Visto dall’alto Auschwitz, durante la seconda guerra mondiale, poteva sembrare un enorme campo di lavoro, diviso efficientemente in zone in cui si svolgevano le attività diurne e zone in cui gli internati si ritiravano per il riposo. Tra i primi a sorvolare il lager furono gli inglesi.
Credettero di vedere una perfetta area lavorativa, con fabbriche ben organizzate, dagli alti camini fumanti. In realtà, quelle che scambiarono per industrie impegnate nello sforzo bellico, erano fabbriche di morte, in cui venivano cremati i corpi di coloro che erano detenuti nei lager.
Ma questo ancora il mondo non lo sapeva con certezza.
Prima di finire nel vento, come polvere da disperdere, coloro che erano destinati alla camera a gas venivano selezionati con cura al loro arrivo sui treni della morte, oppure dopo mesi di detenzione nei campi di concentramento, periodo che li aveva consumati nel corpo e nello spirito. Chi era considerato abile al lavoro finiva in una fila, chi non lo era in un’altra.

Donne e bambini, vecchi, disabili (se non ritenuti interessanti per la sperimentazione), malati, erano i soggetti che venivano condotti alle docce. Per purificarvi, per allontanare il pericolo dei pidocchi… questo raccontavano le guardie e i sonderkommando ai condannati, in maniera che nessuno opponesse resistenza o avesse una reazione; quello che ottenevano era un corteo rassegnato di persone stremate da viaggi fatti in condizioni proibitive.
Nudi, infreddoliti, piangenti, sporchi, senza identità, entravano nelle camere a gas stretti gli uni agli altri. Ne uscivano morti, soffocati da un gas letale, tra le feci, le urine, il sangue, il vomito, con la pelle liquefatta, con il volto stravolto dalla morte. Chi li raccoglieva doveva poi trasportarli, con carriole o a mano verso i forni, per la cremazione, perché di quel corpo non rimanesse più neppure una traccia, se non quello che veniva recuperato per essere riutilizzato, come denti in oro, capelli, protesi o dentiere.
Ad Auschwitz i forni erano 4. Dal loro alto camino in mattoni usciva incessantemente uno spesso pennacchio di fumo, insieme alle fiamme, che diffondeva giorno e notte un nauseabondo odore di carne bruciata. Chiunque entrasse al campo lo sentiva e ne veniva avvolto.
Nei forni venivano inseriti quanti più corpi era possibile contemporaneamente. I cadaveri da smaltire erano tanti, i turni incessanti, per cui si cercava di ottimizzare ogni carico.

Chi ci lavorava lo faceva per poco tempo, qualche mese, poi veniva sostituito perché non potesse raccontare a nessuno ciò che aveva visto, a quale destino erano condannati inconsapevolmente tutti loro. Soggiornava in una zona speciale del campo, isolato dagli altri prigionieri, con razioni alimentari a parte. Era testimone della fine, del vero scopo per cui i lager erano stati costruiti, per questo era necessario sostituirli periodicamente.
Quando la mole di lavoro era tanta, i cadaveri da smaltire si accumulano, si ricorreva alle fosse comuni; ben presto si dovette cambiare metodo, il forte odore che di diffondeva risultava insopportabile ai paesi vicini. Come fare? La soluzione più rapida fu quella di scavare delle grandi fosse profonde alcuni metri, nelle quali bruciare i cadaveri che non potevano essere smaltiti nei forni. Comparvero così le fosse ardenti, visibili dall’alto, ai margini del campo.
Caricati su una carriola, i morti venivano gettati lì, come spazzatura da buttare. Quando le camere a gas erano piene, i prigionieri venivano condotti direttamente alle fosse ardenti, dove venivano giustiziati sommariamente con un colpo di pistola e lasciati cadere fra le fiamme, a volte ancora vivi.
Gli orrori dei lager sono noti a tutti, ma ancora molto c’è da dire. Ciò che conosciamo lo dobbiamo alle testimonianze coraggiose e dolorose dei Primo Levi, delle Liliana Segre, delle sorelle Bucci, di tutti coloro che non hanno taciuto l’olocausto e lo hanno raccontato come monito al mondo.
Il ricordo di quelle fosse ardenti, dei forni sempre pieni, dei pennacchi di fumo, dei milioni di vittime perite per mano di nazisti e fascisti dovrebbe aiutarci ad affrontare il futuro senza più commettere gli sessi errori.