23 maggio 1992, ore 17: 57.
L’autostrada A29, all‘altezza di Capaci trema.
Un boato tremendo, fumo, polvere, sangue, morte…
400 kg di tritolo distruggono il corteo della scorta di Giovanni Falcone. Nella strage muoiono il giudice, la moglie, Francesca Morvillo e tre uomini della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Il resto della scorta rimane ferita.
La mafia ha ucciso un uomo giusto, un uomo forte, un uomo che sa che prima o poi qualcuno lo ucciderà, è solo questione di tempo. La mafia ha ucciso il simbolo della legalità.

Un‘esecuzione organizzata nel dettaglio. Falcone viaggia sulla seconda auto colpita dall’esplosione. Nella prima ci sono i tre uomini della scorta periti sul colpo. La Croma marrone su cui viaggiano viene sbalzata a decine di metri di distanza, in un giardino di olivi.
La seconda auto, una Croma bianca, si schianta contro un muro di asfalto e detriti alzato dalla deflagrazione.
A guidare il mezzo è il giudice Falcone stesso. Seduta accanto a lui c’è la moglie. Non portano le cinture di sicurezza e a causa dell’urto vengono proiettati con violenza contro il parabrezza.
Falcone ha chiesto uno strappo alla regola, ha voluto guidare, una volta tanto, al posto dell’autista, Giuseppe Costanza, che con riluttanza lo ha accontentato. L’uomo, che viaggia sul sedile posteriore, si salva per miracolo, riportando lesioni permanenti, che lo accompagneranno per tutto il resto della vita, ricordandogli quei tragici momenti.
La terza Croma, di colore azzurro, riporta gravi danni, ma i tre uomini che la occupano, Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo, sono vivi. Lo shock è immenso. Scendono dall’auto, con le orecchie che fischiano, storditi, spaventati; camminano fra i detriti, nel fumo e arrivano all’auto di Falcone.
Il giudice e la moglie sono vivi, feriti gravemente ma coscienti. L’agente Costanza è privo di sensi, ma vivo.
La paura che i sicari vengano a finire il lavoro è tanta. I tre agenti si schierano a difesa dell’auto. Dalle case vicine arrivano i primi soccorsi.
Giuseppe Costanza viene estratto dall’auto; Francesca Morvillo dal finestrino. Falcone è intrappolato, ci vogliono i Vigili del Fuoco per liberarlo. Arrivano anche le ambulanze, altre auto della Polizia e dei Carabinieri.
La corsa in ospedale non serve. Giuseppe Falcone e la moglie non sopravvivono alle ferite riportate.

Nel carcere dell’Ucciardone i mafiosi detenuti festeggiano.
L’Italia piange la perdita di un uomo che ha saputo dare, insieme al suo gruppo e al Giudice Paolo Borsellino, una nuova spinta alla lotta contro Cosa Nostra.
Oggi ricordiamo quel tragico giorno. Ricordiamo il suo sorriso, la sua voce calda e ferma durante le interviste, l’impegno e il sacrificio compiuto per servire uno Stato che lo ha tradito, che non lo ha protetto in modo adeguato.
Il silenzio, la complicità, i giochi di potere hanno ucciso Giovanni Falcone, la moglie e la sua scorta.
Chi è sopravvissuto quel giorno è stato dimenticato. Ricordo un‘intervista rilasciata da Giuseppe Costanza, in cui racconta la sua vita dopo l’attentato. Le sue parole dovrebbero risuonare come una sconfitta per tutti noi: “Avrei preferito essere morto, perché così almeno qualcuno si sarebbe ricordato di me; invece sono sopravvissuto, e sono scomodo a tutti, anche a quello Stato che ho servito…”
Vorrei chiudere con una frase di Giovanni Falcone: “Ci troviamo di fronte menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia. Esistono forse punti di collegamento tra i vertici di Cosa Nostra e centri occulti del potere che hanno altri interessi . Ho l’impressione che sia questo lo scenario più attendibile se si vogliono capire davvero le ragioni che spingeranno qualcuno ad assassinarmi.”

A luglio dello stesso anno abbiamo pianto ancora….