Gerolamo Donato, per tutti “il Farina”

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Un uomo vestito di nero, e con un cappello che gli copriva gli occhi, entra nel palazzo.....

Chi oggi dovesse entrare in Duomo, a Milano, si potrebbe accorgere della presenza dei quadroni, le smisurate tele dipinte dal Cerano, che oscillano nel lieve vento del luogo sacro. I dipinti sono una dozzina e rappresentano gli episodi della vita di San Carlo Borromeo, cardinale e santo della chiesa cattolica.

Tra le opere di Giovanni Battista Crespi, questo il nome del Cerano, una attira maggiormente la curiosità dei visitatori: si nota un uomo ritto in piedi, con un cappello ornato da una piuma e un archibugio tra le braccia, che saetta un colpo all’indirizzo della schiena del cardinale, intento a pregare.
Per comprendere i fatti dobbiamo risalire la linea del tempo.
26 ottobre 1569.
Milano, Arcivescovado.
Un uomo vestito di nero, e con un cappello che gli copriva gli occhi, entra nel palazzo.
Quell’uomo è armato di archibugio e archibugietto.1
Velocemente attraversa i corridoi in direzione di una stanza adiacente al salone d’onore.
Chi è quell’uomo?
Chi sta cercando?
Quell’uomo si chiama Gerolamo Donato, per tutti il Farina, e sta cercando Carlo Borromeo.
Perché si presenta armato al cospetto dell’uomo di chiesa?
Nuovamente un balzo nel tempo.

Il futuro cardinale, e santo, nacque figlio di Gilberto II Borromeo e Margherita Medici di Marignano, sorella di papa Pio IV, il 2 ottobre del 1538 ad Arona, attualmente in provincia di Novara. A Milano ricevette l’abito clericale e la tonsura per mano del vescovo di Lodi, Giovanni Simonetta, all’età di 9 anni. A 12 anni ottenne in affidamento l’abbazia di san Leonardo di Siponto, nella zona di Manfredonia, con dignità di abate commendatario. Negli anni successi lo stesso incarico gli fu affidato per le abbazie dei Santi Felino e Graziano, ad Arona, di San Silano, a Romagnano, e di Santa Maria a Calvenzano.
Il rampollo dell’importante famiglia lombarda studiò a Milano materie umanistiche e, successivamente, diritto canonico a Pavia. Si laureò il 6 dicembre del 1559. Nella città lombarda creò una struttura idonea a ricevere gli studenti che versavano in gravi condizioni economiche.
Il giorno di Natale del 1559 lo zio materno, Giovan Angelo Medici di Marignano, fu eletto papa con il nome di Pio IV. Il nuovo papa chiamò a Roma i nipoti Federico e Carlo per renderli stretti collaboratori nell’amministrazione degli affari della chiesa. Un mese dopo, il 31 gennaio del 1560, il papa fece cardinale il nipote di 22 anni, affidandogli la segreteria di Stato e l’amministrazione perpetua dell’arcidiocesi di Milano. Nello stesso tempo nominò Federico al comando dell’esercito pontificio. Una perfetta strategia famigliare, che voleva ogni membro legato agli altri. Carlo Borromeo rimase fedele a questi vincoli di sangue, utilizzando molte delle energie di cui disponeva per difendere gli interessi della famiglia: fece sposare le tre sorelle a dei principi, ottenne un prestito per dotare la nipote Margherita e sistemò diversi cugini.
Il 12 maggio del 1564 fu nominato arcivescovo di Milano ma, essendo intento a peregrinare per il paese ed accumulare cariche ed oneri, inviò Niccolò Ormaneto nella città meneghina per “governare la mia chiesa di Milano e supplire alla mia assenza”.2
Con una corte composta da oltre un centinaio di persone, a cui dobbiamo aggiungere la scorta formata da una compagnia di cavalleggeri, giunse a Milano nel settembre del 1565, prima d’essere privato dell’aiuto di Ormaneto, creato vescovo di Padova.
Quali fatti intercorrono tra il 1565 e il 1569, quando un uomo si presenta armato al cospetto di Carlo Borromeo?
Il primo obiettivo del cardinale fu quello di attuare nella diocesi di Milano la riforma tridentina. In questo operato si scontrò con le resistenze dei governatori spagnoli, del senato e dei nobili.3
Questi comportamenti cosa comportarono per la città meneghina?
La decadenza economica di Milano e della Lombardia fu acuita da un programma politico di ispirazione gesuitica avente il fine di attuare la controriforma sino alle estreme conseguenze. Milano rappresentava un esperimento sociale con misure restrittive nel campo delle iniziative economiche e individuali.4
All’interno di questo operato s’inserisce l’ordine di papa Pio V di procedere alla riforma del potente ordine religioso degli Umiliati, le cui idee si erano distanziate dalla Chiesa cattolica approssimandosi verso posizioni protestanti.
Gerolamo Donato, o Donati, detto il Farina era uno di loro.
Era un umiliato.
Il problema di Carlo Borromeo, in riferimento agli Umiliati, era l’allontanamento dalle idee cattoliche?
Nell’ottica di riorganizzazione della diocesi, forse, non interessavano le ricchezze dell’ordine?
Il Farina, ed altri umiliati, decisero d’intervenire per porre fine alla vita dell’uomo divenuto cardinale.
La sera del 26 ottobre 1569, Gerolamo entrò in Arcivescovado armato di archibugio per uccidere Carlo Borromeo. Il cardinale era in preghiera, attorniato da oltre cento persone, in una cappella provvisoria di legno.
Gerolamo si affacciò alla porta e sparò.
A detta del cardinale il colpo avrebbe fatto pieno centro poiché “mi sentii all’improvviso una percossa in un osso del filo della schiena”.
Il medico di famiglia accorse immediatamente e non riscontrò nessuna ferita sulla veneranda epidermide. 5
Esploso il colpo, Gerolamo era ancora vivo, contro le più ottimistiche aspettative.
Decise di dileguarsi approfittando del generale sbigottimento.
Non lasciò la città, di cui il governatore spagnolo fece subito sbarrare le porte sottoponendo i viaggiatori a meticolosi controlli. Il Farina si rifugiò presso un fratello, nella cui soffitta nascose le armi del tentato omicidio. Alcuni giorni dopo, quando i controlli si erano affievoliti, decise di guadagnare la campagna. Normalmente i fuggiaschi si rifugiavano nella repubblica di Venezia, attraversando il confine di Gera d’Adda, o nella non lontana Svizzera italiana. Risulta molto probabile che quest’ultima sia stata la prima tappa, seguita da Gemonio, Mombello, Intra e le valli del novarese che conducevano al Ducato di Savoia. 6
All’interno del ducato di Savoia riesce a farsi arruolare nell’esercito.
Milano nel frattempo brancolava nel buio: “la commozione del fatto fu grande non solo a Milano, ma anche in tutti gli altri paesi, anzi fu maggiore altrove che non qui, ove il cardinale godeva poche simpatie.”7
Il cardinale da una parte proclamava il cristiano perdono, dall’altra nulla mise in atto per arrestare l’operato del vicario e del capitano di giustizia, i quali tiravano colpi a vuoto arrestando ed interrogando molti malcapitati poiché, il cardinale, non godeva di molte amicizie in città.
Diversi Umiliati furono incarcerati e torturati.
Qualcuno parlò.
Il 17 aprile, di lunedì, fu annunciato al cardinale la traduzione a Milano di Girolamo Donato, che il duca di Savoia a Chivasso aveva consegnato ai birri arcivescovili.
L’apostata è stato a Milano più presto che non credeva; egli giunse qua ieri circa ora di vespro, e messer Fabio Minichini li fu subito attorno, ma non si cavò niente da lui.”8
Fabio Minichini, monsignor, fu inviato dal Papa, a Milano, per la sua raffinata abilità nell’estorcere confessioni. In una lettera il vescovo di Lodi, Scarampo, scriveva che “dalle mani del Nostro Signore [il pontefice] non può uscire cosa che non sia di molta soddisfazione. Monsignor Fabio vide subito il processo ed ha cominciato a menare le mani”.
Il 17 aprile, Gerolamo Donato, detto il Farina, confessò l’archibugiata.
Il vescovo Scarampo scriveva che “arrivando monsignor Fabio, diede un po di corda al prigioniero. Questa mattina ha confessato il delitto senza tormento e dove lasciò l’archibugetto, il quale si è trovato accompagnato e uno di essi è ancora carico.”
I complici del Farina furono individuati nei frati Gerolamo Legnano, Lorenzo Campagna e Clemente Merisio.
2 agosto 1570, giorno dell’esecuzione.
A Gerolamo Legnano e Lorenzo Campagna furono mozzate le teste nelle prime ore del mattino sopra un catafalco rivestito di panno nero, simbolo dell’uguaglianza davanti alla morte.
L’ambasciatore del Duca di Ferrara, Tomaso Zerbinato scriveva che “gli altri due poco prima dell’ora del desinare passarono sopra un carro menandoli attorno alla piazza del Duomo, e giunti dinanzi alla porta del palazzo dell’Arcivescovado, tagliarono la mano che tirò l’archibugiata al cardinale. Gli menarono poi dove avevano fatto morire gli altri due. Tutti morirono contentissimamente.”
L’errore di mira di Gerolamo Donato ebbe un duplice effetto, da una parte rafforzare la posizione del cardinale all’interno della diocesi e della chiesa tutta e, dall’altra, di influire negativamente sulla vita di molte persone.
Perché si rafforzò la posizione del cardinale?
Mentre egli pregava in una cappella, fu sparato su di lui. Mai tuttavia qualche cosa gli fu più utile di questo attentato. Il popolo considerò la sua salvezza un miracolo e solo da questo momento incominciò ad avere venerazione per lui”.9
La salvezza del cardinale comportò la morte di molte persone, oltre ai responsabili dell’attentato.
Contro le streghe, o maliarde, famoso era il suo accanimento, o encomiabile a seconda dei punti di vista. Le bruciava singolarmente o a gruppi. Le povere donne erano sacrificate all’ansia di ripulire il mondo. Famosa è la sua grande spedizione punitiva in Svizzera per migliorare il canton Ticino, il territorio delle Tre Leghe e, di ritorno, la Valtellina tutta.
Abbiamo certezza della sua ossessione verso le streghe?
In una lettera del giorno 8 dicembre 1583 il cardinale scriveva che “in un vasto campo fu costruito un rogo, ciascuna della malefiche fu sopra una tavola dal carnefice distesa e legata, poi messa a boccone sulla catasta, ai lati della quale fu appiccato il fuoco. Tanto ferveva l’incendio che in poco apparvero le membra consunte, le ossa incenerite”.
Se la mira non fosse stato un problema per Gerolamo Donato, le donne considerate malefiche non sarebbero morte.

Fabio Casalini

[Parmi un assurdo che le leggi che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettano uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio – Cesare Beccaria ]

Note

1 L’archibugietto era una lunga pistola
2 Dizionario biografico Treccani
3 Luciano Vaccaro, Giuseppe Chiesi e Fabrizio Panzera,Terre del Ticino, diocesi di Lugano, Editrice la Scuola, Brescia 2003
4 Marco Formentini – La dominazione spagnola in Lombardia – Milano, Ottino 1881
5 Nella causa di canonizzazione di Carlo Borromeo si legge, per mano di monsignor Francesco Perna: il scellerato apostata gli sparò nella vita un archibugio da ruota detto terzarola, e alcuni quadretti penetrarono nelle vesti del santo sino alla carne.
6 Intra, un tempo comune a se stante, oggi con Pallanza forma la città di Verbania
7 Luigi Anfosso – Storia dell’archibugiata tirata al cardinale Carlo Borromeo – Milano
8 Oreste Clizio – Il frate che sparò a San Carlo – Editrice Nautor, 1990

9 Leopold von Ranke – Storia dei Papi nel XVI e XVII secolo – Lipsia 1936

BIBLIOGRAFIA

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