La tragedia del Principessa Mafalda, il Tianic italiano

Tempo di lettura: 16 minuti

Il Principessa Mafalda, dal nome della figlia di Vittorio Emanuele III poi tragicamente scomparsa a Buchenwald nel 1944 era un transatlantico del Lloyd Italiano....
f420a-1 Principessa Mafalda
Il Principessa Mafalda, dal nome della figlia di Vittorio Emanuele III poi tragicamente scomparsa a Buchenwald nel 1944 era un transatlantico del Lloyd Italiano. Il suo varo avvenne nel 1908 ed era allora il più grande nave passeggeri costruita per una compagnia italiana. Dopo quasi vent’anni di servizio naufragò, il 25 ottobre 1927 a poche miglia dalla costa del Brasile. Secondo i dati forniti dalle autorità italiane dell’epoca morirono 314 persone, mentre i giornali sudamericani ne riportarono la cifra di 657 morti. Minimizzato dagli organi di regime del tempo, questo naufragio è considerato il disastro navale italiano più grave del Novecento ed è tristemente ricordato come il Titanic italiano.
Ora raccontiamo la sua tragica vicenda ancor oggi purtroppo poco conosciuta  Siamo ad inizio novecento, epoca in cui si pensava che la scienza e le nuove grandi conquiste tecnologiche avrebbero portato un epoca di pace e di benessere all’ uomo. Erano anche gli anni in cui l’emigrazione italiana verso le Americhe era in crescente aumento e l’industria navale doveva soddisfare una notevole domanda di moderne e grandi navi che fossero all’altezza della concorrenza nordeuropea.
Nel 1904 nel cantiere navale di Riva Trigoso in Liguria, su commissione del Lloyd Italiano, si avviò un grande progetto di investimento che comprendeva la costruzione di una coppia di transatlantici destinati alle rotte verso le Americhe. Il Principessa Mafalda e il suo gemello Principessa Jolanda. (dal nome dell’ altra figlia di Vittorio Emanuele III). Le due navi, caratterizzate da un allestimento di gran lusso, avrebbero dovuto aumentare il prestigio della flotta nazionale, essendo le più grandi navi sino ad allora costruite per una compagnia italiana. Il Principessa Jolanda fu ultimato per primo Il 22 settembre 1907, ma quasi per funesto presagio affondò a pochi minuti dal varo di fronte ai cantieri di Riva Trigoso, con grande sgomento della folla e delle autorità accorse per il grande evento.
Le cause tecniche dell’incidente furono subito chiarite, il baricentro troppo alto dovuto al fatto che la nave era stata varata con gli allestimenti interni già in opera ma senza zavorra. Il cantiere si concentrò allora sul completamento del Principessa Mafalda. Il giorno del suo varo fu particolarmente pieno di tensione. Tutto fortunatamente filò liscio e il duca Emanuele Filiberto d’Aosta inaugurò la nave il 30 marzo 1909. Nel corso del viaggio inaugurale, il duca ebbe modo di elogiare le doti tecniche e il grande sfarzo della nave. La nave era stata costruita su progetto dell’ingegner Erasmo Piaggio, misurava 146 metri di lunghezza per circa 17 di larghezza. Era provvista di due eliche e due motori a vapore, per una potenza erogata di 10.500 hp ciascuno, e poteva raggiungere una velocità massima di circa 17,5 nodi.
Era caratterizzata dal gran lusso degli allestimenti e nella prima volta nella storia della navigazione, un salone delle feste e vari altri ambienti erano estesi in verticale su due piani. Gli interni erano riccamente decorati e arredati dallo Studio Ducrot. Nei ponti di prima classe vi era un salone delle feste, una sala della musica completa di pianoforte a coda, un jardin d’hiver, un fumoir, un ristorante, una sala da gioco, vari salotti e cabine con servizi interni per 180 persone. Inoltre, il transatlantico era tra i primi ad essere dotato di illuminazione elettrica telegrafo e telefono in ogni cabina di prima classe. Lo stesso Guglielmo Marconi effettuò a bordo i primi esperimenti radiofonici.  I ponti di seconda classe erano collocati a poppa e ospitavano anche aree all’aperto con sedie sdraio e cabine per 150 persone. La terza classe era disposta ai ponti inferiori con spazi estesi di concezione piuttosto innovativa, suddivisi in ampi stanzoni forniti di servizi igienici, che potevano ospitare fino a 1.200 passeggeri, solitamente migranti. Ai ponti inferiori trovavano posto anche i locali tecnici, la stiva, magazzini, la sala macchine e gli alloggi per circa 300 membri dell’equipaggio. Di questa innovazioni il Lloyd Italiano andava particolarmente fiero, poiché questa nave aveva suscitato l’ammirazione di tutta Europa e faceva del Principessa Mafalda il più prestigioso transatlantico della flotta italiana. Dal 1909 in poi fu impiegata per effettuare la traversata dell’oceano Atlantico da Genova a Buenos Aires, con scalo a Rio de Janeiro e Santos, divenendo per svariati anni la miglior nave su quella rotta e ospitando personaggi illustri come Arturo Toscanini, Luigi Pirandello, Carlos Gardel e Tatiana Pavlova.
Dal 1914 fu utilizzata per la traversata da Genova a New York, ma l’anno successivo fu requisita dalla Regia Marina, venendo adibita ad alloggio ufficiali a Taranto, durante la prima guerra mondiale.
Nel 1918, con l’assorbimento del Lloyd Italiano nella Navigazione Generale Italiana, il Principessa Mafalda passò a tale compagnia divenendo la nave ammiraglia della flotta e riprese il servizio sulla rotta Genova-New York sino al 1922, quando fu completato il transatlantico Giulio Cesare che lo sostituì, destinando nuovamente il Principessa Mafalda a servire la rotta Genova-Buenos Aires. Arriviamo dunque al racconto dell’ ultimo fatale viaggio nell’ottobre del 1927. La nave partì da Genova l’11 ottobre 1927 al comando di Simone Gulì, un esperto comandante siciliano sessantaduenne, con a bordo 1.259 persone tra cui una minoranza di emigranti siriani e soprattutto numerosi emigranti piemontesi, liguri e veneti tra cui il pasticciere Ruggero Bauli che nel 1922 avrebbe poi fondato una famosa azienda alimentare. Doveva essere l’ultimo viaggio del transatlantico, prima del suo smantellamento, poiché dopo anni di usura e scarsa manutenzione, la nave non era più considerato sicura dagli addetti ai lavori, ma secondo la società armatrice era ancora in perfette condizioni e poteva sempre godere del prestigio di un tempo. Durante quest’ultimo viaggio si verificarono molti contrattempi, prima del tragico epilogo. Vi fu subito un ritardo alla partenza causa riparazioni ai motori. Si pensò anche di trasferire i passeggeri sul Giulio Cesare, adducendo come scusante le scarse prenotazioni della prima classe, ma tale ipotesi venne presto abbandonata. I guasto venne riparato e la nave parti.
Tuttavia appena lasciata la costa ligure purtroppo si presentarono altri problemi, ed obbligarono il comandante Gulì a fermare i motori ben otto volte nel solo tratto tra Genova e Barcellona. La sosta a Barcellona si prolungò di ventiquattr’ore per attuare anche la riparazione di una pompa di un aspiratore che si era rotta. La navigazione poi riprese alla volta dell’arcipelago di Capo Verde, ma dopo aver superato lo stretto di Gibilterra subentrò un nuovo guasto al motore di sinistra, ed il piroscafo fu costretto a navigare con il solo motore di dritta. Poi si ruppe anche il motore di dritta lasciando il piroscafo a motori spenti per circa sei ore. Riparato in parte il guasto la nave ripartì con il solo motore di sinistra, navigando lievemente piegata a sinistra e a velocità ridotta per un giorno intero. Si rese dunque necessaria una tappa non prevista al porto di Dakar per effettuare la riparazione all’asse dell’elica sinistra. Il 18 ottobre, dopo la partenza da Dakar, tuttavia si dovette effettuare l’ ennesima tappa forzata di quasi ventiquattr’ore presso lo scalo di São Vincente, dove si dovette rimediare alla riparazione delle celle frigorifere che, essendosi guastate durante la navigazione, avevano fatto deperire le scorte di alimenti e di carne, e si erano verificate anche intossicazioni nei passeggeri. Furono quindi acquistati e macellati in loco suini e un bue per garantire nuovamente la corretta fornitura dei pasti. Vennero imbarcati anche due passeggeri argentini che la settimana prima avevano avuto una disavventura a bordo del piroscafo Matrero, rimasto alla deriva per alcuni giorni in nell’ oceano a seguito dello scoppio delle caldaie.
Poi la navigazione procedette con relativa normalità, anche se vi erano forti vibrazioni e costanti problemi al motore di sinistra. Questi problemi indussero il comandante Gulì a chiedere alla compagnia di mandare un altro transatlantico in sostituzione per trasbordare i passeggeri; la richiesta fu però respinta e gli venne ordinato di proseguire fino alla successiva tappa al porto di Rio de Janeiro, in attesa di nuove istruzioni. La mattina di martedì 25 ottobre, la nave procedeva ad una velocità di 13 nodi ed era un visibile un rollio che la faceva inclinare verso sinistra. Venne superata dal cargo olandese Alhena che però, non ricevendo particolari segnalazioni, proseguì nella sua rotta. Alle 17.10, quando la nave si trovava a circa 80 miglia al largo della costa del Brasile tra Salvador de Bahia e Rio de Janeiro, fu percepita una fortissima scossa; i passeggeri, uscirono sui ponti per cercare di capire cosa stesse succedendo, benché la nave procedesse in modo apparentemente regolare, seppur rallentando visibilmente. Il primo pensiero degli uomini dell’equipaggio fu che la scossa fosse causata dalla perdita di un’elica, fatto certamente grave ma non necessariamente pericoloso. Tuttavia il direttore di macchina Scarabicchi salì in plancia ed informò il comandante che aveva individuato il vero problema, ben più serio: si era completamente sfilato l’asse dell’elica sinistra che, continuando per inerzia il suo moto rotatorio, spintasi in avanti aveva causato un grande squarcio nello scafo di poppa.
L’acqua stava entrando copiosamente, allagando la sala macchine, e avrebbe presto invaso anche la stiva, poiché anche le porte stagne purtroppo non funzionavano correttamente. Si tentò allora inutilmente, di riparare la falla con pannelli di metallo. Dopo le prime rassicurazioni ai passeggeri Gulì diede ordine di fermare le macchine e fece suonare la sirena d’allarme per radunare l’equipaggio, mentre il primo ufficiale Maresco dava ordine ai marconisti Reschia e Boldracchi di lanciare un primo S.O.S. Il segnale di soccorso fu raccolto da varie navi, tra le quali i piroscafi da carico Alhena (che, come già detto, aveva superato la nave italiana la mattina stessa) ed Empire Star ed i transatlantici francesi Mosele e Formose, che si trovavano nelle vicinanze e che accorsero subito.
Tuttavia si fermarono ad una certa distanza dalla nave poiché si innalzava una vistosa colonna di fumo bianco che faceva temere l’esplosione delle caldaie e quindi il conseguente rischio di un incendio. In realtà questo pericolo non sussisteva poiché i fuochisti avevano già aperto le valvole del vapore prima che l’acqua raggiungesse le caldaie, ma essendo danneggiato l’unico generatore di corrente presente a bordo e, non essendoci una dinamo supplementare, non era stato possibile ai marconisti Reschia e Boldracchi di comunicare alle navi vicine che la temuta esplosione delle caldaie era scongiurata. Ad ogni modo le navi soccorritrici misero in mare tutte le proprie lance e iniziarono ad imbarcare naufraghi della nave italiana, mentre il comandante Gulì, munito di megafono, cercava di coordinare al meglio le operazioni di soccorso dal ponte di comando dando priorità a donne e bambini. Intanto sopraggiunse la notte, che rese più difficoltosa qualsiasi comunicazione visiva, e alle 22.03 si interruppe anche l’erogazione di energia elettrica e con essa tutte le comunicazioni del telegrafo di bordo. Resosi conto che la nave era ormai perduta, il comandante fece calare le lance di salvataggio, ma poiché la nave era fortemente inclinata a sinistra, quelle di dritta colpirono lo scafo danneggiandosi e divenendo inservibili. A bordo si era creato il panico e molti passeggeri caddero o si gettarono in mare, annegando. Sul lato di sinistra la situazione era migliore e Maresco fece il possibile per calare diverse lance, ma alcune di esse rivelarono il loro cattivo stato, imbarcando acqua, e fu necessario per i passeggeri togliere l’ acqua con i cappelli.
Altre scialuppe prese d’assalto si rovesciarono, o affondarono per il sovraccarico. Allora il comandante Gulì capì che non si poteva fare più nulla e ordinò il si salvi chi può, mentre il caos a bordo aumentava sempre più, anche a causa dell’oscurità assoluta dovuta alla luna nuova e, mentre alcuni passeggeri riuscirono a raggiungere a nuoto le altre navi, altri si suicidarono sparandosi. Secondo alcune versioni anche il direttore di macchina Scarabicchi si sarebbe tolto la vita mentre molti naufraghi furono divorati vivi dagli squali, come riportò la stampa brasiliana dell’epoca. Alcune lance riuscirono a raggiungere le navi vicine e, insieme alle lance provenienti dalle altre imbarcazioni accorse, si riuscì a portare in salvo circa 900 persone. Intanto la nave, verso le ore 22:20, essendo ormai completamente invasa dall’acqua a poppa, si alzò verticalmente di prua e colò rapidamente a picco a circa 2.200 metri di profondità. Molte testimonianze raccolte in seguito concordarono con l’affermare che il comandante Gulì restò a bordo con i marconisti fino alla fine, facendo suonare ai musicanti rimasti la Marcia Reale. Il salvataggio dei pochi superstiti che tentavano di rimanere a galla come potevano proseguì fino a tarda notte e all’una anche l’Alhena lasciò il luogo del disastro. Due ore dopo sopraggiunsero anche piroscafi brasiliani come l’Avelona, il Bagé, l’Ayurnoca, il Manaos e il Puròs, che però non trovarono sopravvissuti. Sulla nave era stato imbarcato un forziere di monete d’oro per un valore complessivo di 250.000 lire dell’epoca. Esso rappresentava un dono del governo italiano a quello argentino come riconoscente gesto di ringraziamento per l’accoglienza dei numerosi emigranti italiani che ogni anno raggiungevano lo stato sudamericano. La custodia del prezioso carico era stata affidata al vicebrigadiere della Polizia di Stato Vincenzo Piccioni che morì nel naufragio, seppur non ve ne sia la conferma, il carico dovrebbe ancora giacere nella stiva del relitto a circa duemila metri di profondità o fu trafugato all’ ultimo momento da mano ignota… Malgrado il coraggio dimostrato dal comandante Gulì e dall’equipaggio, prodigatisi fino all’ estremo sacrificio, il naufragio del Principessa Mafalda è stato probabilmente il più grave disastro nautico italiano. La sua notizia fece presto il giro del mondo suscitando sgomento e sorpresa, tuttavia la stampa italiana dell’epoca diede alla tragedia un taglio marcatamente retorico, ponendo l’accento solo sui vari episodi di eroismo. I principali giornali ricevettero le consuete veline in cui si suggerì di dare notizie vaghe e quindi vi furono diverse versioni in cui si parlò di fatalità, di incendio a bordo, di scoppio delle caldaie e sempre minimizzando naturalmente sul numero reale delle vittime. L’11 novembre 1927 si svolsero nella cattedrale di Genova la cerimonia di esequie per le vittime del Principessa Mafalda. Fu notata un’assenza significativa, quella di Dionigi Biancardi, direttore della Navigazione Generale Italiana. Biancardi, assieme al ministro Costanzo Ciano, aveva sostenuto dopo il disastro che il Principessa Mafalda era un piroscafo in perfetto stato. La stampa fascista, pur ammettendo un certo numero di vittime, mise in risalto l’eroismo degli ufficiali e non il malconcio stato di una nave che era stata gloriosa ma che da anni non era più in condizioni di navigare. C’erano delle colpe e delle responsabilità da accertare, ma il regime non voleva scandali che avrebbero scalfito l’immagine di un’Italia potente e infallibile.
Le motivazioni di questo atteggiamento furono dunque prevalentemente politiche, inoltre la sciagura era avvenuta a pochi giorni di distanza dall’anniversario della Marcia su Roma, nel V anno fascista, quindi era preferibile non turbare l’opinione pubblica con cattive notizie. Un’altra valida motivazione per minimizzare le conseguenze di questo grave disastro fu quella economica: l’Italia di quegli anni, infatti, investiva fortemente nell’industria navale e quindi sarebbe stato sconveniente spaventare la cospicua percentuale di emigranti, che rappresentavano una sicura fonte di guadagno per le compagnie di navigazione italiane impegnate nelle remunerative rotte verso le Americhe. Nelle false notizie che si diffusero venne quindi comunicato che le «poche decine di vittime» erano da contare soltanto tra gli ufficiali dell’equipaggio e i passeggeri della prima classe. A confermare questa versione e ad attaccare la stampa estera che affermò il contrario fu l’ambasciatore italiano in Argentina Attolico, che rilasciò un’intervista al Corriere Mercantile in cui pose l’accento sull’«eroico contegno dell’equipaggio nel terribile frangente» e in cui affermò che, comunque, sarebbe seguita un’indagine sulla sciagura per ordine dello stesso Mussolini. Malgrado ciò la tragica notizia venne definitivamente liquidata dall’allora ministro delle Comunicazioni Costanzo Ciano che emanò un breve comunicato in cui dichiarò che la nave alla partenza era in perfetta efficienza e insistendo che quanto accaduto era da attribuirsi unicamente al fato avverso; infine, il governo italiano conferì meritatamente la medaglia d’oro alla memoria al comandante Gulì e agli altri ufficiali: il direttore di macchina Scarabicchi e i marconisti Reschia e Boldracchi. Alla tragedia seguì comunque un’inchiesta segreta parallela promossa dalla Regia Marina, la cui commissione stabilì che l’asse dell’elica sinistra, origine del disastro, si sfilò per il cedimento di un giunto ed emerse anche il fatto che sei lance di salvataggio collocate a poppa non poterono essere utilizzate perché posizionate male. Inoltre, il Registro Navale Italiano emanò una direttiva che ordinava che gli assi delle eliche di tutte le navi italiane fossero dotati, da allora, di specifici dispositivi atti ad evitare problemi della stessa natura di quello che aveva causato il tragico naufragio. Un processo in seguito alla denuncia dei familiari delle vittime diede ragione a questi ultimi e la Navigazione Generale Italiana fu condannata al pagamento di forti indennizzi. La completa verità si stabili solo nel 1956 con una inchiesta giornalistica condotta dal settimanale L’Europeo che stabilì con maggior esattezza come i fatti si fossero svolti, senza togliere nulla all’indubbio valore dimostrato dai membri dell’equipaggio.

BIBLIOGRAFIA

CONDIVIDI

Condividi su facebook
Condividi su twitter
Condividi su linkedin
Condividi su pinterest
Condividi su whatsapp
Condividi su email

COMMENTI

ARTICOLI CORRELATI

Le nostres storie direttamente nella tua mailbox