L’immagine che viene in mente all’uomo medio è quella di una sorta di “vento di civiltà” (ma forse un tornado sarebbe più efficace, dati i suoi effetti distruttivi) che, dall’America (per la precisione dagli Usa), si spinge verso il resto del mondo appiattendo e radendo al suolo le diversità culturali. Siamo sicuri sia così? Stiamo veramente uniformando le culture e perdendo diversità? O è forse vero il contrario, ovvero che proprio in risposta a questo ipotetico vento di cultura stiamo lavorando per creare sempre più identità definite?
La contemporaneità, soprattutto in ambito alimentare, è contraddistinta da piatti tipici e feste tradizionali che diventano eponimo di un’identità estremamente locale, da forme di comunità idealmente costruite (ad esempio attraverso i social network ed il www, che azzerano le distanze) e spalmate su tutto il pianeta, di flussi di persone e di etnie che si incontrano / scontrano con le popolazioni autoctone aprendo dibattiti nel campo dell’integrazione.
I centri commerciali sono diventati, negli ultimi anni, dei luoghi particolarmente interessanti dal punto di vista antropologico. Si tratta di vere e proprie “agorà 2.0”, luoghi di aggregazione e di ritrovo. E le food-court, ovvero le corti del cibo, dove, in un’area ben contrassegnata, si concentrano le attività di ristorazione, sono un ottimo esempio.
Analizzando infatti le diverse tipologie di cibi offerti, troviamo che rispondono a precise istanze della clientela: i centri commerciali sono luoghi dove, ad esempio durante la pausa pranzo, si ha necessità di mangiare in maniera veloce, ed ecco quindi proliferare i fast food, soprattutto franchising nazionali o internazionali (MacDonald piuttosto che Burger King o steak house quali Roadhouse o Old wild west). Nel caso delle catene internazionali si deve evidenziare che non ci troviamo di fronte ad un appiattimento dell’offerta culinaria (MacDonald = Big Mac), bensì all’elaborazione di menù fortemente a carattere nazionale, con preparazioni gastronomiche temporalmente limitate, campagne di marketing che propongono viaggi nei sapori del mondo; il famoso panino preparato da Gualtiero Marchesi o i menù vegetariani sono stati elaborati in risposta alla crescenti istanze dei consumatori, che vanno alla ricerca di qualità e sapori particolari. Analogo discorso per la sensibilità sull’origine degli ingredienti (dove trionfa il Made in Italy o il richiamo al biologico): si tratta di campagne che sono portate avanti in Italia, ma non – per citare un esempio molto vicino – in Francia.
L’offerta “fast” si affianca a ristoranti monomarca o monoprodotto: a titolo di esempio si possono citare i cosiddetti Coop café, che promuovono prodotti a marchio, o il franchising di Giovanni Rana. A questi si aggiungono le attività che rientrano nel fast food etnico (kebab o sushi) o tradizionale (pizza o piadine).
Oltre alla struttura del centro commerciale, bisogna analizzare anche la disposizione interna degli ipermercati, l’offerta di prodotti esposti. Come è chiaro, i super ed ipermercati sono “figli del proprio tempo” e, dagli anni ’60 del Novecento, hanno subito un cambiamento radicale: un buon punto di osservazione per vedere gli effetti del foodscape sono i reparti etnici, cresciuti a dismisura negli ultimi anni.
Questi reparti, come le food court, sono la testimonianza di dove sta andando l’enogastronomia moderna, ovvero un ritorno alla tradizione (non necessariamente italiana), unita al sempre minor tempo da dedicare alla cucina: la preparazione di un brodo – base della cucina – richiedeva diverse ore, ma oggi questi tempi si sono ristretti.
Per rispondere alle necessità della clientela si sono sviluppati prodotti “pret a manger”, che uniscono tradizione ed innovazione.
I reparti etnici, innanzitutto, si sono ingranditi, con un’offerta sempre più variegata; ai cibi asiatici, in primis noodles, si sono aggiunti piatti messicani, indiani, ma anche dell’est Europa o marocchini. Il cous cous viene venduto in prossimità dei cetrioli giganti e dei nachos, accanto al riso basmati e agli spaghetti di riso o di soia, in una sorta di viaggio culinario nel mondo globale e dalle distanze fortemente ridotte.
A poca distanza dal cibo etnico, spesso nello stesso reparto, troviamo la polenta al baccalà, piuttosto che la ribollita toscana o la zuppa di legumi: piatti della tradizione italiana la cui preparazione, grazie alla tecnologia, è stata “condensata”. Si tratta di cibi pronti in 2-3 minuti, magari al microonde, o in padella, tramite processi di preparazione che prevedono la re-idratazione o l’aggiunta di ingredienti freschi o che completano il piatto in fase di presentazione (il classico giro d’olio a crudo).
Un’offerta quella etnica ed esotica che si arricchisce con i banchi dei freschissimi, con frutta esotica e postazioni che preparano sushi sul momento, sostituendo quelli preparati in atmosfera protetta o surgelati.
Il mercato chiede di provare l’esotismo, ma in maniera edulcorata, con sapori meno forti, meno decisi, e tempi di preparazione molto più ridotti rispetto a quelli tradizionali.
Out of GDO
Questo foodscape esce anche dai supermercati e lavora sul tessuto cittadino, creando dei negozi etnici, piuttosto che delle botteghe etniche, che diventano luogo di approvvigionamento di cibo, ma anche di ritrovo per le comunità di migranti.
All’inizio furono i call center ad assumere questo ruolo: gestiti – almeno all’inizio degli anni 2000 – da senegalesi offrivano comunicazioni con la madrepatria ed internet a poco prezzo. In alcuni caso offrivano anche qualche specialità enogastronomica, ma erano gli albori.
Poi si è arrivati alla costruzione di negozi etnici effettivamente gestiti e rivolti ad una minoranza etnica (e non quindi i vari mercatini solidali). Proprio in questi negozi si vede la sovrapposizione tra ethno- e foodscape. Pensiamo ad esempio alle macellerie Halal, localizzate sempre dove si ha una presenza significativa di musulmani. In esse, oltre alla carne (naturalmente è escluso il maiale) troviamo anche pentolame e prodotti tipici fatti arrivare direttamente dalla madre patria. Perché, come si sa, il cibo “di casa propria” è sempre migliore. Analogo discorso per i negozi che vendono cibo cinese piuttosto che dell’Europa dell’est: le minoranze di acquartierano e portano non solo le proprie ricette (l’aspetto culturale della cucina), ma anche i propri prodotti.
Conclusioni
Il cibo, oggi, è dovunque, e la sua diffusione in ambito mediatico e culturale testimonia un netto cambio di prospettiva. Nelle librerie esistono vasti reparti dedicati all’enogastronomia ed ai suoi scritti, per non parlare poi dell’influsso mediatico che la cucina ha: ogni canale delle tv generaliste ha la sua porzione di palinsesto dedicata alla cucina, tralasciando le tv specializzate…
La cucina è diventata terreno di incontro tra le culture: nella Gdo si assiste ad un vero e proprio “flusso” di cibi, di tendenze culinarie che attraversano i cinque continenti in una continua interazione tra di loro. Il cibo etico si mischia a quello etnico, flussi di cibi si sovrappongono a flussi di popoli. E non solo nei supermercati: assistiamo a diverse iniziative dove si fanno sedere a tavola diverse culture, per creare integrazione tra comunità di migranti e autoctoni proprio sfruttando il cibo e “la pancia”. Sedersi ad un tavolo per mangiare insieme è un’iniziativa di successo per metabolizzare l’alterità.
Ma la cucina è anche terreno di scontro. Pensiamo alla diffidenza verso la ristorazione cinese (ed i suoi stereotipi), ma anche alle polemiche ed ai flame di sdegno suscitati da alcune notizie su Facebook quando si assiste alla condivisione ad oltranza di post relativi ai migranti “islamici” che “ieri”, nel loro centro di accoglienza italiano, hanno buttato via il cibo.
Si tratta di segni evidenti che l’unione, l’amalgama tra le culture, passa proprio dal cibo. Vedere coesistere pacificamente in un ipermercato cibi halal con pani azzimi ebraici, pizzerie napoletane con ristoranti all you can eat, MacDonald con tigellerie, è forse la migliore risposta a certi episodi di violenza (reale o virtuale) causati forse dall’aver preso troppo “di pancia” – è il caso di dirlo – la problematica migrazione ed integrazione.