In un suo scritto Simon Wiesenthal dice: «C’è dunque qualcosa di orribile che io ancora non conosca? Tutte le atrocità e gli orrori che un cervello malato può inventare mi sono ben noti. Li ho provati sulla mia pelle, li ho visti nel lager».
Il viaggio nella morte che i prigionieri dei campi di concentramento compivano, iniziava subito, appena varcata la porta. Una volta dentro perdevano identità, valore umano, sensibilità verso ciò che ogni giorno accadeva.
Camminavano tra i cadaveri, respirano la morte, la desideravano per tornare liberi.
Quello che noi sappiamo ci arriva dalle testimonianze di chi è sopravvissuto, perché ha lottato, oppure semplicemente perché ha avuto più fortuna. Ma dai lager neppure i sopravvissuti sono mai usciti, perché hanno dovuto fare i conti coi ricordi per tutta la loro vita.
Come si moriva nei campi di concentramento? Le camere a gas erano un mezzo di sterminio massivo, rapido ed efficace. Le vittime venivano spinte nelle “docce” a colpi di frustata o di baionetta. Lo Ziklon b faceva il resto, restituendo corpi coperti di vomito, dai volti deformati dal dolore, dalla pelle viscida e fragile, che al primo tocco si disfaceva.
Nessuno era al sicuro nel campo. La costante paura di morire, di essere un bersaglio, creavano un clima di generale terrore.
Bastava un nonnulla per diventare la prossima vittima.
Tra i sistemi più brutali per giustificare un prigioniero vi era lo strangolamento a mani nude, l’impiccagione a nodo di canapo lento o per i piedi, così da procurare una morte più lenta e dolorosa.
Più rapidi erano il colpo alla nuca, il tiro al bersaglio con fucili di precisione o la fucilazione, tranne quando si ricorreva al budello, uno stretto corridoio tra due alte staccionate che terminava in un avvallamento sabbioso dove avvenivano le esecuzioni. A volte i prigionieri rimanevano nel budello anche due o tre giorni, fino a che si riteneva che il numero fosse sufficiente per procedere all’esecuzione.
Uno tra i peggiori sistemi consisteva nel costringere la vittima a scendere in una fossa riempita di calce bianca, nella quale veniva diretto un getto d’acqua che ne provocava l’ebollizione.
I medici utilizzavano il fenolo, anche per testarne gli effetti, iniettato nel cuore o negli occhi.
A Mauthausen si facevano precipitare le vittime dall’alto della cava.
Altre svoltesi ricorrevano gancio da macellaio, al quale i prigionieri venivano appesi per il mento.
I cani ero un’altra arma efficace di offesa. Aizzati contro chi tardava a schierarsi per l’appello, erano usati anche per aggredire le donne incinte, che poi finivano, spesso ancora vive, nei forni crematori.
Abusi sessuali, estenuanti sessioni di esercizi fisici, freddo, massacranti turni di lavoro, esperimenti medici, poco cibo, malattie, parassiti, infezioni, sporcizia, torture, bastonate, il carcere nel carcere, pungolature con lunghi aghi ai genitali. L’elenco potrebbe continuare ancora, ma credo possa bastare. L’esito era uno solo: la morte, veloce o lenta.
È nostro dovere raccontarlo e ricordare che ancora oggi il mondo ospita molti lager perché non abbiamo imparato nulla dal passato…
