Hermann Wilhelm Göring nacque a Rosenheim, il 12 gennaio 1893. Di lui ci sarebbe molto da raccontare, a partire dal suo impegno attivo come aviatore durante la prima guerra mondiale, che gli permise di entrare a far parte della celebre squadriglia da caccia di Manfred von Richthofen, passato alla storia come il Barone Rosso. Un vero e proprio eroe in patria. Ma oggi vi vorrei raccontare dei suoi ultimi giorni di vita.
Facciamo un piccolo passo indietro. Göring, finita la prima guerra mondiale, entrò a far parte del partito nazista. La simpatia fra lui e il Führer fu immediata. In breve tempo divenne luogotenente di Adolf Hitler. Fu uno degli uomini chiave nella prima fase dell’ascesa del partito nazista, distinguendosi per le sue capacità decisionali ed organizzative. La scalata ai vertici del partito fu veloce, fino a ricoprire la carica di supremo di Maresciallo del Reich. A lui fu affidata la creazione della nuova della Luftwaffe, la costituzione della polizia segreta, le attività repressive e il sistema concentrazionario e di sterminio.
Ma la ricchezza e il potere gli diedero alla testa; cominciò a spendere, seguendo una vita dissoluta e stravagante, pensando ad accumulare beni materiali più che al successo del piano espansionistico del partito. Perse rapidamente credibilità di fronte a Hitler, contrariato soprattutto per l’incapacità dimostrata dall’aviazione tedesca di proteggere la Germania dalle incursioni aeree degli alleati. Caduto in disgrazia, si ritirò nella sua residenza di Carinhall, da lui fatta costruire in onore della prima moglie defunta, abbandonandosi ad eccessi di vario genere che ne destabilizzarono la salute sia fisica sia mentale. Faceva la sua comparsa solo durante le occasioni ufficiali, sfoggiando una linea sempre più arrotondata. Gli anni successivi furono molto intensi.
Dopo la disfatta del Reich e l’arrivo degli alleati, il destino di Hermann Göring e di una parte dell’alta gerarchia nazista cambiò radicalmente.
Il suo arresto avvenne il 9 maggio 1945. Si rese immediatamente conto che il trattamento di favore che si aspettava, quale rappresentante in carica del governo del paese sconfitto, non sarebbe arrivato. Venne trattato come un qualsiasi altro prigioniero, un criminale di guerra.
Fu trasferito in un primo momento al campo di Ashcan. Il 10 agosto arrivò a Norimberga per essere processato.
Alla sbarra degli imputati Göring si mostrò sempre rilassato ed elegante. Non perse mai la fierezza che lo contraddistingueva quando era un grande aviatore.
Ma la cosa che più mi sorprende, guardando le foto di repertorio, è l’espressione del suo viso.
Non perse mai il sorriso, seppur accennato, non mostrò mai preoccupazione, oppure ansia, oppure rimorso… Il rimorso mai. Rimase fino all’ultimo convinto che tutto ciò che era stato fatto, facesse parte di un giusto disegno, della politica di espansione della Germania in Europa e dell’affermazione della superiorità della razza ariana che egli stesso condivideva e di cui si era fatto, nelle prime fasi di vita del partito, portavoce e promotore.
In cella si comportò sempre come se fosse stato ospite di un albergo scadente.
Il processo iniziò il 20 novembre 1945. Alla sbarra, oltre a Göring, erano presenti altri 21 imputati, quelli che erano stati arrestati e non erano riusciti a fuggire mimetizzandosi fra la gente comune.
Il procedimento durò 218 giorni, fino al 31 agosto 1946.
Durante il primo giorno, tra i vari argomenti trattati, furono esposti i capi d’accusa, quattro in totale:
cospirazione, mediante la preparazione di un piano comune per l’esecuzione degli altri tre crimini successivi;
crimini contro la pace, per aver diretto guerre d’aggressione contro altri Stati, scatenando il secondo conflitto mondiale e commettendo la violazione di ben 34 trattati internazionali;
crimini di guerra, per aver compiuto una serie di violazioni del diritto internazionale bellico contenuto nella Convenzione dell’Aja, per esempio attraverso i trattamenti disumani nei confronti di popolazioni civili e prigionieri di guerra (torture, schiavitù, saccheggi ecc.);
crimini contro l’umanità, per aver commesso atti d’estrema atrocità nei confronti di avversari politici, minoranze razziali e d’interi gruppi etnici (il genocidio degli ebrei).
Ogni giorno al suo arrivo in aula si mostrava sicuro di sé, stringeva mani, elargiva pacche sulle spalle e poi si accomodava al suo posto, come un re detronizzato destinato ad uno scranno scomodo. Accanto a lui alcuni personaggi di spicco, ma mancavano i grandi burattinai del nazismo: Hitler, Himmler e Goebbels erano tutti deceduti. Eichmann e Mengele erano riusciti a fuggire in Sudamerica, grazie a passaporti farli e ingenti quantità di denaro, ma questa è un’altra storia.
Durante la lettura dei capi d’accusa, Göring non smise mai di parlottare con gli altri imputati. Ad ogni parola della pubblica accusa reagiva con sorrisi e qualche volta con smorfie di disapprovazione. Il suo unico pensiero durante il procedimento fu quello di far capire ai presenti che il numero due del nazismo era sempre stato lui e non Hess, ma sappiamo tutti che se quest’ultimo non fosse fuggito anzitempo lui non avrebbe mai ricoperto quella carica.
Il 29 novembre tutti gli imputati a Norimberga ebbero un sussulto in aula: furono proiettate le immagini della liberazione dei campi di concentramento. La maggior parte di loro, compreso Göring, ignoravano cosa fosse avvenuto all’interno dei lager: se ne erano sempre disinteressati, troppo presi da sperperi e vita mondana. Per la prima volta il fiero aviatore ebbe timore per la sua sorte.
Il 30 settembre 1946 il tribunale emise la sua sentenza: 11 condanne a morte, che sarebbero state eseguite tramite impiccagione, 2 ergastoli, 3 assoluzioni, 1 non luogo a procedere per motivi di salute, 1 condanna a 10 anni, 1 condanna a 15 anni e 2 condanne a 20 anni. Udita la sentenza, il gerarca chiese di essere fucilato, come si conveniva per i soldati. Il tribunale rifiutò con decisione la richiesta.
L’esecuzione sarebbe avvenuta il 16 ottobre, all’alba.
Verso la mezzanotte del 15 ottobre, Hermann Wilhelm Göring decise di suicidarsi. Ingerì una capsula di cianuro, la cui provenienza è ancora oggi dubbia. Una teoria vorrebbe tutti i pezzi grossi del Reich in possesso di una pasticca di veleno da utilizzare in caso di necessità. Un’altra ipotesi avvalorava la tesi secondo la quale la sostanza letale sarebbe stata introdotto nella cella grazie all’aiuto un tenente dell’esercito americano, Jack Wheelis, detto “Tex”, con il quale il prigioniero aveva intrattenuto rapporti cordiali.
Sembra che “Tex” avesse avuto per Göring un occhio di riguardo, facendogli arrivare alcuni effetti personali e delle lettere scritte dalla moglie, ricevendo in cambio un orologio, un paio di guanti bianchi e una foto con autografo che riportava la seguente dedica: «A un cacciatore del Texas, con auguri di buona caccia».
Prima di morire indossò un pigiama in seta nero e scrisse due lettere, una alla famiglia e una ai giudici del processo, in cui spiegava, con fierezza, come era riuscito a trafugare il veleno, non menzionando mai l’eventuale aiuto esterno ricevuto. La mattina dell’esecuzione fu trovato cadavere, steso nel suo letto, con la solita espressione di superiorità.
Il boia che lo aspettava con trepidazione, vide dissolversi la possibilità di impiccare un uomo importante come Hermann Göring. La sua delusione si tradusse in rabbia, che sfogò senza nascondersi sui successivi condannati (ma questo l’ho già raccontato).
Il suo corpo, ancora avvolto nella seta nera, fu mostrato ai testimoni presenti, per evitare che si potesse pensare che fosse riuscito a sfuggire al suo destino.
La verità circa la sua morte non emerse mai; le sue spoglie furono cremate e le ceneri disperse nel torrente Conwentzbach. Molti altri si fecero avanti, negli anni successivi, rivendicando la paternità di quella capsula di cianuro.
Così morì uno dei cattivi del Terzo Reich, non tra i peggiori, quelli vissero liberi ancora per molti anni, mentre altri, vilmente, avevano scelto di non affrontare la responsabilità delle loro azioni criminali.
