Alle origini della diffusione dei santuari

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La morte di un neonato è un fenomeno biologico che comporta forti, ed importanti, implicazioni sociali e culturali per tutte le popolazioni. La diffusione del Cristianesimo, in Europa Occidentale, ha contribuito a rendere omogenee le pratiche funebri...

La morte di un neonato è un fenomeno biologico che comporta forti, ed importanti, implicazioni sociali e culturali per tutte le popolazioni. La diffusione del Cristianesimo, in Europa Occidentale, ha contribuito a rendere omogenee le pratiche funebri. L’avvento della nuova religione comporta una radicale modifica delle credenze sino allora esistenti in Europa. Il diffondersi del sacramento del battesimo crea un problema in relazione ai bimbi nati morti. Nascendo morto non riceve il battesimo, motivo per il quale non può accedere al mondo dei giusti.
Il Santo Battesimo è il fondamento di tutta la vita cristiana, è la porta che apre l’accesso agli altri sacramenti. I genitori potevano, a fatica, accettare la morte prematura del figlio, ma non la sua esclusione dalla comunità cristiana. Da cosa deriva questa paura? Possiamo ritenere che alla base di questo, complesso, timore della morte vi sia l’idea che solo nella Chiesa vi è salvezza e solo con il battesimo si entra nella chiesa. La tristezza nel cuore dei genitori era infinita, e senza cura, poiché perdevano l’amore della propria vita e soffrivano perché consapevoli che non si sarebbero incontrati nell’aldilà. Questa visione la possiamo ritrovare nelle parole di Sant’Agostino: “È dunque giusto dire che i bambini che muoiono senza il battesimo si troveranno nella condanna, benché mitissima a confronto di tutti gli altri. Molto inganna e s’inganna chi insegna che non saranno nella condanna”. Questo pensiero, relativo alla morte dei bambini ed al luogo nel quale si troveranno a trascorrere l’eternità, dove trova fondamento?
Agostino usa questo linguaggio, che non ammette repliche, perché lo trova nelle parole di San Paolo. Dobbiamo effettuare nuovamente un salto nel tempo. San Paolo, in un sermone, non lascia spazio al dubbio: “Sento che la questione è profonda e riconosco che le mie forze non sono idonee a scrutare l’abisso. Il bambino non battezzato va alla condanna. Ma dove non trovo il fondo dell’abisso debbo pensare alla debolezza umana, non debbo condannare l’autorità divina”. San Paolo e Sant’Agostino sono categorici. Come poteva essere risolto il problema? La cultura medievale escogitò la presenza del limbo. Luogo nel quale i bimbi nati morti avrebbero vagato per l’eternità, lontano da Dio, ma allo stesso tempo, lontano dalla durezza dell’inferno. Questo dramma ha portato anche alla nascita di molte leggende su cosa potesse accadere agli spiriti dei bimbi nati morti. La maggior parte di queste credenze prevedeva che lo spirito tornasse a tormentare i vivi. Ma anche il limbo iniziò a rappresentare un problema per i genitori devoti alla chiesa ed al suo credo.
Ancora Sant’Agostino, ma questa volta con tono di speranza, parlò del problema: accennò alla resurrezione temporanea durante la lettura di un sermone, riferendosi al caso di una donna cui vennero esaudite le preghiere sul ritorno alla vita del bambino nato morto.
Per completezza di informazione, le preghiere della donna erano rivolte alla reliquia di santo Stefano martire. Il figlio della donna resuscitò per il tempo necessario a ricevere il battesimo!
Il desiderio di dare ai propri figli la salvezza dell’anima diede origine al rito del “ritorno alla vita”.
Questo rito poteva avvenire in pochi luoghi sacri, che furono chiamati Santuari a Répit o del respiro, secondo una traduzione dal francese antico.

L’usanza di praticare culti particolari, in occasione della morte di un figlio appena nato, era diffusa già al tempo degli antichi abitanti le vallate alpine, secondo le tradizioni tramandate nel tempo.Il tentativo di riportare alla vita, anche solo per un attimo, un solo respiro che permettesse all’officiante di battezzare il bimbo nato morto, è testimoniato in Europa dal 1300. Fu tollerato dalla Chiesa sino alla metà del 1700.Le testimonianze europee risalgono alla zona delle Fiandre, della Provenza, del Tirolo, della Svizzera e della Savoia.In Italia il rito era praticato quasi esclusivamente a ridosso delle Alpi, per la maggior parte in territori colonizzati dalle popolazioni Walser. Sul territorio italiano i santuari a Répit sono pochi, la maggior parte dei quali localizzati in Piemonte. Tra questi molti sono a ridosso del Monte Rosa tra la Valsesia e l’Ossola. Si ricordano Ornavasso, Rimella, Soriso e Macugnaga.Ho parlato del rito del “ritorno alla vita”, ma come avveniva?Il bimbo nato morto veniva trasportato dai genitori o dai parenti sino ad uno di questi santuari. Il viaggio era disagevole e poteva comportare anche molti giorni di cammino!Possiamo tranquillamente parlare di settimane in alcuni casi!Giunti a destinazione il corpo del bimbo era deposto ai piedi di un’immagine sacra, il più delle volte rappresentante la Madonna. I parenti, con preghiere e promesse, imploravano il miracolo che permettesse al bambino di tornare alla vita, anche solo per il tempo di un respiro! Bastava questo semplice instante per consentire l’ingresso nelle grazie del Signore.Il rito era officiato da persone esperte e deputate a tale culto. Spesso colui che se ne occupava era un eremita che viveva nei pressi dei Santuari. Ma il ritorno in vita come poteva essere verificato?Vi erano svariati comportamenti o accadimenti che potevano essere intesi come piccolo segno vitale, dall’emissione di sangue dalla bocca o dal naso, alla contrazione di un muscolo. In alcuni santuari si utilizzava una piuma; la stessa veniva collocata sulle labbra del corpicino senza vita e qualora si muovesse, quel leggero movimento era considerato segno di vita!In quel momento, in quel solo piccolo istante il bimbo riceveva il battesimo.Dopo il battesimo sopraggiungeva una seconda morte! Ma ora il bimbo era entrato a far parte della comunità e poteva essere sepolto in terra consacrata. Molto spesso il corpicino veniva inumato nei cimiteri sorti nelle vicinanze di questi santuari.

Se in miracolo non avveniva il corpo poteva essere seppellito nei pressi del santuario, ma non all’interno dei cimiteri. I bimbi nati morti e senza aver ricevuto battesimo, venivano sotterrati nelle vicinanze degli scoli dell’acqua piovana, in quanto si pensava che il santuario stesso potesse intercedere presso il signore e l’acqua piovana che passava dal luogo sacro avrebbe, nel tempo, potuto liberare il bimbo dal limbo e permettere che potesse essere accolto nella grazia di Dio.
La maggior diffusione del rito si ha negli anni seguenti il Concilio di Trento.
In quel periodo, la fama di un miracolo come il ritorno in vita da parte di un bimbo nato morto, scatenava una corsa disperata alla ricerca del santuario dispensatore del miracolo.
La chiesa “ufficiale” osteggiò la pratica del rito sino alla condanna definitiva avvenuta nel 1755 per mano di Benedetto XIV.
Papa Lambertini accusò il rito ed i suoi praticanti di:”Abuso del sacramento del battesimo”. Quest’accusa è contenuta nel De Synodo diocesiana.
Nonostante la chiesa ufficiale si fosse allontanata dalla gente e dal loro dolore, la pratica del rito della doppia morte o del ritorno alla vita proseguì sino agli albori del XX secolo.
Il protrarsi del rito sino al 1900 testimonia quanto fosse sentita la necessità di dare pace all’anima del piccolo morto.
Il dolore della perdita era compensato dalla tumulazione in terra sacra.
Il viaggio della speranza, il parziale ritorno alla vita e la sepoltura erano momenti diversi che servivano ad elaborare il lutto.
Addentriamoci in alcuni specifici casi, che meglio ci aiuteranno a comprendere il fenomeno.
Dal XIII al XIX secolo almeno, decine, centinaia, migliaia di casi di ritorno effimero alla vita di bimbi nati-morti avvennero in tutta Europa, divenendo una delle manifestazioni rituali più diffuse e longeve della cristianità.
Il fenomeno esplose soprattutto dal Cinquecento. Un evento clamoroso fu quello documentato nelle vicinanze d’Aix-en-Provence nel 1558. In quell’anno “uno di questi bimbi fu lasciato sull’altare per diverso tempo. Dopo le preghiere, riprende vigore, e viene battezzato. Sette candele disposte su un lampadario al centro della chiesa, ad oltre 12 passi da terra, miracolosamente si accendono. Erano presenti il vicario generale e sette testimoni”.
La chiesa cui si riferisce il miracolo apparteneva all’Annonciade d’Aix-en-Provence, monastero dedicato all’Annunciazione della Beata Vergine, costruito nel XIII secolo sulle rovine di una cappella dedicata a Sant’Antonio. Gli abitanti della città avevano stabilito di edificare l’edificio fuori le mura in seguito all’incremento dei casi della malattia conosciuta con il nome di fuoco sacro, male degli ardenti o fuoco di Sant’Antonio. Tale pericoloso morbo poteva avere effetti devastanti sulle comunità colpite. Si manifestava in due forme: la prima caratterizzata da sintomi epilettici, la seconda da gangrena alle estremità che conduceva all’amputazione dell’arto colpito. Le parti del corpo interessate dalla malattia diventavano secche e nere, come se fossero state bruciate, caratteristica dalla quale potrebbe essere derivato il nome, che evoca il fuoco, della patologia.
La medicina del tempo non conosceva rimedi efficaci, perciò le popolazioni del XIII secolo si rivolgevano a Sant’Antonio, considerato l’intercessore prediletto contro questo malanno. Con il tempo, il convento dell’Annonciade fu abbandonato sino a cadere in rovina.
Soltanto i libri parrocchiali rimangono a testimoniare, come spesso accade, l’incredibile, miracoloso evento svoltosi presso l’altare di quella cappella dedicata all’Annunciazione della Beata Vergine. Intanto il Répit si diffuse anche in Italia.
A Rimella, in Val Mastellone in provincia di Vercelli, nel 1590 si registrò un caso clamoroso. L’allora vescovo di Novara, Cesare Speciano, durante una visita pastorale in Valsesia decise di spingersi fino a quello sperduto villaggio, perché aveva udito che vi si perpetravano strani riti.
Cosi scrisse di proprio pugno: “In Rimella perdura questa superstizione e cioè che gli infanti morti senza il sacramento del battesimo se fossero collocati sotto l’altare di Santa Maria sarebbero tornati alla vita fino che avessero ricevuto il battesimo, ma essendo stati interrogati il curato ed altri testimoni sul fatto che uno di questi bimbi fosse tornato alla vita, risposero nessuno. La qual cosa fu giudicata piuttosto degna di riso e fu vietata, affinché quei bimbi nati morti e creduti vivi non fossero battezzati né sull’altare della chiesa né in altri luoghi”.
Il presule novarese era nato a Cremona nel 1539, nobile rampollo della famiglia degli Speciani, e avviato sin da giovane età alla vita clericale. Ordinato presbitero dell’arcidiocesi di Milano nel 1567, fu nominato vescovo di Novara nel 1584 e già all’indomani dell’incarico s’impegnò fortemente nell’applicazione dei dettami del Concilio di Trento.
Lo Speciano si sentì investito d’estirpare le superstizioni antiche dalla sua diocesi, compresa l’ignobile pratica del Répit che decise di vietare con violenza, seguendo il sentimento istituzionale dell’epoca, destinato a rimanere tale per molto tempo.
Ancora nel 1702 il teologo Jean-Baptiste Thiers avrebbe espresso il medesimo parere: quel rito era di certo superstizione e in piena opposizione alla dottrina cristiana. Il Répit era vietato non solo in Italia, ma anche nella terra d’origine, la Francia. Nella diocesi di Sens, dopo quasi 150 anni dalla prima perentoria proibizione, il rito continuava ad essere praticato. Il vescovo si era scagliato violentemente contro i genitori accusati di ricorrervi già nel 1524, ma i ritorni effimeri alla vita dei bimbi nati-morti a Pringy accaddero con regolarità.
Abbiamo documenti che attestano tale pratica: “il venti di ottobre del 1662, hanno portato un bambino nato morto dalla parrocchia di Nandi, figlio di Etienne Colin e Catherine Colas. Il bambino è stato esposto di fronte all’immagine della Vergine nella cappella del Priore di Pringy. Dopo le preghiere alla Vergine, il piccolo ha mostrato segni di vita come perdita di sangue dalle narici e dall’ombelico, e la piuma che era stata posta sulle sue labbra è sventolata. È stato battezzato e sepolto nel cimitero. Presenti Claudine Vignier, ostetrica, Simonne Delacroix, vedova di Tourbillon, Guy Delacroix e Marie Delacroix”.
Ovunque vi fossero santuari a Répit, le resurrezioni effimere continuavano.
In Italia un caso unico è quello di Soriso, provincia di Novara. Nel piccolo paese, che sorge lungo la direttrice che collega la Valsesia con il medio novarese, tutto ebbe inizio nel 1676: “dalla parte occidentale in bassa e angusta valletta si venera, in vago oratorio, la miracolosa immagine della Madre di Dio, appellata della Gelata, le cui prodigiose grazie, e portenti, non devono essere passate sotto silenzio. L’anno passato 1676 circa l’ora 11 del 30 ottobre Livia Vercelli di questo luogo, diede alla luce una bambina nata morta. Angosciata cercò il denaro per un viaggio nella diocesi di Tarantasia in Savoia, dove per intercessione della beata vergine innumerevoli bambini nati morti hanno dato segni di essere risorti a vita sufficiente per ricorrere al battesimo convenzionale. Mancandogli i soldi ma avendo viva fede, chiese al parroco di esporre la sua bambina davanti alla miracolosa immagine. Si recò il giorno 3 di novembre circa all’ora 13, si recitò il rosario con orazioni ma non comparendo indici sospirati e partendo già il popolo esclamò l’ostetrica di aver quell’istante evacuato dal corpicciolo alcuni escrementi. Disse l’ostetrica sentir palpitare il cuore a quel cadavere e tremare l’occhio sinistro. Onde il parroco pieno di allegria spirituale diedegli il battesimo condizionato. Si terminò il rosario, si resero grazie a Dio e alla beata vergine con l’inno Te Deum e si portò alla sepoltura la bambina a suono festoso delle campane. Fu veduto quel piccolo cadavere prima di seppellirlo essersi colorito da livido a bianco e rubicondo al pari di un ben sano vivente”.
La miracolosa immagine era soltanto un dipinto protetto da una piccola cappella sulla strada che, uscendo dal paese verso occidente, raggiungeva la Valsesia. In seguito a quel primo prodigio e agli altri dieci che avvennero poco dopo, l’edicola diventò un oratorio e poi un santuario.
Dal manoscritto si comprende che il ricorso al Répit era conosciuto e di prassi comune nella zona del novarese nel seicento. Al 1739 risale l’ultimo caso di ritorno effimero alla vita di cui si abbia traccia nell’archivio parrocchiale di Soriso. Possiamo avere la certezza che nel 1739 si sia verificato l’ultimo caso di ritorno alla vita? Dopo tale data i registri parrocchiali e le memorie non menzionano più tale fenomeno. Che ne siano accaduti altri o meno, i divieti vescovili e papali di certo spinsero i parroci a seguire scrupolosamente le nuove disposizioni.
In altre regioni europee il culto non si spense fino alle soglie del XX secolo. Non lontano da Soriso un altro santuario divenne luogo di ritorni effimeri alla vita. L’esistenza del Répit ad Ornavasso, paese in provincia di Verbania, divenne di pubblico dominio nel 1759, quando l’allora vescovo di Novara, Marco Aurelio Balbis Bertone, ne venne a conoscenza durante una visita pastorale.
Le parole del segretario episcopale, negli Atti di Visita non lasciavano dubbi: in quel luogo i bimbi che nascevano privi di vita erano portati in un santuario del paese per tornare temporaneamente tra i vivi al fine d’ottenere il battesimo. Il luogo era quello della Madonna dei Miracoli, chiamato Boden, ovvero pianoro nella locale lingua walser, che sorge sopra una balza incuneata all’ingresso di uno stretto vallone. Il vescovo si espresse duramente nei confronti del Répit che in quel luogo si praticava. Sicuramente, a tale sentimento fu spinto dalla condanna generale espressa pochi anni prima dalla De Synodo Diocesana, testo con cui papa Benedetto XIV condannò in via definitiva il rito del ritorno effimero alla vita per abuso del sacramento del battesimo.
Negli anni seguenti il ricorso al Répit non declinò ne scomparve. Chi vi faceva ricorso si nascondeva, si riparava in luoghi isolati. Non lontano dall’abitato d’Ornavasso è il Canton Vallese, in territorio svizzero. Nel 1794 il vescovo di Sion, Joseph-Antoine Blatter, prima di intraprendere un viaggio nella diocesi, inviò a tutti i parroci un questionario sullo stato della parrocchia.
Le domande riguardavano le pratiche svolte nei santuari a Répit. I parroci di Moerel e di Reckingen confermarono che i bimbi nati-morti erano abitualmente portati alla cappella di Hohen-Fluhen, nel comune di Rieredalp, affinché potessero ricevere il sacramento del battesimo. Il parroco di Moerel aggiunse che la cappella era luogo di pellegrinaggio molto frequentato e che vi erano stati comportamenti scandalosi, da parte dell’uno e dell’altro sesso, nelle locande dei dintorni. Voci simili si levarono anche da Munster, Biel, Naters e Mund. L’ultimo battesimo impartito a Hohen-Fluhen sembra risalire al 1852. Il registro dei battesimi di Biel menziona alla data del 22 maggio del 1863 il decesso di bimbi non battezzati e portati alla cappella di Hohen-Fluhen, in seguito ad “una stupida credenza”.
La certezza che il 1863 sia stato l’anno finale della pratica non è credibile poiché ancora nel 1879, nello Stato della parrocchia di Moerel, era menzionato, come destinatario dei bimbi morti senza il battesimo, il cimitero della cappella di Hohen-Fluhen.

Fabio Casalini

BIBLIOGRAFIA

  • Fabio Casalini e Francesco Teruggi, Mai vivi, mai morti, Giuliano Ladolfi editore, Borgomanero, 2015
  • Marcel Bernos, Réflexions sur un miracle de l’Annonciade d’Aix. Contribution à l’etude dex sanctuaries à repit, in Annales du Midi, Edition Privat, Tolosa, 1970
  • Fiorella Mattioli Carcano, Santuari à répit, Priuli e Verlucca, Ivrea, 2009
  • Jean-Baptist Thiers, Traité de l’exposition du Sain Sacrament de l’autel, Louis Chambeau, Avignone, 1977
  • Gabriel Leroy, Notre-Dame de Pringy, son culte et sa légende, Dumoulin, Paris, 1862
  • Fiorella Mattioli Carcano e Valerio Cirio, Santa Maria della Gelata nel contesto europeo dei santuari fonte di vita, Parrocchia di Soriso, Soriso, 1993

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