Elsa Stefani è nata il 21 aprile 1921.
Quest’anno ha compiuto 100 anni e ha conservato il suo sorriso limpido e sincero.
La sua storia come “fatina buona dei prigionieri” iniziò dopo l’8 settembre 1943.
La firma dell’armistizio cambiò le sorti di molti soldati italiani, che diventarono improvvisamente IMI, internati militari italiani; furono catturati su tutto il territorio per essere poi trasportati in Germania.
Elsa nel ’43 aveva 22 anni. Era bella, giovane, sfrontata con i tedeschi che spadroneggiavano nella zona di Bolzano. Non aveva paura di loro, dei loro mitra, delle urla.
Quei soldati nemici lei li affrontava a testa alta, incoraggiava i prigionieri a non perdersi d’animo, dava loro un pezzo di pane, chiedeva se avessero bisogno di qualcosa.

Insieme ad altre donne Elsa iniziò una resistenza pacifica. Raccoglieva i messaggi lasciati per strada dai militari catturati, per far avere notizie alle famiglie.
I giovani fermati venivano radunati nei pressi del torrente Talvera, per poi essere condotti nel lager di Resia.
Lei era lì, appena poteva, pronta a dare aiuto, a passare una coperta, un maglione, qualche sigaretta. A donare un sorriso, conforto a chi non sapeva quale sarebbe stata la sua sorte, a chi aveva perso la speranza.
Il 10 settembre la sua strada si incrociò con quella di Mario Mainardi, un giovane di 33 anni, originario di Torrile, paese vicino a Parma, catturato con tutto il reggimento.
Mario vide Elsa tra la gente. In un istante decise che avrebbe affidato a lei il suo messaggio.
Si guardarono, lui la chiamò.
Con fatica la ragazza si fece largo tra una folla, in lacrime per i propri figli.
I soldati tedeschi urlavano, spingevano e picchiavano chiunque si muovesse. Ma Elsa non aveva paura, continuava a sgomitare tra la gente accalcata.

Anche Mario avanzava tra i suoi compagni.
Ora a dividerli c’erano solo i soldati della Wehrmacht.
Elsa arrivò fino a loro, si fermò nel momento in cui un soldato le puntò un fucile allo stomaco, per impedire che avanzasse ancora.
Pochi istanti per agire: Mario prese un foglio bianco, con una banconota all’interno, con sopra scritto l’indirizzo della famiglia. Si infilò tra la gente, sempre più ammassata, mentre Elsa dall’altra parte allungò un braccio e prese dalle mani del giovane il suo messaggio.
Mentre lei si allontanava lui le gridò: «Ti scongiuro, in nome di Dio, fallo avere a mia madre. Dille di non avere paura. Di non darsi pena per me. Diglielo».
«Lo farò, stanne certo…», ma lui non l’aveva sentita.
Elsa sparì tra la folla, mentre Mario la guardava.
Era giunto il momento di andare.
Tutti i prigionieri furono caricati su un carro bestiame con destinazione Stalag VI C/7, a Bathorn, 6 km a ovest del villaggio Oberlangen, in Emdland-Emsland, nel nord-ovest della Germania. La zona era scarsamente popolata e paludosa. Le condizioni di vita nel campo erano durissime, il tasso di moralità altissimo, a causa del tifo, della cancrena, delle infezioni.
Gli IMI presenti nella struttura erano già circa 10.000 quando Mario arrivò.
Il lavoro forzato, la mancanza di cibo e la violenza, scandivano la vita dei prigionieri.
Mario resistette, fino al 29 giugno 1945 quando il campo fu liberato dagli americani.
Riuscì a tornare a casa in agosto.
A quel messaggio e a quella ragazza non aveva più pensato.
Dopo i primi giorni passati a riprendersi, Mario scoprì, parlando con la madre, che pochi giorni dopo che aveva affidato il suo messaggio a quella giovane sconosciuta, a casa sua era arrivata una lettera: una busta, con un messaggio scritto da una ragazza di nome Elsa Stefani e una banconota.

In poche righe aveva raccontato di quel giorno tra la folla, delle urla dei soldati, di come tra la gente accalcata avesse incrociato proprio gli occhi di Mario, del biglietto preso di nascosto, delle sue parole.
Passarono gli anni, la vita riprese, ma il ricordo di quel gesto rimase sempre nel cuore di Mario.
Cercò la ragazza ma all’indirizzo indicato sulla busta non c’era più.
Nel giugno del 1959 decise di scrivere all’Alto Adige, giornale locale, per provare a rintracciare Elsa. La voleva rivedere per ringraziarla.
Il 17 luglio al giornale arrivò la risposta di Elsa: «Ho letto la lettera da lei fatta pubblicare dall’Alto Adige, e, pur essendo passato molto tempo mi ha commosso il suo ringraziamento indirizzato alla mia città e a me. In quei tristi giorni, mi recavo alla stazione a salutare i soldati che partivano per la dura prigionia ed in due diverse occasioni ho avuto in consegna del denaro: una somma da spedire a Pavia, e una somma da spedire a Parma; una di 300 lire, l’altra di 1.000 lire. Le famiglie mi hanno risposto ringraziando ed a lungo ho conservato questi pensieri di gratitudine. Se una delle somme corrisponde alla cifra da lei consegnatami, può dire di aver ritrovato chi lei chiama troppo gentilmente la sua benefattrice. Sono contenta che conservi di Bolzano un ottimo ricordo ed ancora oggi sono felice di aver portato una nota di gioia alla sua famiglia».
Elsa non aveva più pensato a quel biglietto. Ne aveva raccolti tanti, insieme a piccoli oggetti, gettati dai vagoni da chi partiva per il campo di prigionia. Li aveva spediti tutti, per far arrivare alle famiglie un messaggio di speranza. Per ognuno di loro aveva trovato parole di conforto, un pensiero per aiutarli ad affrontare quella prova durissima.
Elsa è una delle tante fatine buone dei prigionieri, un esempio di coraggio contro la violenza di quei giorni.
Conosciamo la sua storia grazie a Mario, che non ha mai dimenticato quella giovane donna che tra la folla aveva scelto di aiutare proprio lui…