Rizana Nafeek, quando partì con un passaporto falso per andare in Arabia Saudita in cerca di lavoro, aveva solo 17 anni.
Era nata a Mutur, un piccolo villaggio nel distretto di Trincomalee, nella zona nord-orientale dello Sri Lanka.
Era il 2005.
Trovò un impiego come domestica.
I modesti guadagni che riusciva a racimolare le avrebbero permesso, con sacrificio, di aiutare la famiglia.
Un giorno, un brutto giorno, il figlio neonato dei suoi datori di lavoro, morì improvvisamente, mentre lei prestava servizio. Una morta bianca.
Dolore e rabbia portano a formulare una tremenda accusa: Rizana era sicuramente un’assassina. Doveva pagare.
La giovane fu arrestata.
Incapace di difendersi, disperata e sola, Rizana era in balia degli eventi.
Fu messa in carcere, con l’opinione pubblica convinta della sua colpevolezza, in un paese come l’Arabia Saudita in cui “le leggi sono molto al di sotto di ogni norma di legalità e procedura investigativa universalmente accettate”, secondo quando riportato a suo tempo dall’Asian Human Rights Commission (Ahrc).
Gli appelli della famiglia e della società civile furono ignorati.
Rizana venne condannata a morte.
Un processo ingiusto, poco trasparente e una confessione firmata senza conoscerne il testo, segnarono il suo destino fin dall’inizio.
Rizana entrò nel braccio della morte nel 2007.
Altri appelli della famiglia e delle organizzazioni umanitarie, ma nulla. Nessuno pagò per il ricorso in appello e dopo 6 anni di attesa arrivò il giorno dell’esecuzione.
Il 9 gennaio 2013, poco dopo il sorgere del sole, a Damami, città a 400 km a ovest di Riyad, Rizana Nafeek fu condotta davanti al suo boia, vestito di bianco. La attendeva con l’arma in mano, pronto per decapitarla.
Rizana si mise in ginocchio e dopo pochi istanti tutto finì.
La sua storia, fatta di tristezza e povertà, si concluse nel peggiore dei modi.
Ogni recriminazione successiva è inutile, il risultato non cambia.
Cerchiamo solo di ricordarla, per non permettere all’oblio di cancellare il suo nome.
Rizana, come la piccola Asha, di cui ho già raccontato la storia, sono un esempio drammatico di come nascere donna in certi luoghi è una sfortuna che può portare alla morte.
