Le origini di Padova risalgono a circa tremila anni in una terra naturalmente protetta dentro l’ansa del fiume Brenta (un tempo molto più ampio di quello che possiamo vedere oggi). La particolare posizione da un lato offriva terreno fertile per buoni raccolti ma dall’altro era pericolosa per le soventi esondazioni.
Nel 49 a.C. diventa città romana, grazie alle buone relazioni che gli abitanti di allora furono in grado di stringere meritandosi il grado di “civetta”, ovvero cittadini, che garantì loro gli stessi diritti dei romani.
Per Padova incominciò un periodo di trasformazione: la civiltà romana importò le leggi, la religione, vennero impostate le strutture viarie e l’architettura mantenendo inalterati costumi e tradizioni aggiudicandosi peraltro il ruolo di terza città più importante dell’impero.
Tra il 400 e il 700 prima i Barbari di Attila, che la radono al suolo, e successivamente i Franchi Padova decretarono un lungo periodo di arresto indebolendo l’influenza dell’impero romano a favore del feudalesimo rafforzando il potere di signori locali.
Nell’anno 1000 Padova sperimenta un nuovo momento di crescita e 200 anni dopo vive uno dei secoli più importanti per la storia della città: nasce l’università, Sant’Antonio vi si stabilisce e predica, i traffici commerciali diventano molto importanti e viene costruito il Palazzo della Ragione.
Se fossimo vissuti in quegli anni a Padova avremmo potuto frequentare il grande e noto mercato di cavalli e generi alimentari che si teneva nell’attuale Piazza delle Erbe e Piazza della Frutta. I numerosi scambi e la presenza di un gran numero di commercianti (alcuni dei quali non prettamente onesti) portavano spesso a dispute e controversie.
La Famiglia Ezzelini, signori di quel periodo, decisero allora di commissionare nel 1172, a tale Pietro Cozzo, la costruzione di un edificio con 4 ingressi che servisse a redimere tali controversie, ciascuno dedicato ad un diverso tipo di commercio.
In epoca medioevale le credenze astrologiche erano particolarmente radicate tanto da far supporre che la pianta trapezioidale del palazzo non sia dovuta alla consistenza del terreno ma piuttosto a regole astrologiche che guidarono la costruzione dell’edificio, stessa cosa dicasi per gli affreschi interni che sarebbero stati posizionati in rispetto al periodo astrale dell’epoca. Esternamente si possono ammirare i loggiati impreziositi da 24 archi per ciascun lato che, non casualmente, equivalgono alle ore di una giornata.
Il tetto è a forma di nave capovolta e l’intero palazzo poggia su 90 piloni.
Il Palazzo della ragione è collegato con il Palazzo del Consiglio tramite un arco, che mette in comunicazione le due piazze, denominato “Volto della Corda”.
Appese ben in vista come monito alle pareti, a 5 anelli di pietra incastonati nel muro, vi erano altrettante robuste corde utilizzate per percuotere sulla schiena imbroglioni, insolventi, bugiardi e falliti. Non per nulla uno degli angoli di questo passaggio prende il nome di “canton delle busie” (angolo delle bugie) perchè proprio in quel luogo avvenivano gli incontri fra i mercanti, la vista delle corde avrebbe dovuto rammentar loro l’onestà. A maggior supporto per evitare imbrogli scolpite nella pietra bianca antiche misure padovane visibili ancora oggi.
Entrando nel maestoso grande salone, tra i luoghi coperti più ampi d’Italia, si può vedere la cosiddetta “pietra del vituperio”: una pietra nera simile a uno sgabello posta sopra a tre gradini.
A Padova in quei tempi essere insolventi significava spesso meritare il carcere a vita in condizioni disumane. Grazie all’intercessione di Sant’Antonio la legge del tempo fu modificata concedendo ai colpevoli la pubblica gogna, la cessione di tutti i beni seguito dall’esilio, punizione senz’altro severa ma che poteva concedere una seconda chance.
I condannati, in camicia e mutande, dovevano girare per tre volte intorno alla pietra, sedercisi sopra per altrettante volte pronunciando a voce alta la formula “cedo bonus” (rinuncio ai miei beni) e a questo punto, poveri in canna, andare in esilio dalla città. Da questa curiosa procedura pare derivi la nota espressione “rimanere in braghe di tela”, cioè in mutande, come effettivamente spogliati da tutto rimanevano i non pagatori.