ad attaccarla per il suo gesto, che aveva apertamente dichiarato il suo orientamento sessuale e le sue idee. La paura di ritorsioni e di essere nuovamente arrestata l’avevano spinta a fuggire in Canada, dove fortunatamente aveva ottenuto asilo politico.
Poco dopo la sua partenza, la madre era morta. Il suo stato di salute si era aggravato, soffriva di continui attacchi di panico e di depressione, era affetta da disturbo da stress post-traumatico a seguito della tortura subita, un malessere che l’ha lentamente distrutta.
Era arrabbiata per quanto le era successo, ma desiderava anche tornare nel suo paese.
La paura di un nuovo arresto e il ricordo delle sevizie subite però l’avevano fermata.
Sarah è stata sepolta in una bara arcobaleno, dopo un funerale pubblico, nel Dixie Cementery di St. John il 22 giugno 2020.
Il mondo è stato davvero crudele con questa giovane donna, ma lei lo aveva perdonato….

BIBLIOGRAFIA

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