Il “Generale” Custer si sporse in avanti sulla sella studiando attentamente la valle sottostante e, voltandosi verso il giovane trombettiere, gli affidò l’importante messaggio. Il ragazzo era John Martin, al secolo Giovanni Martini, l’ultimo bianco che vide Custer vivo, l’unico bianco che il destino scelse di salvare quel giorno sul Little Big Horn.
Giovanni Crisostomo Martini nacque a Sala Consilina in provincia di Salerno probabilmente attorno al 18 gennaio 1853, orfanello rinvenuto sulle scale della Chiesa dell’Annunciazione avvolto in un semplice panno bianco. La sua avventura iniziò presto, quando appena 14enne lasciò il piccolo paese campano per immergersi nella 3^ Guerra d’Indipendenza e arruolarsi come tamburino nel “Corpo Volontari Italiani” di Giuseppe Garibaldi, con i quali partecipò attivamente alla campagna Tridentina del 1866/1867 per liberare dalla Regola Austriaca Veneto e Trentino militando, probabilmente, anche nella battaglia di Mentana e forse nella guerra Franco-Prussiana del 1870.
Nel marzo del 1873, Giovanni, poco più che ventenne, inebriato come molti altri giovani italiani ed europei dal fascino del Nuovo Mondo, si imbarcò a Napoli sul veliero inglese SS Tyrian di Glasgow diretto a New York, dove si stabilì per qualche tempo con il nome anglofonizzato di John Martin. La vita a Brooklin era ben misera per i molti immigrati costretti a lavori faticosi, saltuari e sottopagati, per cui John rispose ben presto alla chiamata alle armi dell’Esercito, in continua ricerca di giovani disoccupati e particolarmente attento ai molti italiani ansiosi di combattere, dopo decenni di attività rivoluzionaria e di guerra di riunificazione in Madre Patria. John Martin non era diverso dagli altri ed il 1° giugno 1874 si arruolò come trombettiere venendo assegnato alla Compagnia H del Settimo Cavalleria dell’Esercito degli Stati Uniti di stanza nel Territorio Indiano, in allerta per l’irrequietezza dei Sioux delle Grandi Pianure.
Dal suo foglio matricolare il soldato 21enne risultava “alto un metro e 68, occhi marroni, capelli neri e carnagione scura. Soldato disciplinato e volenteroso.” L’apprezzamento dei propri superiori in quel periodo non era così scontato per una giovane recluta, i territori di frontiera infatti erano terre turbolente, inospitali e senza legge, l’alta mortalità tra i soldati non era solamente causata dall’incredibile forza con cui le tribù pellerossa si opponevano all’Esercito, ma spesso era dovuta anche a problemi come l’alimentazione insufficiente, i servizi igienici inesistenti, l’alcolismo dilagante, l’impreparazione dei militari, spesso non addestrati adeguatamente a cavalcare ed all’uso delle armi. I commilitoni di John erano per il 70% immigrati (soprattutto italiani, polacchi, messicani, tedeschi, inglesi ed irlandesi) ed i pochi americani erano spesso ex confederati, economicamente in ginocchio a causa della Guerra Civile da poco conclusa. Insomma una forza di disperati difficilmente governabile sia a causa della scarsa disciplina sia per le differenti lingue parlate dai soldati, anche se molti degli ufficiali tra i quali il Ten. Col. George Armstrong Custer erano esperti e spietati veterani della Guerra di Secessione (le imprese valorose di Custer nella “Civil War” gli valsero il rango temporaneo – brevet – di Generale, idealmente riconosciuto anche in seguito, una volta riacquisito il grado originario). Per tali motivi il mantenimento dell’ordine era imprescindibile e le punizioni molto severe: in base alla gravità delle mancanze i soldati venivano a volte fatti marciare con lo zaino carico di sassi sotto il sole, oppure frustati o ancora legati per ore a terra sotto il calore rovente, fino anche alla fucilazione per i reati più gravi. Custer in particolare si distinse per severità, nel 1867 fu persino deferito e poi assolto dalla Corte Marziale dall’accusa di crudeltà sui sottoposti, pur avendo avuto comunque il pregio di dare spesso l’esempio, nonsolo in termini di coraggio, ma anche sottoponendosi assieme ai suoi uomini alle medesime esercitazioni e alle marce più dure, riscuotendo spesso il loro rispetto (nonchè l’invidia di altri Ufficiali meno capaci).
Giovanni Crisostomo Martini nacque a Sala Consilina in provincia di Salerno probabilmente attorno al 18 gennaio 1853, orfanello rinvenuto sulle scale della Chiesa dell’Annunciazione avvolto in un semplice panno bianco. La sua avventura iniziò presto, quando appena 14enne lasciò il piccolo paese campano per immergersi nella 3^ Guerra d’Indipendenza e arruolarsi come tamburino nel “Corpo Volontari Italiani” di Giuseppe Garibaldi, con i quali partecipò attivamente alla campagna Tridentina del 1866/1867 per liberare dalla Regola Austriaca Veneto e Trentino militando, probabilmente, anche nella battaglia di Mentana e forse nella guerra Franco-Prussiana del 1870.
Nel marzo del 1873, Giovanni, poco più che ventenne, inebriato come molti altri giovani italiani ed europei dal fascino del Nuovo Mondo, si imbarcò a Napoli sul veliero inglese SS Tyrian di Glasgow diretto a New York, dove si stabilì per qualche tempo con il nome anglofonizzato di John Martin. La vita a Brooklin era ben misera per i molti immigrati costretti a lavori faticosi, saltuari e sottopagati, per cui John rispose ben presto alla chiamata alle armi dell’Esercito, in continua ricerca di giovani disoccupati e particolarmente attento ai molti italiani ansiosi di combattere, dopo decenni di attività rivoluzionaria e di guerra di riunificazione in Madre Patria. John Martin non era diverso dagli altri ed il 1° giugno 1874 si arruolò come trombettiere venendo assegnato alla Compagnia H del Settimo Cavalleria dell’Esercito degli Stati Uniti di stanza nel Territorio Indiano, in allerta per l’irrequietezza dei Sioux delle Grandi Pianure.
Dal suo foglio matricolare il soldato 21enne risultava “alto un metro e 68, occhi marroni, capelli neri e carnagione scura. Soldato disciplinato e volenteroso.” L’apprezzamento dei propri superiori in quel periodo non era così scontato per una giovane recluta, i territori di frontiera infatti erano terre turbolente, inospitali e senza legge, l’alta mortalità tra i soldati non era solamente causata dall’incredibile forza con cui le tribù pellerossa si opponevano all’Esercito, ma spesso era dovuta anche a problemi come l’alimentazione insufficiente, i servizi igienici inesistenti, l’alcolismo dilagante, l’impreparazione dei militari, spesso non addestrati adeguatamente a cavalcare ed all’uso delle armi. I commilitoni di John erano per il 70% immigrati (soprattutto italiani, polacchi, messicani, tedeschi, inglesi ed irlandesi) ed i pochi americani erano spesso ex confederati, economicamente in ginocchio a causa della Guerra Civile da poco conclusa. Insomma una forza di disperati difficilmente governabile sia a causa della scarsa disciplina sia per le differenti lingue parlate dai soldati, anche se molti degli ufficiali tra i quali il Ten. Col. George Armstrong Custer erano esperti e spietati veterani della Guerra di Secessione (le imprese valorose di Custer nella “Civil War” gli valsero il rango temporaneo – brevet – di Generale, idealmente riconosciuto anche in seguito, una volta riacquisito il grado originario). Per tali motivi il mantenimento dell’ordine era imprescindibile e le punizioni molto severe: in base alla gravità delle mancanze i soldati venivano a volte fatti marciare con lo zaino carico di sassi sotto il sole, oppure frustati o ancora legati per ore a terra sotto il calore rovente, fino anche alla fucilazione per i reati più gravi. Custer in particolare si distinse per severità, nel 1867 fu persino deferito e poi assolto dalla Corte Marziale dall’accusa di crudeltà sui sottoposti, pur avendo avuto comunque il pregio di dare spesso l’esempio, nonsolo in termini di coraggio, ma anche sottoponendosi assieme ai suoi uomini alle medesime esercitazioni e alle marce più dure, riscuotendo spesso il loro rispetto (nonchè l’invidia di altri Ufficiali meno capaci).
Nella metà del 1876 Martin scriveva in una nota del suo diario: \” … Siamo arrivati a Fort Abraham Lincoln nei territori del Dakota, il 7° Cavalleria dopo diversi anni si è finalmente unito il 12 maggio sotto il Comando del Generale Terry. E’ arrivato anche il Generale Custer da Washington … ”. In quel periodo infatti il Generale Sheridan aveva dato ordine alle truppe di muovere verso le Black Hills per sedare una rivolta indiana. Le forze, suddivise in tre colonne provenienti rispettivamente dal Montana, dal Wyoming e dal Dakota, dovevano convergere nella regione del Powder River in cui le guide avevano avvistato il movimento di circa 800 nativi guidati da Toro Seduto e Cavallo Pazzo, da catturare e ricondurre nella riserva.
La colonna Dakota – di cui faceva parte il 7° Rgt. Cavalleria – avrebbe dovuto essere comandata dallo stesso Custer e non dal Generale Terry, se nel marzo dello stesso anno l’Ufficiale – esperto e coraggioso ma anche impulsivo e poco incline alla disciplina – non fosse stato trattenuto presso una Commissione d’Inchiesta del Congresso a Washington, per rendere testimonianza su uno scandalo per corruzione, denunciato dallo stesso Custer, che vedeva coinvolti il Segretario di Stato per la Guerra William. W. Belknap, il fratello del Presidente degli Stati Uniti Orville Grant e alcuni commercianti che avevano venduto derrate all’Esercito sottraendole illegalmente dalle forniture destinate alle Riserve indiane. La denuncia di Custer fu duramente criticata dai Repubblicani, venendo invece lodata dalla stampa democratica. L’Ufficiale quindi, destituito dal Comando, sapeva che la sua carriera, a questo punto, rimaneva appesa ad un filo e solo l’intercessione in suo favore da parte del Generale Terry, che si fidava dell’intuito bellico di Custer, convinse Washington a rimetterlo in gioco ridandogli comunque il Comando del 7° Cavalleria, in seno alla Colonna Dakota. La Campagna delle Black Hills era cominciata.
Notte del 24 giugno: gli Squadroni del 7° Cavalleria, inviati in avanscoperta dal Gen. Terry tra la vallata del Rosebud e quella del Little Bighorn, preparavano il bivacco esausti e stremati per la marcia forzata. Le istruzioni di Terry suggerivano a Custer di dirigere ancora più a sud lungo il Rosebud attendendo fino al giorno 26 il ricongiungimento con le altre colonne, ma le tracce fresche dell’accampamento scovate la sera precedente dagli scout Absaroka, convinsero l’Ufficiale a forzare i tempi.
Alba del 25 giugno: Custer dalla collina del Crow’s Nest scrutava tra la foschia con il suo cannocchiale senza riuscire a vedere l’accampamento nemico, ma solamente un piccolo gruppo di Sioux darsi alla fuga su alcuni crinali poco distanti; ogni speranza di sorpresa era ormai perduta e per impedire la fuga degli indiani (i quali, sebbene combattenti coraggiosi e resistenti, preferivano notoriamente mettere in salvo donne e bambini piuttosto che impegnarsi in un confronto armato con l’Esercito) bisognava attaccare al più presto, adottando la ormai collaudata manovra a tenaglia in modo da non lasciare scampo agli avversari. Inoltre la presa in ostaggio di donne e bambini avrebbe senz’altro costretto i guerrieri ad arrendersi e rientrare nella Riserva. Il Reggimento fu suddiviso in 4 distaccamenti: il Maggiore Marcus Reno con tre Compagnie avrebbe attaccato il villaggio da Sud attraversando un piccolo torrente (in seguito chiamato Reno Creek), seguito a distanza dal Capitano Thomas Mc Dougall e dal suo convoglio di muli carichi di vettovagliamenti e munizioni, mentre al Capitano Frederick Benteen furono affidate altre tre Compagnie per un’ampia manovra sul fianco sinistro di Reno con lo scopo di intercettare eventuali gruppi in fuga; Custer con 5 Compagnie avrebbe sfondato il villaggio irrompendo da un promontorio posto a settentrione, sulla riva opposta del torrente.
Ore 15.00: mentre i soldati controllavano sella e armi, Custer raggiunse l’altura a cavallo unitamente ai suoi attendenti ed a John Martin il quale, successivamente, dichiarò “Il Comandante mi diceva di stare dietro di lui mentre salivamo in cima alla collina, da cui potevamo finalmente vedere tutto il villaggio di Sitting Bull.\” Custer ebbe per la prima volta una visione completa della vastità dell’accampamento indiano e delle migliaia di guerrieri: ordinò subito al giovane trombettiere che gli stava al fianco di correre a chiedere rinforzi alla colonna di Benteen rimasta in retroguardia. Il Tenente William W. Cooke, per il timore che il ragazzo di lingua italiana non avesse ben capito il senso del messaggio, pensò di metterlo per iscritto su un foglietto (oggi conservato nel Museo di West Point): “Benteen come on. Big Village. Be quick. Bring Packs” (che tradotto significa “Benteen raggiungici. Un grande villaggio. Sbrigati. Porta le salmerie”, queste ultime da identificare con rifornimenti e munizioni). Custer si era reso conto troppo tardi della propria schiacciante inferiorità numerica (non i circa 800 ostili stimati ma diverse migliaia, forse addirittura 10.000 indiani erano confluiti sotto la guida di Toro Seduto) e cercava ora di riunire le truppe, preparandosi ad una lunga resistenza.
Ore 15.20: John con la tromba a tracolla infilò il pezzo di carta nel guanto e partì ventre a terra giù per la collina. A dispetto della sua giovane età e a differenza di molti suoi commilitoni l’italiano era un esperto cavaliere, veterano di terribili guerre in Europa e forse per questo in un frangente così delicato si trovava al fianco del Comandante; forse per questo Custer gli aveva affidato la propria vita e quella dei suoi Cavalleggeri. Tra i resoconti del trombettiere si legge: \”ho cavalcato in fretta e furia fin sulla cresta della collina di fronte, guardando indietro ho visto che gli Indiani avevano già attaccato e che i nostri ragazzi stavano reagendo con eccitazione. Ho fermato solo un attimo il mio cavallo e sono rimasto a guardare l’azione in lontananza. In quel momento non immaginavo che quella era l’ultima volta che vedevo quegli uomini vivi”. Mentre incitava violentemente il cavallo il ragazzo avvertì le prime scariche di fucileria, guerrieri urlanti sbucavano da ogni parte, le pallottole gli fischiavano attorno rischiando innumerevoli volte di colpirlo. Testa bassa e redini a frusta, doveva farcela.
Ore 16.00: il Capitano Benteen lesse il messaggio consegnatogli dal giovane soldato arrivato come un fulmine, senza fiato e stralunato per lo sforzo compiuto. Senza apparente fretta, passando il foglietto al Capitano Thomas Weir , chiese a Martin l’esatta posizione di Custer. Per John solo il tempo di cambiare il cavallo che lo aveva condotto in salvo e che ora, con la bava alla bocca, sgorgava sangue dal collo come una fontanella. Quando gli Squadroni guidati dal trombettiere italiano giunsero nel teatro della battaglia le truppe di Reno erano allo sbando: dopo la fallita penetrazione dell’angolo meridionale del villaggio erano subito rimaste schiacciate dall’enorme numero di guerrieri (si stima un rapporto di uno a dieci), provando ad abbozzare una difesa e poi una ritirata ben presto diventata una disastrosa fuga prima nel torrente e poi trincerandosi su un vicino promontorio (poi chiamato Reno Hill). Le perdite erano enormi, il Comando delle operazioni fu subito preso dal Capitano Benteen, molto più calmo e lucido del Maggiore Reno, ormai crollato psicologicamente e praticamente incapace di dare ordini. Il quadrato di difesa si ricompose ma non vi era nessuna apparente possibilità di uscire dalla trappola per raggiungere le postazioni di Custer, almeno così valutò Benteen, in disaccordo con alcuni Ufficiali subalterni che volevano obbedire agli ordini impartiti e tentare ricongiungersi al “Generale”: il Capitano Weir, in particolare, con la propria Compagnia decise autonomamente di dirigersi verso le postazioni di Custer venendo tuttavia ben presto bloccato da formazioni di guerrieri. Cavallo Pazzo, sull’altro fronte conduceva gli attacchi in maniera efficace e scientifica, puntando ad isolare gruppetti di soldati che venivano facilmente neutralizzati. La situazione sulla Reno Hill rimase precaria per due giorni a causa della spietata determinazione con cui le bande Sioux e Cheyenne si alternavano nell’assedio. Il caldo, la sete, la polvere, le grida impazzite di cavalli e muli terrorizzati, gli uomini trincerati che ad uno ad uno venivano colpiti dal fuoco avversario. Diversi sopravvissuti, tra cui Martin, avrebbero poi testimoniato che molte vite furono sicuramente salvate da un Benteen fresco e composto, unico riferimento rimasto tra i soldati in preda al panico. I Sioux ritirarono l’assedio improvvisamente il 27 giugno, poche ore prima dell’arrivo delle colonne “Dakota” e “Montana”.
Sulle colline vicine, i cadaveri di Custer e dei 210 componenti dei suoi 5 Squadroni vennero rinvenuti sparsi in mezzo all’erba, spogliati e scalpati, resi irriconoscibili dalle orrende mutilazioni e dagli spasimi della morte; unico superstite il cavallo del Capitano Keogh, testimone muto di tanta follia. Possiamo solo immaginare l’animo del soldato Martin quando vide lo scempio dei suoi commilitoni: sarebbe stato anche lui là nell’erba, trucidato come gli altri se il suo Comandante non gli avesse dato quell’incarico di portaordini. Affranto, avrebbe voluto ritirarsi nell’ombra e nel silenzio. Ma non fu possibile.
Sulle colline vicine, i cadaveri di Custer e dei 210 componenti dei suoi 5 Squadroni vennero rinvenuti sparsi in mezzo all’erba, spogliati e scalpati, resi irriconoscibili dalle orrende mutilazioni e dagli spasimi della morte; unico superstite il cavallo del Capitano Keogh, testimone muto di tanta follia. Possiamo solo immaginare l’animo del soldato Martin quando vide lo scempio dei suoi commilitoni: sarebbe stato anche lui là nell’erba, trucidato come gli altri se il suo Comandante non gli avesse dato quell’incarico di portaordini. Affranto, avrebbe voluto ritirarsi nell’ombra e nel silenzio. Ma non fu possibile.
Un anno dopo, John Martin, ancora trombettiere nel ricostituito 7° Cavalleria, partecipò alla campagna contro il Capo Joseph e i suoi Nasi Forati (ennesima pagina di violenza e sangue questa volta a danno degli indiani che fuggiti dall’Idaho tentavano di rifugiarsi in Canada ove era riparato Toro Seduto) tra cui la battaglia di Canyon Creek in Montana nel giugno 1877. La vendetta dell’uomo bianco per l’onta di Little Bighorn era appena cominciata. Negli anni successivi il giovane italiano dovette testimoniare più volte nei procedimenti penali e nelle inchieste governative che seguirono il massacro di Custer. La sua testimonianza fu essenziale per stabilire le accuse di “codardia” a carico del Maggiore Reno e di “disobbedienza” nei confronti del Capitano Benteen, (entrambi assolti formalmente ma rimasti macchiati da quell’evento) per aver abbandonato Custer al suo tragico destino. Gli infiniti dibattiti sui presunti errori di Custer nel guidare l’attacco, sulle teorie del complotto repubblicano ai suoi danni, sull’eroismo romantico del 7° Cavalleria, furono talmente intensi negli anni che seguirono (e continuano a tutt’oggi) che passò in secondo piano persino il genocidio del popolo delle pianure, che pagò a caro prezzo la schiacciante vittoria sul Little Bighorn. John Martin, pur essendo spesso chiamato da storici e giornalisti per rilasciare dichiarazioni, interviste e resoconti, non smise mai di tenere i piedi ben piantati per terra, mantenendo umiltà e profilo basso in ogni circostanza. Il 24 giugno 1879 lasciò il 7° Cavalleria per continuare la sua carriera come musicista nel 3° Rgt. Artiglieria di Baltimora, dove sposò Julia Higgins, una 19enne ragazza irlandese. Quello che ormai era divenuto famoso come il trombettiere di Custer visse in relativa pace e tranquillità fino allo scoppio della guerra ispano-americana del 1898, periodo in cui dovette trasferire la famiglia prima a Tampa in Florida e poi a Cuba, rientrando definitivamente negli States alla fine delle ostilità, nel maggio 1901. Tre anni dopo, posto in pensione con il grado di Primo Sergente Maggiore dopo 30 anni di onorato servizio, aprì un negozio di dolciumi nei pressi di Baltimora; all’epoca era padre di otto figli, uno dei quali, George (così chiamato in ricordo del Comandante Custer) divenne Generale dell’Esercito. Nel novembre 1906 il Washington Times Magazine pubblicò un ampio articolo sulla figura di John Martin, divenuto nel frattempo bigliettaio nella nuova metropolitana di New York City, nel cui testo egli viene indicato come: “… dritto e robusto come allora, dispensa sempre un perfetto saluto militare ai dirigenti della metropolitana che lo conoscono personalmente e che non omettono mai di fermarsi per un minuto con l’antico veterano di almeno tre campagne attive. … Martin ha tenuto un diario dettagliato dell’intero servizio militare, che ha sempre messo a disposizione degli intervistatori per eventuali scopi di verifica storica …”.
L’ultima battaglia del trombettiere John Martin si concluse in ospedale il 24 dicembre 1922, all’età di 69 anni, 10 giorni dopo essere stato investito da un autocarro pieno di casse di birra mentre attraversava una strada di Brooklin. Così alla vigilia di Natale finì, ironia della sorte, l’avventura dell’emigrante italiano, descritto da figli e conoscenti come un uomo buono, semplice e amante della famiglia. Nonostante le sue molte peripezie, per l’immaginario collettivo John Martin rimarrà sempre il trombettiere italiano del 7° Cavalleria. Al civico 833 di Jamaica Avenue a Brooklin, accedendo al cimitero militare di Cypress Hill, spicca oggi la scritta “state entrando nel bivacco dei morti”. Qui, in questo immaginario ultimo bivacco, si trova anche Giovanni Crisostomo Martini, sulla sua lapide qualcuno ha inciso la frase “portò l’ultimo messaggio del Generale Custer. Battaglia di Little Bighorn – 25 giugno 1876”.