Cecilia Deganutti, la partigiana arsa viva dai nazisti

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Cecilia Deganutti fu arrestata dalle Sicherheitsdienst, torturata con l'elettricità e bastonata. Il 4 aprile, insieme ad altri 12 detenuti, fu prelevata dal carcere del Coroneo di Trieste, dove era detenuta e condotta presso la Risiera di San Sabba. Venne arsa viva insieme ai suoi compagni nel forno crematorio del campo...

Cecilia Deganutti era nata a Udine il 26 ottobre 1914, da una modesta famiglia dai sani principi morali e religiosi.
Viveva con suo padre, sua madre, la nonna e altri tre fratelli.
Era intelligente, simpatica, amava l’arte e la fotografia.
Durante la Prima Guerra Mondiale il papà di Cecilia era stato costretto a partire per il fronte.
La famiglia, vista la situazione sempre più difficile, aveva deciso di lasciare la propria casa per trasferirsi in una zona più sicura.

Mentre erano in diretti verso la nuova destinazione, un bombardamento tedesco li aveva fermati, fortunatamente senza ferirli. Cecilia non scordò mai quell’episodio.
Terminato il conflitto, con la sua famiglia aveva fatto ritorno a Udine.
Il primo periodo lo passarono a sistemare i danni subiti mentre Cecilia aveva ripreso gli studi. Ottenne il diploma presso L’Istituto Magistrale Arcivescovile.
Molto presto trovò lavoro come insegnante in alcune scuole elementari della zona.
Era apprezzata da tutti per la sua gentilezza e disponibilità.
Con l’inizio della Seconda Guerra Mondiale e la crescente tensione nazionale, Cecilia decise di rendersi attivamente utile per aiutare che aveva più bisogno.
Nel 1942, con la sorella Lorenzina, iniziò a frequentare un corso, che durò due anni, per prestare servizio nella Croce Rossa, diventando infermiera volontaria.
Dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre, nel 1943 i primi gruppi di partigiani che iniziarono la resistenza, si formarono sulle montagne del Friuli. Nello stesso periodo prestava servizio come crocerossina in un centro presso la stazione di Udine.

Da lì passavano i treni degli IMI, diretti verso i campi di concentramento nazisti.
Guardando quei ragazzi stipati sui convogli, feriti e disperati, decise di aiutarli prestando loro soccorso e in qualche caso aiutandoli a fuggire.
Il passo successivo fu quello di assistere i partigiani in difficoltà. Prestava soccorso ai feriti facendo la spola dall’ospedale di Udine, portando fuori il materiale necessario per poterli curare.
Si assentava spesso da casa e per questo doveva giustificarsi con i suoi genitori dicendo che era impegnata in opere di carità.
Proprio in quel periodo entrò in contatto con il gruppo attivo al Tempio Ossario, che dava assistenza ai ricercati, ai feriti e alle popolazioni della Carnia che vivevano in condizioni drammatiche.
Tra loro c’erano la partigiana “Giustina”, Lucilla Muratti, don Giorgio Vale e don Albino Perosa.
Nel giugno del 1944, con l’aiuto di Giustina, Cecilia fu arruolata nella Brigata Miglioranza. Il suo nome di battaglia era “Giovanna d’Arco”, ma altri la conoscevano come “Rita”.
Si rese utile anche al pronto soccorso istituito alle scuole Magrini, dove venivano condotti i feriti dei bombardamenti.
Il suo impegno nella Resistenza si intensificò, nonostante questo non impugnò mai un’arma.
Partecipò attivamente alla “missione Marco”, comandata dal tenente Carlo Alberto De Felici. Successivamente prese parte alla “missione Patriot”, in collaborazione con i soldati inglesi, comandata da Vinicio Lago.
Fra i partigiani del Friuli c’era anche un telegrafista noto come “Mauro”, che ebbe modo di conoscere personalmente.
Il compito di Cecilia era quello di portare ordini e informazioni ai vari gruppi impegnati nella Resistenza, da Udine verso la bassa friulana e di trasportare materiale di propaganda.

Purtroppo un giorno il telegrafista venne preso proprio mentre stava trasmettendo delle informazioni importanti. Venne arrestato dai nazisti che gli promisero salva la vita se avesse fatto i nomi dei suoi compagni.
“Mauro” scelse il tradimento e organizzò una trappola per Vinicio Lago e Cecilia.
L’incontro avvenne all’interno di un bar. All’ultimo momento il telegrafista, preso dal rimorso, avvertì i due giovani che stavano per essere arrestati dai soldati nazisti in borghese presenti all’interno del locale.
Fortunatamente la giovane conosceva una via di fuga. Portò il suo compagno in una casa di via Sottomonte da cui sapeva sarebbero potuti fuggire attraverso un lucernario.
Conosceva bene quel luogo perché lì aveva prestato soccorso più di una volta ad un partigiano ferito.
Mentre Venicio scappò sapendo che rischiava comunque di essere arrestato il giorno dopo, Cecilia decise di tornare a casa per passare un ultima serata con i suoi genitori e la sua famiglia. Sapeva quale sarebbe stata la sua sorte, ma cercò comunque di godersi quegli ultimi istanti di serenità.
Nel frattempo don Giorgio Vale, venuto a conoscenza del pericolo che la ragazza stava correndo, cercò di convincerla in tutti i modi a fuggire, ma lei era irremovibile. Se non l’avessero trovata i soldati se la sarebbero presa con i suoi cari, era meglio restare: «Alzarsi? Fuggire? Nemmeno per sogno! Ci son babbo e mamma: arresteranno loro, tormenteranno loro. Il metodo della rappresaglia è noto. No. Papà e mamma non potrebbero sopportare una notte in carcere. Né io potrei sopportare il pensiero di saperli tormentati per me».
Per salvaguardare la sua famiglia consegnò a don Giorgio dei documenti compromettenti che teneva nascosti in un vaso. L’uomo la salutò e uscì di casa, ma mentre stava tornando alla canonica si accorse di essere seguito. Fortunatamente riuscì a nascondersi e a bruciare quelle carte prima che finissero nelle mani sbagliate.
Poco dopo il coprifuoco re uomini e una donna delle Sicherheitsdienst si presentarono la porta dei Deganutti. La ragazza fu arrestata con l’accusa di spionaggio, davanti ai suoi genitori increduli, e condotta all’albergo Croce di Malta in attesa di essere trasferita.

La mattina seguente venne portata alle carceri di via Spalato. Interrogata per tutto il giorno, alla sera le fu inviato un sacerdote, che le chiese di fare i nomi dei suoi compagni per avere salva la vita. Cecilia non parlò.
Quando la perquisirono, le trovarono in tasca una piccola immagini di Giovanna d’Arco, che probabilmente utilizzava come tessera di riconoscimento partigiana.
Il giorno successivo fu condotta in piazza Oberdan, dove rimase nei sotterranei del centro di detenzione per 40 giorni.
Venne torturata con la corrente elettrica, con colpi di bastone in tutto il corpo, tanto da lesionarle in modo grave gli occhi. Le veniva chiesto insistentemente di fare i nomi dei partecipanti alla Brigata Osoppo, ma lei non cedette. Mai.
La sua famiglia, che non era a conoscenza di quanto le stava accadendo, continuò a cercarla, mentre la loro abitazione era costantemente tenuta sotto controllo da agenti della SS in borghese, nella speranza che qualcuno dei compagni di Cecilia si facesse vivo.

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Successivamente venne trasferita al carcere del Coroneo di Trieste, dove rimase per circa 30 giorni. Solo la sorella Lorenzina ebbe la possibilità di vederla e di parlare con lei, un’ultima volta, dalla finestra della Cella in cui era rinchiusa. Il 4 aprile, insieme ad altri 12 detenuti, fu prelevata e condotta presso la Risiera di San Sabba. Venne arsa viva insieme ai suoi compagni nel forno crematorio del campo.
Così finì tragicamente la vita di questa giovane donna, che preferì sacrificarsi piuttosto che abbandonare la propria famiglia o tradire i suoi compagni.

BIBLIOGRAFIA

  • Palmiro B. Boschesi, Il chi è della Seconda Guerra Mondiale, Vol.1, Milano, Mondadori Editore, 1975
  • Paola Del Din “Renata”, Cecilia Deganutti, Udine, Associazione Partigiani “Osoppo Friuli”, 1995.
  • Francesca Ferin, Il contributo dato dalle donne della “Osoppo” alla guerra di liberazione in Friuli, Udine, Associazione Partigiani “Osoppo Friuli”, 1997.
  • Luigi Raimondi Cominesi, Cecilia Deganutti, partigiana, in Quaderni della resistenza n. 7, Udine, Associazione Nazionale Partigiani Italiani, 1996.

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