Pietro Rigosi e la guerra santa dei pezzenti

Non so che viso avesse, neppure come si chiamava, con che voce parlasse, con quale voce poi cantava, quanti anni avesse visto allora, di che colore i suoi capelli, ma nella fantasia ho l’immagine sua ,gli eroi son tutti giovani e belli”. 

Con queste parole inizia la canzone La Locomotiva di Francesco Guccini.

Ma perché Guccini avrebbe dovuto scrivere una canzone parlando di una locomotiva?
Giorgio Gaber, ironico quanto serve, disse: “tenetevi stretto Guccini, uno che è riuscito a scrivere 13 strofe su una locomotiva può scrivere davvero di tutto”.
Francesco non scrisse questa canzone per narrare l’epopea delle ferrovie, bensì per ricordare il folle gesto di un anarchico, il cui nome appartiene alla storia dimenticata di questo paese.
La canzone è compresa nell’album Radici del 1972. E’ tra le opere più note del cantautore modenese, tanto che la ripropose alla fine di ogni concerto per molti anni, tranne quelli terribili del terrore portato dalle Brigate Rosse.
In un’intervista lo stesso cantautore spiega i motivi che lo condussero a scrivere questa ballata: “la mia è una visione romantica, la canzone nasce da incontri strani. In un diario di ex operai del bolognese dell’ottocento, avevo trovato la storia di questo Pietro Rigosi, che arrivato in officina s’impadronisce di una locomotiva e si dirige a velocità folle verso Bologna. Deviata su un binario morto, si schiantò contro carri merci fermi. Sbalzato dall’abitacolo, Rigosi sopravvisse ma non disse mai i perché. Il mio vicino di casa Mignani mi spiegò che era stato un gesto anarchico. Conoscevo uno del circolo anarchico di Carpi e parlandoci mi è venuta voglia di scrivere una canzone in stile Pietro Gori. Non ho mai scritto così veloce, ci ho messo mezz’ora. Scrivevo e prendevo appunti, e l’inizio mi è venuto per ultimo. Il musicologo Roberto Leydi definì La Locomotiva la più bella canzone popolare del Dopoguerra”.
Possono bastare le parole del grande cantautore per girare questa pagina del libro di storia?
Assolutamente no.
Pietro Rigosi nacque a Bologna nel 1864. All’epoca dei fatti, 1893, aveva 28 anni, era sposato e padre di due bambine, la grande di tre anni e la piccola di soli dieci mesi. Svolgeva la mansione di aiuto macchinista, fuochista, nelle Ferrovie Italiane come ricorda Guccini: Conosco invece l’epoca dei fatti, qual’era il suo mestiere, i primi anni del secolo, macchinista, ferroviere, i tempi in cui si cominciava la guerra santa dei pezzenti, sembrava il treno anch’esso un mito di progresso”.
Il 20 luglio del 1893 iniziò il proprio turno di lavoro impadronendosi di una locomotiva in sosta, una 3541 della Rete Adriatica, nella stazione di Poggio Renatico, approfittando dell’assenza del macchinista titolare, Carlo Rimondini. Rigosi decise di staccare la locomotiva dal treno merci che avrebbe dovuto trainare.
Ad oltre un secolo di distanza non possiamo avere certezze sulle cause che portarono il macchinista a compiere il folle gesto. Potremmo pensare che la situazione finanziaria della famiglia non fosse delle migliori, ma imputando solo a questa causa il gesto di Rigosi cancelleremmo con un solo pensiero il periodo nel quale si svilupparono i fatti. Gli anni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento furono densi di attentati e omicidi commessi dagli anarchici italiani, i quali erano sostenitori convinti dell’oppressione del sistema borghese ai danni della classe proletaria. L’oppressione si sviluppava attraverso condizioni di lavoro difficili, salari molto bassi ed ineguaglianze sociali evidenti in ogni ambiente della società. Dovremmo tutti ricordare l’omicidio dell’imperatrice Sis(s)i ed il regicidio di Umberto dall’anarchico Bresci. Guccini nel testo ci riporta quell’atmosfera: Ma un’altra grande forza spiegava allora le sue ali, parole che dicevano gli uomini son tutti uguali, e contro ai re e ai tiranni scoppiava nella via, la bomba proletaria che illuminava l’aria, la fiaccola dell’anarchia”.
In quell’assolato giorno di luglio del 1893 Pietro Rigosi prese la decisione: si sarebbe scagliato a folle velocità, 50 km/h, contro un treno di lusso che transitava quotidianamente dalla stazione di Bologna. L’oppressione sociale si sviluppava nella differenza di classe: nella prima le carrozze e i convogli erano di gran lusso, per le classi inferiori vi erano carrozze fatiscenti e le persone erano assiepate come bestie.
Rigosi non riuscì a compiere il folle gesto grazie all’intervento del personale tecnico delle ferrovie che riuscì a deviare la corsa su un binario morto. La locomotiva, “che sembra dire ai contadini curvi il fischio che si spande in aria: fratello non temere che corro al mio dovere”, si schiantò contro sei carri merci in sosta lungo quel binario morto della stazione di Bologna.
Pietro Rigosi riuscì a sopravvivere all’incredibile schianto, come ricorda Guccini: La storia ci racconta come finì la corsa, la macchina deviata lungo una linea morta, con l’ultimo suo grido d’animale la macchina eruttò lapilli e lava, esplose contro il cielo, e poi il fumo sparse il velo, lo raccolsero che ancora respirava”.
Fu ricoverato all’ospedale di Bologna, dove gli dovettero amputare una gamba. Il viso di quell’uomo restò sfigurato per sempre da orrende cicatrici. Durante il ricovero un giornalista della Gazzetta Piemontese riuscì a strappare qualche parola al macchinista anarchico: “che importa morire? Meglio morire che essere legato”.
Non fu istruito nessun processo e nessuna pena giudiziaria colpì Rigosi. Fu esonerato dal servizio in ferrovia per motivi di salute. Ricevette un sussidio che rifiutò di ritirare poiché la motivazione alla base dello stesso era “buona uscita”. Accettò di ritirare le somme a lui destinate solo quando la motivazione fu sostituita dalla parola “elargizione”.
Questo fu l’ultimo momento in cui Pietro Rigosi entrò nella storia di questo paese.
Da quell’istante l’oblio coprì l’uomo della Locomotiva.

Ma a noi piace pensarlo ancora dietro al motore
mentre fa correr via la macchina a vapore
e che ci giunga un giorno ancora la notizia
di una locomotiva, come una cosa viva
lanciata a bomba contro l’ingiustizia”.


Fabio Casalini

FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità… sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

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