Ognuno lascia qualche traccia del suo passaggio per il mondo, ma non tutti sanno riconoscerle. Le tracce che ho lasciato io sono state per molto tempo confuse, disperse tra molte altre, poco definite. Se nel 1937 fosse già esistita l’abitudine di registrare gli spettacoli televisivi, ne avrei lasciata una nettissima. Sì, perché quell’anno l’invenzione della televisione fu presentata all’Esposizione Universale di Parigi e, tra gli spettacoli che fu possibile ammirare sul video, c’era anche quello di una ballerina che sembrava adolescente, anche se aveva solo tredici anni. Sonya Olys era il nome con cui mi presentai quella volta, perché era più facile da ricordare e, soprattutto, perché non mi denunciava immediatamente come ebrea, dato che allora anche in Francia essere ebrei era abbastanza rischioso.
Il mio nome vero, Sonya Suzanne Olschatezky, oltre a identificarmi come ebrea, dichiarava senza nasconderle le mie origini geografiche, che erano tedesche e russe, anche queste pochissimo apprezzate nella Francia del tempo.
Invece io mi sono sempre sentita francese. Nemmeno ebrea francese: francese e basta. Ebrea, mi ci hanno fatto sentire, finché ho deciso che tanto valeva esserlo sul serio, ma a modo mio. Non di quelli rassegnati alla loro sorte, ma di quelli che vendono cara la pelle. E l’ho venduta cara.
Quella trasmissione che si disperse nell’etere senza lasciare traccia fu, in un certo senso, un avvertimento di ciò che mi sarebbe successo dopo. Come dice una canzone, sono morta con altri cento, passata per il camino, e adesso sono nel vento.

A preparare l’offensiva del 1944 con cui gli Alleati riconquistarono la Francia, contribuirono anche diverse donne francesi o inglesi, specificamente addestrate in Inghilterra, che furono paracadutate a più riprese dietro le linee nemiche e si avvalsero della collaborazione della Resistenza locale per nascondersi, spostarsi e trasmettere informazioni. Il numero di queste donne non è stato ancora definitivamente stabilito: Simon Mawer, che ha dedicato a esse un romanzo ben documentato (“La ragazza che cadde dal cielo”) parla di cinquantatré. Altre fonti consultate sul web indicano un numero inferiore, quarantadue. È possibile che la discrepanza si debba a una diversa valutazione di servizi effettivamente svolti. C’è invece concordanza sul numero di quelle che pagarono con la vita la loro partecipazione alla lotta contro l’orrore nazista: quelle che risultano catturate e giustiziate sono dodici.
Altre che erano state catturate sopravvissero alla guerra, tranne due che morirono di malattia durante la prigionia. Una morì di meningite mentre era operativa, prima di essere catturata. Una morì in un incidente che coinvolse il mezzo che la stava trasportando.
Diversi monumenti, in Inghilterra e in Francia, ricordano queste donne cadute combattendo, in gran parte sotto i trent’anni. Alcune di esse sono diventate davvero famose, come la coltissima principessa indiana Noor Inayat Khan e la bella, giovanissima vedova di guerra (e madre di una bambina piccola) Violette Szabo, insignita della George Cross alla memoria e ricordata anche nel film “Scuola di spie” del 1958, nel quale fu interpretata da Virginia McKenna.
Tuttavia, il principale monumento a queste eroine, inaugurato nel 1991 a Valencay, nella Valle della Loira, omette un nome importantissimo, che non è stato mai nemmeno onorato con decorazioni alla memoria o altri riconoscimenti. A dire il vero, della partecipazione alle operazioni e della effettiva identità di Sonya Olschanezky non si è nemmeno avuta certezza fino al 1956, quando un’inchiesta condotta dai giornalisti Anthony Terry ed Elizabeth Nichols portò al suo riconoscimento.
Gli stessi nazisti che la uccisero non erano sicuri di chi fosse. Il monumento di Valencay non menziona Sonya perché non fu un’agente segreta addestrata e trasportata dall’Inghilterra, ma una partigiana reclutata sul posto, che non si limitò a trasmettere informazioni ma partecipò anche ad azioni di sabotaggio.
La storia personale di Sonya Olschanezky, per quanto breve, parte da molto lontano. Il padre Eli, originario di Odessa, si trovava in Germania, dove aveva studiato ingegneria, quando scoppiò la Grande Guerra, nel 1914. Come cittadino russo, avrebbe dovuto essere internato, ma il sostegno della comunità ebraica di Lipsia gli permise di cavarsela con un provvedimento di libertà vigilata. All’epoca era già fidanzato con una ragazza di ascendenze bielorusse e rumene, Helene, che avrebbe sposato nel 1916 e con la quale si sarebbe stabilito a Chemnitz. Qui nacquero i tre figli della coppia: Enoch nel 1917, Tobias nel 1919 e infine Sonya, il 25 dicembre 1923.

Gli Olschanezky erano ebrei non praticanti, che osservavano soltanto le feste della loro comunità e per il resto vivevano secondo principi laici. Eli, che aveva lavorato come rappresentante di biancheria, finì per fondare e dirigere una piccola azienda di produzione e distribuzione in questo settore, guadagnando bene per alcuni anni. Poi, nel 1926, un tentativo fallito di espandersi in Romania, con tanto di trasferimento a Bucarest, fu l’inizio di una serie di problemi economici, che nel 1930 indussero Eli a vendere tutte le proprietà e a trasferire attività e famiglia in Francia, a Parigi, dove poteva contare sull’appoggio di uno dei suoi soci. Purtroppo, questo socio era un incapace o un ladro, perché la sua gestione, mentre Eli era molto impegnato in frequenti viaggi di lavoro, portò l’azienda al collasso e alla chiusura, nel 1934. Eli Olschanezky si ritrovò così rovinato proprio mentre cominciava a soffrire di problemi di salute, cadde in una depressione profonda e smise definitivamente di lavorare.
Furono i figli a prendersi la responsabilità di mantenere la famiglia. I due maschi lasciarono la scuola a andarono a lavorare come camerieri in un albergo. Sonya, invece, sembrava destinata a percorrere altre strade. Fin da piccola aveva praticato la danza classica ed era dotata di un talento che non passava inosservato. Già molto prima della trasmissione televisiva sperimentale, nel 1933, si esibiva in spettacoli per bambini al Théatre du Petit Monde. La breve fama seguita all’Esposizione Universale le procurò contratti che le permisero di guadagnare qualcosa posando come modella per foto pubblicitarie.
Ma non poteva andare avanti a lungo così e anche lei finì per abbandonare sia la scuola sia la danza, per andare a lavorare al servizio di una famiglia come babysitter.
La minaccia nazista era già evidente alla fine degli anni ’30, in particolare per quegli ebrei come gli Olschanetzky, che erano apolidi (tranne la madre, che aveva un passaporto rumeno) e in quanto tali soggetti alla protezione internazionale, ma non si sapeva fino a quando, vista la virulenza dell’antisemitismo propagandato dagli esponenti dei partiti francesi di destra. Per questi ultimi, l’unica categoria più abietta degli ebrei era rappresentata dagli “ebrei stranieri”. Quando lo scoppio della guerra sembrò imminente, tra il 1938 e il 1939, Enoch e Tobias Olschanezky si arruolarono nell’esercito francese, anche perché lo svolgimento del servizio militare avrebbe garantito loro la cittadinanza. Tobias si era già ulteriormente francesizzato, cambiando il proprio nome in “Serge”.
Enoch e Serge furono presi prigionieri e deportati in Germania dopo la disfatta dell’esercito francese, nella primavera del 1940. Senza di loro, Sonya restò l’ultimo sostegno dei genitori. Le condizioni degli ebrei dopo l’invasione peggiorarono gradualmente, come del resto avvenne anche per tutti i francesi non collaborazionisti. La salute di Eli ricevette il colpo di grazia dalle privazioni e l’uomo morì nell’aprile del 1942.

La morte lo sottrasse alla deportazione. Qualche ebreo aveva cominciato a sparire già dalla metà del 1941 ma, nel 1942, la caccia agli ebrei si intensificò. Nel giugno di quell’anno, i gendarmi francesi si presentarono all’indirizzo degli Olschanezky, nel 13° arrondissement, con un ordine di cattura per Eli e Sonya. Dovettero prendere atto che il padre era morto, ma si portarono via la figlia, che fu internata nel campo di Drancy.
Da qui, in genere, dopo tre o quattro settimane, gli ebrei venivano spediti ai campi di sterminio. Sonya però riuscì a farsi trattenere più a lungo, perché trovò un lavoro nel campo occupandosi dei bambini separati dai genitori grazie alla sua esperienza di babysitter.
Nel frattempo, la madre escogitò un ingegnoso escamotage per liberarla. Poiché aveva dei cugini pellicciai che erano stati cooptati dai tedeschi per la produzione di cappotti pesanti destinati alle truppe sul fronte russo, li convinse a chiedere il rilascio di Sonya in quanto dipendente della loro azienda e quindi persona in possesso di capacità professionali utili allo sforzo bellico. Ottenuta questa certificazione, Sonya fu rilasciata: fu una dei pochissimi ebrei transitati per Drancy a non finire nelle camere a gas, anche se il suo destino non sarebbe stato la salvezza, ma una semplice proroga lunga due anni.
Tornata a casa, anziché pensare a nascondersi o a scappare, dichiarò alla madre che sarebbe entrata nella Resistenza antinazista. L’esperienza di Drancy l’aveva segnata. Non si aspettava che nessuno muovesse un dito per salvare lei e quelli come lei, e questo significava che era arrivato il momento di agire.
Le circostanze in cui Sonya entrò nella Resistenza sono controverse.
Secondo alcune testimonianze, i fratelli Enoch e Serge, che erano riusciti a fuggire e a tornare in Francia fermandosi ad Annecy, vi sarebbero entrati prima di lei, che li avrebbe seguiti, una volta tornati a Parigi. Qui, gli Olschanezky si sarebbero divisi, andando a vivere ognuno per proprio conto in modo da non compromettersi a vicenda. Addirittura, dei tre, nessuno conosceva l’indirizzo degli altri e le comunicazioni avvenivano tramite la madre, senza incontri diretti. Sotto l’identità di Suzanne Ouvrard, Sonya si stabilì in una pensione del 9° arrondissement e trovò lavoro come barista in un locale vicino all’Opera.
Secondo un’altra versione, a introdurre Sonya nella Resistenza sarebbe stato, già prima del ritorno dei fratelli, un uomo che aveva conosciuto casualmente in quanto amico di famiglia dei suoi ex datori di lavoro, l’imprenditore ebreo svizzero Jacques Weil, nato a Berna nel 1893.
Weil era innamorato di lei ma era soprattutto un uomo abituato a viaggiare e un poliglotta, che da tempo si era messo al servizio dell’Intelligence Service inglese per praticare attività di spionaggio. All’inizio, si era appoggiato alle attività di un amico, Jean Worms, nato nel 1909, un ebreo francese proprietario di una compagnia assicurativa e di una salumeria ad Asnières, che era diventata la base da cui trasmettere i messaggi in codice.
Gli operatori radio che trasmettevano i messaggi erano molto esposti alla caccia di nazisti e collaborazionisti. Come tutti gli agenti, dovevano spostarsi in continuazione, portandosi dietro l’ingombrante e pesante valigia dell’attrezzatura. Il fatto che in quel periodo molti andassero in giro con delle valigie (perché impegnati in qualche commercio o in qualche trasferimento) non impediva che i controlli fossero frequenti. I nazisti facevano poi pattugliare le vie delle città da camion che montavano antenne rivelatrici di onde radio, per localizzare la provenienza dei segnali. Ogni trasmissione che eccedesse la mezz’ora di durata poteva portare alla scoperta dell’operatore. Peraltro, trasmettere non era affatto facile: bisognava inviare un primo messaggio, attendere una risposta che dimostrasse la presenza di un altro operatore in ascolto, e poi battere i propri messaggi più volte, perché l’utilizzo di codici cifrati e le possibili interferenze potevano portare facilmente a errori o fraintendimenti. Ogni operatore aveva una sua personale chiave di cifratura basata su un testo imparato a memoria, come una poesia o una canzone.
Sia Worms sia Weil erano preoccupati per le proprie famiglie. Worms in modo particolare, perché era sposato e aveva un bambino molto piccolo, mentre la famiglia di Weil era composta dalla madre e da una sorella nubile. Dopo l’arresto della segretaria di Worms, Suzanne, che sopravvisse all’internamento a Fresnes ma portandone addosso le conseguenze per tutta la vita, Worms non se l’era più sentita di rischiare e, nell’estate del 1941, se n’era andato con la famiglia in Svizzera.
Weil non si era perso d’animo e aveva riorganizzato la sua rete di informazione e trasmissione.
La sua base era in rue de Paradis, nel 10° arrondissement, e la sua sicurezza era affidata a due pittoreschi personaggi che sarebbero stati a loro agio nel film “Bastardi senza gloria”, un erculeo ebreo ceco e un mafioso marsigliese, che a tempo perso facevano fuori tutti i nazisti in cui si imbattevano casualmente.

Comunque sia, Sonya Olschanezky entrò nell’organizzazione di Weil con il nome in codice di Tanya e dimostrò subito un forte senso di responsabilità e una grande capacità di organizzazione, finendo per diventare la compagna e la principale collaboratrice di Weil. A questo passaggio contribuì anche la decisione di Weil di trasferire la madre e la sorella in Svizzera, quando le retate di ebrei da parte dei nazisti si intensificarono, nel 1942.
Weil era abbastanza abile e spregiudicato da farsi passare per collaborazionista agli occhi dei nazisti. Sotto l’identità fittizia di Jacques Walter, aveva frequenti contatti con esponenti di rilievo dell’amministrazione nazista di Parigi e la sua perfetta conoscenza del tedesco gli permetteva di apprendere dettagli militari dai tanti soldati tedeschi cui offriva da bere nei locali più frequentati.
Nell’autunno del 1942, Weil fu contattato da Andrée Borrel, una ragazza francese nata nel 1919, fuggita in Inghilterra dopo la disfatta e tornata in Francia dopo essere stata addestrata come agente segreto. La Borrel apparteneva alla rete denominata “Prosper” dello Special Operations Executive (SOE), un’organizzazione creata dagli inglesi per sostenere la Resistenza nei territori invasi dai nazisti. A capo della rete Prosper c’era un ufficiale inglese, Francis Suttil. La prassi era che gli agenti del SOE non avessero contatti con le spie dell’Intelligence Service, quindi Suttil chiese a Weil di creare una propria rete, che fu denominata “Robin” anche se in altri documenti è conosciuta come “Juggler”.
Intanto, anche Worms era tornato a Parigi, dopo essere stato convinto dagli inglesi a riprendere a collaborare.
Inizialmente, la rete Robin fu molto attiva su diversi fronti: fornì informazioni sugli orari e i convogli ferroviari, corruppe guardie per far scappare persone arrestate e compì diversi sabotaggi di treni e fabbriche. Uno di questi, in uno stabilimento che produceva cinture, fu portato a termine proprio da Sonya, che si era fatta assumere come operaia.
Nell’estate del 1943, la rete Prosper venne scoperta e smantellata, forse in seguito al tradimento di un agente doppiogiochista, Henri Dérincourt. Suttil fu arrestato insieme alla Borrel e a diversi altri collaboratori, ma l’elemento di maggiore spicco, Noor Inayat Khan riuscì a scampare alla retata e continuò a trasmettere finché non fu presa a sua volta, quattro mesi dopo.
Il cerchio si stringeva e anche i membri della Juggles erano in pericolo.
Weil, Worms e il loro collaboratore Gaston Cohen erano soliti riunirsi al ristorante “Chez Tutulle” di rue Troyon, 17° arrondissement: poco dopo l’arresto di Suttil, Weil arrivò tardi a un appuntamento con Worms e vide l’amico che veniva caricato su un’auto con le insegne della Gestapo. Worms sarebbe stato successivamente deportato a Flossenburg e ucciso nel marzo del 1945.
Proprio grazie alla sua falsa identità di Jacques Walter e ai suoi contatti tra i tedeschi, Weil scoprì che i nazisti erano benissimo informati sia sulle attività sia sui membri delle reti Prosper e Robin.
A quel punto, ebbe la certezza che qualcuno stesse facendo il doppio gioco.

Allora decise di riparare in Svizzera, finché era in tempo. Cercò di convincere Sonya a seguirlo, ma nessun argomento riuscì a smuovere la ragazza, che si limitò ad accompagnarlo ad Annecy prima di salutarlo definitivamente. Per tutto il resto della vita, durata fino al 1969, Weil avrebbe rimpianto di non essere riuscito a portare con sé quella ragazza “forte, discreta, intelligente, che non conosceva la paura”, come la descrisse in libro del 1959. Non si sarebbe mai sposato.
Sonya aveva detto a Weil di non poter abbandonare la madre, ma in realtà le sue motivazioni dovevano essere più profonde. A una domanda di una giornalista circa il coraggio prossimo all’incoscienza con cui la sorella si mise al servizio della lotta armata, il fratello Serge, sopravvissuto alla guerra, rispose: “Non lo trovava né piacevole né divertente, ma sentiva che era suo dovere farlo”.
Rimasta senza la guida di Weil, Sonya prese contatto con Gustave Bieler, un agente franco-canadese nato nel 1904 che era a capo di un’altra rete del SOE, denominata “Musician” e dedita con particolare successo ai sabotaggi. Tramite Bieler trasmise molti messaggi a Londra, compreso quello che comunicava la cattura di Noor Inayat Khan.
Bieler finì però per diventare piuttosto imprudente e, nel gennaio del 1944, fu arrestato in un caffè insieme alla sua collaboratrice Yolande Beekman, una donna anglo-svizzera nata nel 1911. I due sarebbero stati poi uccisi nel settembre successivo, lui a Flossenburg e lei a Dachau insieme a Noor Inayat Khan e ad altre due agenti catturate, Eliane Plewman e Madeleine Demarment.
Sonya fu sicuramente tradita da qualcuno.
Dopo la cattura di Bieler, le fu detto di prendere contatto con il suo sostituto, che si sarebbe presentato con il nome in codice “Tiburce” in febbraio. Un agente così chiamato fu, in effetti, inviato in Francia, ma venne ricevuto dal capo della rete “Archdeacon”, Joseph Placke, a metà gennaio. Sonya ricevette, non si è mai capito da chi, un messaggio che la invitava a incontrarlo al ristorante “Golden Sun” di square de la Trinité, 9° arrondissement, il 21 gennaio.
La madre di Sonya si insospettì: si era parlato di metà febbraio, come mai il nuovo agente si presentava con tanto anticipo? Consigliò alla figlia di non presentarsi, ma Sonya non aveva alternative, perché dopo la cattura di Bieler non aveva più nessuno che le fornisse istruzioni e chiarimenti.
Finì che la madre la accompagnò all’appuntamento, fermandosi al bar di fronte al ristorante per tenere d’occhio la strada. Era una giornata insolitamente soleggiata e Sonya aspettava sulla terrazza del ristorante. La Gestapo arrivò sicuramente da dietro, perché la madre non si accorse di nulla. Un’ora dopo aver visto entrare Sonya nel ristorante, la signora Helene andò a chiedere ai camerieri se l’avessero vista e i camerieri risposero che quattro uomini l’avevano portata via su un’auto scura.
La signora Helene restò abbastanza lucida da decidere di avvisare gli altri figli di spostarsi altrove prima che la sorella potesse rivelare dove erano.
Andò da Enoch, che lavorava come cameriere in un club, e gli consigliò di sparire dalla circolazione. Enoch, però, doveva recuperare delle carte importanti dal suo armadietto al club, quindi si recò ugualmente al lavoro, comunicando che aveva un contrattempo e doveva andare via subito. Tuttavia, prima di uscire, incontrò il suo capo, che gli riferì di un uomo che lo aveva cercato e che avrebbe telefonato più tardi. Enoch decise allora di aspettare la telefonata, sperando che arrivasse da qualcuno in grado di dargli notizie di Sonya. Invece della telefonata, arrivarono gli scagnozzi della Gestapo e lo arrestarono insieme a un suo amico. In seguito, l’amico fu rilasciato: il suo nome non è stato tramandato ma, secondo Jacques Weil, poteva essere lui il traditore di Sonya e di Enoch. Serge Olschanezky, invece, non ne era convinto. L’uomo, comunque, non fu mai accusato ufficialmente di nulla.
Enoch fu deportato ad Auschwitz, dove morì il 18 aprile 1944.
Intanto Sonya era già stata portata a Fresnes, dove aveva ritrovato Andrée Borrel e altre sei donne arrestate, insieme alle quali fu presto trasferita a Karlsruhe. Non era una situazione tanto brutta, perché erano affidate a Josef Kieffer, un ufficiale del controspionaggio tedesco che non si era mai dimostrato un assassino fanatico e sanguinario (sarebbe stato poi giustiziato nel 1947, ma si tratta di uno dei rari casi in cui sono stati espressi molti dubbi sulla legittimità della condanna a morte di un nazista). Purtroppo non durò a lungo, perché nel luglio del 1944 Kieffer ricevette, direttamente da Berlino, l’ordine di trasferire quattro delle prigioniere a Naztweiler, un campo di prigionia che era stato aperto da tempo in Alsazia. Altre prigioniere sarebbero state trasferite a Dachau e altre a Ravensbruck.
Come molte operazioni di eliminazione, anche questa avvenne in gran segreto. Solo dopo la guerra, un’altra agente del SOE, Vera Atkins, sarebbe riuscita a identificare tre delle vittime: Andrée Borrel, Vera Leigh (nata nel 1903) e Diana Rowden (nata nel 1915).
Sonya, non essendo stata addestrata in Inghilterra, era la più difficile da identificare. Per molto tempo, infatti, gli inglesi pensarono che “Sonya Olschanetzky” fosse una identità fittizia di Noor Inayat Khan.
Le testimonianze decisive furono quelle del medico belga Albert Guérisse, detenuto politico, e di Franz Berg, un delinquente comune che aveva già accumulato 22 precedenti penali prima di essere rinchiuso a Natzweiler. Successivamente, emerse la testimonianza di un altro medico e prigioniero politico belga, Georges Boogaerts, che passò delle sigarette ad Andrée Borrel e ricevette da questa un sacchetto con degli effetti personali, attraverso le finestre della cella in cui la ragazza era chiusa, che affacciavano sull’infermeria. Infine, un altro agente del SOE tenuto prigioniero a Natzweiler, il pittore Brian Stonehouse, vide le donne abbastanza tempo da dipingere successivamente a memoria un quadro ad acquerello che le ritrae, oggi esposto allo Special Forces Club di Londra.
A Natzweiler, la camera a gas e il forno crematorio, nei quali sono state uccise e fatte sparire 87 persone tra il 1943 e il 1945, erano abbastanza distanti dal campo, nel quale si svolgevano soprattutto attività agricole, per cui non era facile trovare testimoni.
Dopo mezza giornata di viaggio, nel primo pomeriggio del 6 luglio 1944, le quattro donne arrivarono a Natzweiller e furono chiuse in celle separate. Verso le sei, Peter Straub, l’ufficiale delle SS incaricato di camera a gas e forno crematorio, disse a Franz Berg di accendere il forno alla massima potenza per le nove e mezza.
Il dottor Werner Rhode, delle SS, ordinò che gli portassero le donne, una alla volta.
Le quattro agenti prigioniere dovettero spogliarsi e distendersi sul lettino dell’ambulatorio, mentre Rhode praticava loro un’iniezione, spiegando che si trattava della vaccinazione contro il tifo, necessaria prima di andare a lavorare nei campi. In realtà si trattava di fenolo, che al giusto dosaggio le avrebbe fatte morire in pochi minuti.
Tuttavia, Rhode era stato avvertito in ritardo del trasporto delle prigioniere e la sua scorta di fenolo era piuttosto esigua. Le dosi risultarono essere insufficienti a uccidere le donne, riuscirono solo a far perdere conoscenza a tre di loro.
La quarta era Andrée Borrel, una ex operaia di 24 anni, robusta e coraggiosissima. Secondo la testimonianza di Franz Berg, che dalla sua cuccetta poteva vedere parte del corridoio tra l’ambulatorio e il forno, le donne svenute furono trascinate sul pavimento tirandole per le caviglie e infilate nel forno con i piedi in avanti. Forse Vera Leigh, Diana Rowden e Sonya Olschanezky non sentirono nulla, perché morirono bruciate senza riprendere conoscenza. Invece Andrée Borrel rinvenne mentre la stavano trascinando sul pavimento e gridò e lottò a lungo prima che i tedeschi, almeno in quattro, riuscissero a cacciarla all’interno del forno.

Il mattino dopo, tutti videro sul volto di Peter Straub i graffi che gli erano stati inflitti dalla ragazza nel corso della lotta.
Werner Rhode fu condannato e giustiziato subito dopo la fine della guerra.
Il comandante del campo di Natzweiler, Fritz Hartjenstein, fu pure condannato a morte ma poi la pena venne commutata in ergastolo: morì in carcere dopo pochi mesi. Diversi altri nazisti in servizio a Natzweiler ricevettero pesanti condanne detentive. Peter Straub e Franz Berg furono condannati a morte e impiccati per aver partecipato al linciaggio di un aviatore inglese appena preso prigioniero.
Oltre al gruppo di Natzwiler e a quello di Dachau di cui si è detto prima, un terzo gruppo di agenti donne fu trucidato a Ravensbruck, nel febbraio del 1945: comprendeva Denise Bloch, Lilian Rolfe, Violette Szabo e Cecily Lefort. Un’altra agente catturata, di nome Yvonne Rudellat, morì nel 1944 a Bergen-Belsen per malattia e anche per le conseguenze delle ferite riportate durante la cattura. Un’altra ragazza ancora, Muriel Byck, morì a Romorantin, una città a sud di Orléans, per un attacco di meningite.
In alcuni documenti si fa menzione di un’altra agente che sarebbe stata catturata e sarebbe morta di malattia in prigionia e di un’ultima figura femminile che sarebbe morta accidentalmente durante il trasferimento dall’Inghilterra alla Francia, ma nemmeno ricerche più approfondite hanno permesso di identificarle.