Ci sono valli straordinarie e sorprendenti il cui cuore timido resta a galleggiare immerso nella pacatezza di un atavico riserbo.
Difficilmente ne leggerete su guide specializzate o riviste del settore se non per qualche abborracciato trafiletto in forma di filler.
Difficilmente ne leggerete su guide specializzate o riviste del settore se non per qualche abborracciato trafiletto in forma di filler.
Luogo ombroso e solitario in questo spicchio di nord del Piemonte, sano nutrimento per lo spirito, trapuntato di fresche fonti dove sostare a contemplare il refrigerante zampillio fatto di chiodi d’acqua in cui si riflette il lontano biancheggiare degli alpi. Zeda e Marona, vette così vicine eppur così distanti che si vorrebbero afferrare mentre un sottile piacere ci ferisce nel prolungarne l’attesa.

Perimetri frastagliati e solenni, memorie di sentieri appena accennati come il tratteggio di una virgola, intarsi di balme che si riversano in una sella ornata da una manciata di baite e prati cosparsi di fiori scarlatti che guizzano sottili fra la tenera erba nella novella stagione. Ma ecco sul finire della selva un profilo femminile; si scorge la figura fuggire muta ed infreddolita avvolta nello scialle, sulle spalle grava il peso della sciuera, cammina lenta sotto il peso degli anni, costeggia il cimitero, si segna e scompare nell’abbacinante piova di luce.
Siamo alle spalle di Intra, qui sorge la valle Intrasca. Incerto confine tra Val Grande e le propaggini più occidentali della Val Cannobina. Turismo pressoché inesistente, salvo nei mesi estivi, conserva ancora un fascino del tutto genuino ed autentico.
Al suo ingresso ci accoglie Ramello, in realtà frazione del comune di Cambiasca, adagiato nel fondovalle, posto sulla destra orografica del torrente San Giovanni. Un borgo di origini quattrocentesche che oggi conta circa 300 anime. Nel passato (antecedente l’emigrazione esplosa nei decenni del primo ‘900 ) fungeva da importante snodo commerciale per la relativa vicinanza con Intra .
Si contavano ben 6 osterie e numerosi mulini per la macinazione delle granaglie, oltre ad una miniera di rame e a svariate botteghe artigiane.
Annidati qualche centinaio di metri più in alto, grappoli di case annunciano Caprezzo (cavrésc). Anche se di bovidi su questi pendii non se ne sono visti poi molti.
Castagne, noci e canapa erano le esigue risorse reperibili; la pignatta, a parte una fetta di polenta fredda e formaggio, era quasi sempre vuota. Secondo le memorie lasciate dal parroco don Antonio Varalli nei primi anni dell’800 vennero sospese anche le abituali feste dell’oratorio a causa dell’estrema situazione di povertà in cui versava il paese.
Seguendo il graffio d’asfalto che insegue il fiume si giunge a Ponte Nivia dove un tempo era d’obbligo la sosta nella bella osteria accovacciata lungo la strada. Una pausa per degustare un buon piatto di trippa o un semplice bicchiere di rosso era la routine del viandante. Oggigiorno tutto ciò che resta è una sbiadita insegna che rammenta ai distratti passanti l’esistenza che fu dell’antica locanda.
Sulla sinistra una tortuosa strada aggredisce il versante che conduce ad Intragna e alle frazioni di Cambiesso e Gabbio, da dove è possibile inforcare il sentiero per il Pian Cavallone.
Uno dei “balconi” più esclusivi sulla valle, il verbano ed oltre in cui l’azzurro si stempera in bellezze che non si sanno dire unendo come una cerniera il cielo alla terra.
“E’ come camminare nel cielo” borbottava un anziano alpigiano fra questi corti , ecco perché non tardarono a fiorire leggende.
Piuttosto nota quella di Martinas e la pastorella. Un amore travagliato ed infine respinto, la vendetta consumata con la morte tragica della pastorella gettata in un profondo burrone. Ma il sangue della sventurata sparso sui prati degli alpi riemerge ogni stagione in un perpetuo ricordo attraverso il rosso purpureo dei rododendri in fiore.
Come l’arsunà, il goliardico chiamarsi tra un alpeggio e l’altro, le leggende rimbalzano tra i villaggi.
Ad Aurano si narra tra i vecchi che la Madonna abbia trovato riparo durante la sua fuga in Egitto. È sotto uno sperone di roccia, lungo la strada “del Segletta”, che pare siano visibili le impronte della Vergine oltre a quelle del Bambino, San Giuseppe e l’asinello.
Proseguendo verso Calpera c’è chi giura di aver visto rotolare sui ripidi pendii la Sguàina, una strega dalle fattezze di un neonato il cui volto mostruoso era soffocato come pallidi spettri della sera in sinistri vagiti. Alcuni anziani ricordano di aver udito nelle gelide notti di vento inconsueti gemiti provenire dalle baite di Sassello (un bell’alpeggio posto sopra Scareno) accompagnati da inspiegabili scie luminose.
Pratica ancestrale, ancor oggi in uso, è l’accensione di falò nei paesi abbarbicati sui monti della valle. Tutto ciò proviene da molto lontano, da quel limbo dove paganesimo e cristianesimo si fondono in un unica forma dai contorni ancora oggi di difficile comprensione e in cui Dio alberga in ogni rivelazione della natura. Nel polline, nei pozzi freddi d’ombra che nessuno vede, nei semi sparsi in terra, nelle albe fosche di novembre, nel vento che soffia lontano.
La pira era accesa i giorni successivi al solstizio d’estate (attorno a San Giovanni) quando il sole lentamente riacquista il suo moto discendente riducendo inesorabilmente la durata del dì. L’uomo, costantemente timoroso dell’ignoto, era spinto con l’aiuto delle fiamme rivolte verso il cielo, in un gesto propiziatorio ed esorcizzante, a contrastare l’inesorabile ciclo che conduce alla stagione del buio.
Quelle grandi cataste ardenti che brillavano sui colli erano una proiezione dei desideri dell’uomo antico, una candida preghiera di luce ebbra di sentimento, come la rugiada raccolta a cavallo di queste date a cui si attribuivano profondi poteri benefici e curativi.
Di retaggio antico la benedizione dei fiori di campo. A protezione ricevuta i fiori, raggruppati in mazzetti simili ad acquerelli, venivano posti sui davanzali delle finestre e vicino le stalle a protezione dai fulmini.
A Caprezzo si ricorda ancora l’utilizzo del “fiore si San Giovanni”. Un mazzetto di margherite veniva bruciato come ramo d’ulivo quando verso il Mottarone il cielo si tingeva di nera pece ed in lontananza echeggiavano sinistri borbottii.
Durante le violente tempeste a Scareno era consuetudine gettare i primi chicchi di grandine tra le fiamme affinché il fortunale non arrecasse danni irreversibili ad animali, oggetti e persone.
Ed il fuoco torna ad essere elemento dominante nelle remote tradizioni agresti farcite di arcaiche paure e primitivi gesti devozionali.
Preziosi filamenti mnemonici nei quali ci aggiriamo silenti e dubbiosi, mentre stupiti osserviamo i colori cangianti che la pioggia riflette dai lucidi rami imprigionati tra le piode, o perduti in delicati silenzi afferrando brandelli di cedevole muschio ospite di muri umidi e cadenti.
Cerchiamo in quest’insolita quiete, esaltata dai toni ramati del sole tardo pomeridiano, un riscontro concreto e tangibile costantemente velato dalle enigmatiche pieghe di un vertiginoso ed insensato presente.
Scontrandoci nell’assenza afferriamo un fugace ricordo come nella più bella delle stagioni già tinta d’oblio.
Aspiriamo forte con le nostre narici sottili, mentre lassù resta appesa con pudore una sottile carezza dello sguardo quasi svanita nei raggi obliqui della sera.
Filippo Spadoni