Serpeggiando fra i vicoli del centro di Roma, dietro Corso Vittorio Emanuele, tagliando Campo dè Fiori e infilando i vicoli che portano verso via Giulia, quasi nascosto in uno dei palazzi, ci aspetta il massimo prodigio di un grande illusionista.
Ci inoltriamo oltre Campo de’ Fiori, dopo aver lanciato un’occhiata deferente alla statua di Giordano Bruno qui bruciato per aver detto la verità, passiamo ammirati in Piazza Farnese intimoriti dall’imponente facciata michelangiolesca del palazzo omonimo, e infiliamo il laterale Vicolo de’ Venti per sbucare un attimo dopo su una delle tipiche deliziose piazzette romane, quasi cittadine dentro la città, dominata dall’ennesimo Palazzo. Ma se tutti i palazzi antichi di Roma sono comunque opere d’arte, questo è un palazzo davvero speciale.
È Palazzo Spada.

Qui dentro Francesco Castelli detto il Borromini (sublime architetto del barocco seicentesco) ha avuto modo di mettere in pratica le sue capacità di illusionista dello spazio nel modo più libero e con i risultati più eclatanti.
Gliene diede modo il cardinale Bernardino Spada, proprietario e committente dei lavori, che nel ristrutturare tutto l’edificio gli affida il riassetto di una parte di giardino laterale, da poco acquisita, con la precisa intenzione di avvalersi delle capacità di manipolazione prospettica del geniale architetto, essendo la creazione di spazi illusori anche una delle sue passioni (in altri punti del palazzo se ne possono trovare altre create con effetti pittorici).
Il Borromini stavolta non deve risolvere problemi particolari di costrizione spaziale come in altre occasioni. Qui ha tutto lo spazio e tutte le condizioni che desidera. Ed ha le idee chiarissime. In meno di un anno, progetta e realizza il suo più spettacolare gioco di prestigio.
È una galleria coperta da una volta a botte, che mette in comunicazione due ali del giardino. Sulle pareti laterali coppie di colonne, sulla volta sezioni di arco intervallate con cassettoni a rilievo. Sul pavimento della galleria, semplici mosaici bicromatici, quasi a scacchiera.
In fondo, all’altra uscita, un’altra parte del giardino, un po’ troppo lontana per capirne bene natura e dimensioni.

Il prodigio è tutto nelle linee e nel modo in cui il nostro occhio le legge, le interpreta, e soprattutto le percepisce. Se ci si mette di fronte alla galleria e si immagina di avanzare per percorrerla, ci si fa una certa idea di quanto ci vorrà ad attraversarla tutta. Se avessimo un marchingegno che potesse tradurre matematicamente le misure che il nostro occhio percepisce e trasmette al cervello, questo ci direbbe che la galleria è lunga all’incirca 30 metri.
Ma se davvero ci mettessimo in moto e la attraversassimo (cosa purtroppo non più possibile perché, ahimè, non è comunque più permesso entrarci dentro), il mondo improvvisamente impazzirebbe.
Chi scrive ha avuto la fortuna di entrarci molti anni fa, quando ancora bastava chiedere la cortesia ad un custode, e può quindi almeno tentare di descrivere l’effetto della breve passeggiata dentro la galleria.
Accade che già al primo passo la realtà si deforma, e ad ogni passo la volta si abbassa, il pavimento si alza, le colonne si stringono intorno a noi, inclinando le basi e i capitelli in modo asimmetrico. Improvvisamente siamo Gulliver nel paese di Lilliput. Dopo neanche dieci passi siamo all’altro capo, ma per uscire quasi dobbiamo abbassare la testa.

La galleria è in realtà lunga 8,8 metri. L’arco di entrata è alto quasi sei metri, quello di uscita poco più di due.
Tutta la struttura, e quindi tutti i punti di riferimento, corrono lungo le linee della prospettiva verso il loro punto di fuga, ma vi corrono molto più in fretta di quanto dovrebbero. La galleria è un disegno in prospettiva riportato da due a tre dimensioni ma comprimendone drasticamente una. Mantenendo il punto di vista esatto, ogni cosa è perfettamente al suo posto. Lasciandolo, tutti gli elementi cambiano dimensione. La geometria inganna i sensi, lo spazio è illusorio. Come estrema metafora, probabilmente, le grandezze terrene sono immaginarie, e ben misera cosa rispetto all’infinito verso cui il punto di fuga della prospettiva tende, ma mai raggiunge.

L’illusione creata dal Borromini qui è totale, un gioco perfido, perfetto ed inquietante, una dimostrazione scientifica inequivocabile della relatività del nostro sguardo sulle cose. Un concetto che qualunque arte non si stancherà mai di riprendere, ampliare, utilizzare e sfruttare in tutti i modi, non solo l’architettura o la pittura, ma il teatro, la fotografia, il cinema (basti pensare alle scenografie di tanti film che riproducono in studio le più strabilianti e sconfinate prospettive) e poi ancora la pubblicità e le arti grafiche.
Insomma, qualunque disciplina che abbia a che fare con la vista e con il dialogo continuo fra i nostri occhi e il nostro cervello farà sempre i conti con le intuizioni del geniale architetto illusionista.

Francesco Borromini – Galleria prospettica – Palazzo Spada (1652-1653)
Una versione di questo articolo è pubblicata nel libro dell’autore: “Il Genio e l’Architetto”