Non tutti ricordano che fra il 1963 e il 1965 si tenne il più lungo e pubblicizzato processo per crimini di guerra del periodo post bellico.
Teatro della kermesse fu il palazzo di Giustizia di Francoforte, dove furono posti sotto accusa 22 imputati per i crimini commessi durante la Seconda Guerra Mondiale all’interno del campo di concentramento e sterminio di Auschwitz.
I personaggi alla sbarra non avevano nomi importanti e altisonanti come quelli degli imputati a Norimberga. Non avevano neppure svolto un ruolo di primo piano nell’olocausto, come Eichmann, il grande fuggitivo, impiccato nel 1962 dopo anni di latitanza, una cattura rocambolesca e un lungo processo.
Si erano però distinti per la loro brutalità durante lo svolgimento delle mansioni a cui erano stati assegnati, fatti avvalorati da alcuni documenti trafugati fortunosamente da Auschwitz e dalle testimonianze di 211 sopravvissuti che parteciparono in qualità di testimoni dell’accusa al processo in questione.
Tornati alla loro vita, “smessi i panni dei sadici assassini”, gli imputati che sedettero di fronte alla giuria e ai loro accusatori erano diventati semplici postini, impiegati, operai o insegnanti.
I 17 anni trascorsi cambiarono notevolmente le persone nel loro aspetto esteriore, ma non cancellarono le cicatrici di chi nel campo perse il proprio nome per diventare un numero tatuato sulla pelle.
Fra quegli uomini sedeva Wilhelm Friedrich Boger. I suoi accusatori lo ricordavano come “la tigre di Auschwitz”. Occhi scuri e profondi, denti bianchi, capelli sempre perfettamente pettinati, sorriso aperto e rilassante, che infondeva fiducia a chiunque lo guardava per la prima volta senza conoscerlo.
Boger nacque il 19 dicembre 1906 a Zuffenhausen, nei pressi di Stoccarda, in Germania.
Giovanissimo aderì alla “Gioventù hitleriana”, Hitler-Jugend, organizzazione giovanile fondata nel 1926 dal Partito nazionalsocialista dei lavoratori, che accoglieva i giovani tedeschi a partire dai 10 anni, per prepararli ad essere buoni cittadini e ad entrare nelle forze armate per servire la loro patria.
Dal 1936 al 1937 frequentò con successo la scuola di polizia, diventando commissario politico. Dopo l’inizio del conflitto mondiale, fu trasferito a Zichenau e successivamente fu nominato capo ufficio di polizia di frontiera a Ostrolȩka, in Polonia.
Un anno dopo chiese e ottenne il trasferimento alla polizia delle SS di Dresda. Inviato al fronte, di supporto alle truppe impegnate nella seconda guerra, fu ferito nel 1942. Finita la convalescenza fu trasferito ad Auschwitz, dove venne assegnato alla sezione politica con il grado di sergente. Il suo compito all’interno del campo era quello di mantenere l’ordine fra i prigionieri, di stilare liste di detenuti assegnando loro una valutazione in base alle loro attitudini, di vigilare su eventuali movimenti di resistenza interna, soffocandoli sul nascere.
Uno dei suoi incarichi, che svolgeva con grande solerzia e dedizione, fu quello di occuparsi degli interrogatori dei prigionieri, con lo scopo di ottenere preziose informazioni. Per meglio assolvere a questo compito, inventò uno strumento di tortura, probabilmente imitandone qualcuno già esistente, che prese il suo nome: l’altalena di Boger.
Ad essere sottoposti al trattamento erano sia i criminali comuni che coloro che si erano macchiati di delitti politici, come ascoltare le radio straniere o far parte della Resistenza.
Un anno dopo chiese e ottenne il trasferimento alla polizia delle SS di Dresda. Inviato al fronte, di supporto alle truppe impegnate nella seconda guerra, fu ferito nel 1942. Finita la convalescenza fu trasferito ad Auschwitz, dove venne assegnato alla sezione politica con il grado di sergente. Il suo compito all’interno del campo era quello di mantenere l’ordine fra i prigionieri, di stilare liste di detenuti assegnando loro una valutazione in base alle loro attitudini, di vigilare su eventuali movimenti di resistenza interna, soffocandoli sul nascere.
Uno dei suoi incarichi, che svolgeva con grande solerzia e dedizione, fu quello di occuparsi degli interrogatori dei prigionieri, con lo scopo di ottenere preziose informazioni. Per meglio assolvere a questo compito, inventò uno strumento di tortura, probabilmente imitandone qualcuno già esistente, che prese il suo nome: l’altalena di Boger.
Ad essere sottoposti al trattamento erano sia i criminali comuni che coloro che si erano macchiati di delitti politici, come ascoltare le radio straniere o far parte della Resistenza.
Gli accusati arrivavano all’interrogatorio già molto provati da percosse e maltrattamenti. Erano condotti al centro del campo, per fungere da esempio agli altri prigionieri; arrivavano solitamente vestiti con abiti civili, col volto sanguinante e pieno di lividi, saldamente incatenati. Erano scortati in una baracca appositamente per procedere con l’interrogatorio. Ad accogliere i nuovi arrivati erano in genere altri detenuti, che reggevano in mano arnesi in legno, all’apparenza innocui. Chiudeva il corteo la Gestapo, attrezzata con fruste, manganelli, mitragliette, fascicoli di documenti, su cui erano riportate tutte le informazioni inerenti i nuovi arrivati e macchine da scrivere, pronte a funzionare per poter raccogliere le loro testimonianze.

Boger era solito sorridere alla vista di questa processione, dritto, impettito, perfettamente in ordine nella sua divisa, con le mani giunte dietro la schiena. Assaporava quei momenti come il preludio di altri che lo avrebbero soddisfatto di più.
Pochi minuti e dall’interno della baracca giungevano rumori di percosse, urla, tonfi sordi, pianti.
Quando Boger entrava nella stanza, gli arnesi in legno venivano usati. Si procedeva a montare l’altalena, sotto l’occhio attento del proprio ideatore: l’accusato era costretto ad abbracciare le proprie ginocchia, con le manette ai polsi. Una sbarra in ferro veniva fatta passare tra avambraccio e ginocchia per poi essere appoggiata a due tavoli in legno distanziati quanto bastava per lasciare appeso il malcapitato, che da quel momento veniva fatto dondolare avanti e indietro, come se fosse seduto su un’altalena. Iniziavano le percosse, date a caso su organi genitali, sedere o pianta dei piedi. I risultati erano devastanti. Capitava che le natiche del prigioniero diventassero insensibili al dolore in seguito alle troppe botte ricevute. In quel caso Boger e i suoi erano soliti cambiare metodo di tortura, versando acqua bollente nelle narici del torturato. Se le grida di dolore erano troppo forti, il viso veniva coperto con una maschera antigas per soffocarle.
La confessione, ovviamente estorta, si concludeva con una firma quasi irriconoscibile e con una serie di frustate inferte per convincere il moribondo ad alzarsi e ad uscire. Dopo qualche tempo le tavole furono ritenute poco efficaci e pertanto sostituite da due armature in legno costruite appositamente, ritenute più stabili. Si stima che a turno, non si hanno dati certi, furono sottoposti all’altalena di Boger, circa 600 prigionieri. Dopo il trattamento erano costretti a restare in una baracca speciale, coricati giorno e notte sul ventre, anche durante il momento del pasto. Le guardie che le sorvegliavano avevano l’obbligo di sparare a chiunque avesse tentato di parlare o di sollevarsi. Nei periodi in cui i prigionieri politici che arrivavano al campo erano pochi, lo stesso Boger girava in bicicletta fra le baracche di Auschwitz per individuare qualcuno da sottoporre a interrogatorio. La sua attività continuò indisturbata fino all’arrivo delle truppe alleate nel gennaio 1945.

Il sergente Boger riuscì a sfuggire alle rappresaglie dei prigionieri e all’arresto. Un anno dopo, fu catturato ma mentre era in attesa di estradizione per la Polonia, per essere sottoposto a processo, riuscì ad evadere e a far perdere le sue tracce.
Solo in seguito si scoprì che visse dal 1948 a Crailsheim, nella regione di Baden-Württmberg, in Germania.
Due anni dopo iniziò a lavorare in una fabbrica di aeroplani a Stoccarda. Arrestato nel 1959, fu incarcerato in attesa di processo, che iniziò nel 1963. I testimoni a suo carico raccontarono le “gesta” di Wilhelm Friedrich Boger all’interno del campo di concentramento e sterminio di Auschwitz. Ne uscì il profilo di un uomo temuto e crudele, il cui sguardo non era mai bello incrociare. Fra le varie testimonianze vorrei riportare L’esperienza di sopravvissuta ad Auschwitz di Lilly Majerezik, che svolgeva la funzione di segretaria nel dipartimento politico.
Nonostante fossero passati molti anni ricordava bene quell’uomo. Come altri detenuti che avevano lavorato in quell’ufficio, la donna non aveva mai visto la procedura completa dell’altalena. Sapeva che l’accusato era appeso a testa in giù e che, dopo che la porta della baracca si chiudeva, dal suo interno si udivano solo urla strazianti. Ricordava inoltre che tutte le testimonianze dovevano essere rese a voce alta, in modo che chi doveva trascriverle non avesse dubbi su quanto aveva appena udito. Tutto questo accadeva mentre uno dei soldati incaricati delle torture strappava alla vittima le unghie di mani e piedi.
Nonostante fossero passati molti anni ricordava bene quell’uomo. Come altri detenuti che avevano lavorato in quell’ufficio, la donna non aveva mai visto la procedura completa dell’altalena. Sapeva che l’accusato era appeso a testa in giù e che, dopo che la porta della baracca si chiudeva, dal suo interno si udivano solo urla strazianti. Ricordava inoltre che tutte le testimonianze dovevano essere rese a voce alta, in modo che chi doveva trascriverle non avesse dubbi su quanto aveva appena udito. Tutto questo accadeva mentre uno dei soldati incaricati delle torture strappava alla vittima le unghie di mani e piedi.
Un altro sopravvissuto raccontò di come il Sergente si divertiva ad uccidere i prigionieri con la propria pistola, facendoli allineare contro il “Muro Nero”. Chi era condotto lì sotto sapeva che sarebbe stato giustiziato. Contro quella parete, situata fra il blocco 10, sulla sinistra, è il blocco 11, sulla destra, il sergente Boger fu visto giustiziare fra i 50 e i 60 prigionieri, a gruppi di 2 persone, in un solo giorno.
Ma il racconto più scioccante fu quello di un’altra donna sopravvissuta al lager: il suo nome era Dounia Wasserstrom. Un giorno assistette all’arrivo di un camion carico di bambini ebrei, che si fermò proprio davanti al dipartimento politico. Boger uscì, si fermò sulla porta con le mani appoggiate ai fianchi. Un bambino di circa 4 o 5 anni saltò giù dal mezzo, stringendo forte una mela fra le mani. Boger si avvicinò, lo afferrò per i piedi e gli spacco la testa contro il muro. Il rumore sordo prodotto dal piccolo cranio che si fracassava rimase nelle orecchie della donna per tutta la vita. Boger si voltò e, senza emozione, le ordinò di lavare il sangue dal muro e di sistemare quel disastro. Pochi minuti dopo il sergente la chiamò in ufficio per una traduzione, dove l’aspettava seduto alla scrivania mangiando la mela che il bambino teneva tra le mani.

Ma il peggio di sé la “tigre di Aushwitz” lo mostrava quando era ubriaco. Per gioco era solito scegliere uno o più detenuti che faceva sdraiare a terra, mettendo loro un bastone sul collo. Dopo esserci salito sopra, aspettava divertito che il prigioniero morisse strozzato, fra risate e urla di stupore.
Il 19 agosto 1965 il processo di Francoforte si concluse. Dei 22 imputati, solo 20 arrivarono alla fine.
Il giudizio per due di loro fu sospeso a causa delle gravi condizioni di salute in cui vertevano. Beneficiarono della pietà della giustizia, almeno per il momento. Sei furono condannati all’ergastolo. Fra questi vi era anche Boger. Detenuto in prigione a Bietigheim-Bissinger, città della Germania, morì di malattia il 3 aprile 1977, dopo solo 19 anni di carcere. La pena che scontò, lui come tutti i nazisti arrestati e giudicati davanti a un tribunale, non fu sufficiente per cancellare le sofferenze di chi sopravvisse ai lager nazisti. La storia lo ricorderà come un pesce piccolo, uno dei tanti soldati che diede libero sfogo all’interno dei campi di concentramento a tutte le proprie perversioni, senza pensare che quelli che aveva davanti erano esseri umani e non semplici numeri tatuati sulla pelle.