Qualche settimana fa mi sono occupata del Blocco 11 di Auschwitz. Ho tralasciato di entrare nei dettagli della parte riguardante le punizioni e le torture, per non rendere ancora più pesante un articolo che già si era rivelato impegnativo da scrivere e da leggere.
Credo sia giunto il momento di affrontare l’argomento, per dare completezza al discorso.
Una delle punizioni corporali preferite dalle SS era la fustigazione. Veniva impiegata come mezzo per dare un esempio agli altri internati, costretti ad assistere al supplizio dei propri compagni, in silenzio, sull’attenti.
Su uno speciale cavalletto, alla vittima erano inferte 25 frustate, che spesso arrivavano a 75. Il punito doveva contare ogni colpo ad alta voce; se sbagliava, si ricominciava da capo. Se sveniva, si attendeva che si riprendesse e si ricominciava. I più fortunati erano portati in infermeria, dove ricevevano le poche cure disponibili. Qualcuno sopravviveva, molti morivano per le infezioni.
Le altre punizioni erano scelte a seconda della trasgressione commessa.
Se un prigioniero era “svogliato sul lavoro” veniva privato delle ore di riposo, oppure sottoposto ai cosiddetti esercizi punitivi “sport”, che prevedevano esercitazione oppure immobilità (per ore).
Se la trasgressione era particolarmente grave, era previsto il trasferimento ad altri campi, ad esempio alla miniera di pietre di Mauthausen.
Le celle speciali, quelle nei sotterranei di cui ho parlato nel precedente articolo, erano utilizzate soprattutto per i prigionieri politici e agli oppositori del regime, a loro era riservato un trattamento “di riguardo”.
Spesso veniva utilizzato, come mezzo “educativo”, l’impiccagione sul piolo, che consisteva nell’appendere il prigioniero con le mani legate dietro la schiena in modo che potesse appena toccare la terra con la punta delle dita dei piedi. La punizione durava qualche ora.
Una menzione particolare va fatta alla
“compagnia in punizione”.
Rudolf Franz Ferdinand Höss, comandante del campo, stabiliva personalmente quali lavori dovessero essere assegnati alla compagnia. In genere erano i peggiori, i più duri. I prigionieri assegnati alla compagnia non riposavano mai: morivano letteralmente di stanchezza, sotto la stretta sorveglianza dei soldati. Erano trasportati sui luoghi di lavoro dai loro compagni detenzione. Alcuni arrivavano a destinazione morti, altri sorretti a braccia da chi ancora resisteva.
Le fucilazioni erano all’ordine del giorno. Avvenivano all’interno del cortile centrale del blocco, come già detto la volta scorsa.
Si procedeva per i motivi più disparati: per punire i delitti che avvenivano nel campo, per rappresaglia per l’Azione del Movimento di Resistenza del Paese, per l’azione politica prebellica, per diffondere il terrore, in modo che nessuno si facesse venire la voglia di scappare. C’è da chiedersi con quali forze potessero tentare un’evasione…. Ma qualcuno ci provava e coloro che ci riuscivano, quando venivano catturati, finivano appesi ad una forca trasportabile, eretta di solito davanti alla cucina.
Ci sarebbe molto altro da raccontare di questa prigione nel lager. Un luogo di paura dove l’annientamento dell’individuo avveniva appena al di là della porta che chiudeva il blocco.
Morire nel lager.
Morire nel Blocco 11.
Morire per essere liberi… solo grazie ai sopravvissuti oggi possiamo raccontare questi fatti terribili, per cercare di far capire al mondo che mai più si devono commettere gli stessi orrori.
